Il ponte del paradiso: racconto - 11

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Per l’amor suo e per la passione del lavoro, non aveva egli fatto
miracoli, raggiungendo una condizione invidiata? Ben lavorava per quella
donna, che era tutta la sua famiglia; e ancora non aveva egli varcato
nel cammino della vita quel mezzo, oltre il quale s’incomincia a perdere
qualche illusione e qualche speranza. Egli e Livia potevano dirsi soli
nel mondo; ma se non gli arrideva forse più l’idea di lavorare per una
nidiata d’innocenti, bene egli vagheggiava il disegno ambizioso, ma non
temerario, di rallegrare gli anni maturi della sua donna con due o tre
milioncini, da aggiungere a quello che non aveva più da aspettare. Egli
lo aveva pure indovinato, che i troppi milioni delle Cantelli entravano
per una gran parte in certe antipatie di sua moglie, le quali senza ciò
si sarebbero potute stimare irragionevoli. Ebbene, a questo piccolo
guaio c’era rimedio, e in sua mano: giovine ancora e pieno di salute,
animoso ed accorto, col vento in fil di ruota da un pezzo, avrebbe
raddoppiate, triplicate le sue sostanze in pochi anni. Non gli mancava
il genio “degli affari„; la fortuna lo aiutava; due buone ragioni per
veder la vita sotto l’aspetto più roseo.
Per allora, il sud sogno era quello di ammogliare l’Aldini, il suo
Pilade, che considerava come una sua creatura. E ciò senza nuocere alle
sue faccende, che non entravano punto nel giuoco. Quello, infatti, era
quasi un lavoro delle ore avanzate; lavoro fine, lavoro delicato, in cui
si esaltava la sua mente, e si compiaceva il suo cuore. Far dei felici
intorno a sè, bella cosa, e gaudio divino: peccato che sia cura di
pochi.
Or dunque, egli era di buonissimo umore a colazione; ma fu di umor
pessimo a pranzo. I giorni si seguono, e non si rassomigliano; così
disgraziatamente vanno, e anche dissimili, le ore d’un medesimo giorno.
La signora Livia, che aveva le sue particolari ragioni in quel giorno,
per ispiare attentamente il volto di suo marito, non ebbe da fare
nessuna fatica per riconoscere che il vento era cambiato. La faccia di
Raimondo non nascondeva mai nulla dei sentimenti interiori: gli occhi
erano in lui veramente lo specchio dell’anima.
— Che cos’hai? — gli domandò, vedendolo accigliato.
— Nulla; — rispose Raimondo.
— È troppo poco, il tuo nulla; — replicò la signora. — Tu hai un
dispiacere; ti si legge sulla fronte.
— Eh, cara mia! gli affari non vanno tutti bene ad un modo. Corro il
rischio, oggi, di perdere ventimila lire.
— E per questo hai le gronde? Avrai perduto altre volte, e senza far
quella cera.
— Non so; — disse Raimondo, svogliato. — Il perdere è sempre spiacevole.
Venti lire son venti lire per tutte le borse, anche per quella di un
Rotschild, come dice il proverbio della gente d’affari; figùrati poi....
ventimila. —
Voleva ridere, ma rideva stentato. Ed anche stentato gli era venuto
l’accenno di quella gran perdita, che finalmente non era ancora una
perdita, ma un rischio di perdere.
— Filippo ha parlato; Filippo ha resistito; — disse la signora Livia tra
sè, reprimendo un sussulto di allegrezza, la cui manifestazione per
verità sarebbe stata fuori di luogo.
Sì, Filippo aveva parlato, e in ciò che Filippo aveva detto era da
trovar la cagione della tristezza di Raimondo. Ma questi non voleva
confessare a sua moglie che una nuova difficoltà fosse nata, e che
questa difficoltà gli venisse appunto dagli scrupoli, dalle fisime
cavalleresche, dalle ubbie pazzesche del suo caro Filippo. Temeva troppo
di sentirsi dire da sua moglie: “Ti sei bene infatuato di quello
sciocco? Ti sei bene affondato negli impicci per lui? Vedi ora che bei
giuochi ti fa, rendendoti ridicolo, con la tua smania di far l’agente
matrimoniale! Aggiungi al ridicolo il doverti guastare coi Cantelli. Per
le donne, poco m’importerebbe; molto deve importare a me, perchè
importerà a te, e non andrà senza le più gravi conseguenze, l’esserti
guastato col vecchio, padre canzonato e banchiere offeso nella sua
dignità.„
Questo, od altro di simile, ed anche di peggio, gli avrebbe detto
sicuramente sua moglie. Ora, egli non voleva più aver guerra di parole
con quella donna, tanto amabile, cara, idolatrata a quel dio, ma un po’
per cagione de’ suoi nervi, un po’ troppo facile ad aspreggiare, a
schernire. Donna adorabile, se non avesse avuto quel piccolo difetto,
che a volte lo avrebbe fatto dare nei lumi! Ma esseri perfetti non ne
nascono al mondo.
Filippo adunque, era stato quel giorno al banco Zuliani, secondo il
costume invernale, sulle quattro del pomeriggio; l’ora canonica, come la
chiamava Raimondo, per fare la passeggiata igienica, aspettando ambedue
l’ora del pranzo, che doveva separarli, avviando l’uno al palazzo
Orseolo e l’altro al caffè Quadri.
— Oh, bravo, sei tu? — disse Raimondo, veduto entrare l’amico. — Siedi;
finisco di minutare una lettera, e son da te. Sei stato al Danieli? —
soggiunse, rimettendosi a scrivere.
— No; — rispose Filippo.
— Come va questa faccenda? Ier l’altro, no; ieri nemmeno; oggi meno che
mai. Che giuoco è questo? Se credi di toccare il cuore alle belle, con
questo modo di farei....
— Sai, — disse Filippo, impacciato, — colla signorina indisposta....
— Appunto per ciò; — interruppe Raimondo, — buona ragione per andare
ogni giorno a chieder notizie. Agli occhi della signora Eleonora tu sei
già un fidanzato, mio caro. Ma che cos’hai, ora? —
Filippo s’era lasciato cadere allora allora su d’una poltrona, accanto
alla scrivania di Raimondo, e abbassata la fronte rimaneva lì immobile,
quasi istupidito, collo sguardo fisso al tappeto.
— Più ci penso, — mormorò egli, senza levar gli occhi da terra, — e più
vedo questo matrimonio impossibile. —
Raimondo per quella volta depose la penna, e inarcò il sopracciglio.
— Impossibile? perchè?
— Lo sai, lo intendi, dovresti immaginarlo anche tu. Quella donna è
troppo ricca per me. Temo le ciarle del mondo. Ma sì; — soggiunse
Filippo animandosi, poichè tanto aveva preso l’aire; — questo pensiero è
più forte di me. Ho cercato di vincerlo; non ci sono riuscito; sento che
non resisterò a questa vergogna.
— Vergogna, anche! La parola è grave.
— Nella mia condizione è la vera.
— La tua condizione è onorata; quante volte avrò io da ripeterlo? Non
sei uno spiantato, perbacco, e molti galantuomini si sentirebbero in
diritto di pretendere ad un partito come quello, con molto meno di terra
che tu non n’abbia al sole. Inoltre, te l’ho anche detto; da amici, e
segretamente, e senza aver neanche da rimetterci un soldo, son sempre
qua io per pareggiar le partite. —
Filippo fece il solito gesto di diniego all’offerta.
— Sì, quel che vorrai; — diceva egli frattanto. — Ma non si tratta
solamente della dote, per me; si tratta del resto, di tutto il resto,
capisci?... Con tanti milioni!...
— Tanti milioni!... Chi te l’ha detto, che sian tanti? E mettici un
numero, almeno. —
Filippo sentì che su quella strada non era prudente andare più innanzi.
Lo sapeva bene, il numero di quei milioni; ma non poteva lasciar
trapelare da chi lo avesse saputo.
— Ma, — balbettò egli impacciato, — è da supporre, almeno....
— Non ne supporre troppi, ti prego; — disse Raimondo, vedendo che
l’altro non accennava a voler compiere la frase. — Anselmo è ricco, o
potrà diventare ricchissimo. Ha ancora molti anni davanti a sè; tu ne
avrai altrettanti da aspettare, prima di darti pensiero di ciò che egli
potrà lasciare, non a te, ma a sua figlia.
— Ebbene? — rispose Filippo. — Cessa forse per questo ogni dubbio, ogni
sospetto di calcolo da parte mia? Pensa, ti ripeto, pensa alla mia
condizione, che è delicata, che è grave.
— Pensa, pensa! — ripetè Raimondo, con accento sarcastico. — E non pensi
tu, frattanto, che altri possa trovarsi in una condizione più grave, più
delicata della tua.
— Altri?
— Io, per tua norma; io che ho imaginato, proposto e condotto così
avanti il disegno che oggi ti spiace.
— Hai ragione, hai ragione; — rispose Filippo, umiliato. — Ma non è poi
così avanti, come tu dici. Il signor Anselmo, finalmente, ha ancor da
vedere e da conoscere tante cose, prima di accettare la tua proposta. Se
egli non è ancora impegnato a nulla, devi crederti tu impegnato a tutto?
— A tutto, sì, proprio a tutto. Vedi qua, una lettera che ho in tasca da
tre giorni. Non meriteresti di leggerla; ma oramai è necessario che tu
sappia a che punto siamo arrivati. Ecco, e giudica tu. —
Così dicendo, aveva cavato dalla tasca del soprabito il suo portafogli,
e ne estraeva una lettera, porgendola tosto a Filippo. L’aperse questi,
e incominciò a leggerla sottovoce, fremendo, tremando, balbettando dalla
commozione. La lettera diceva così:
“_Caro Zuliani_,
“Vi ho sempre stimato per un uomo di cuore, d’onore, e di buon
consiglio. Quello che a voi parve un eccellente partito, era già
accettato da me, sempre sotto la condizione che fosse accettato
dalla mia cara Margherita. Nondimeno (perdonatelo alla giusta
sollecitudine d’un padre, ed anche un pochino alle vecchie
abitudini dell’uomo d’affari), nondimeno, avendo necessità di
rimanere ancora pochi giorni a Milano per le faccende della Rete
Mediterranea, ho voluto prender lingua laggiù. Conoscevo la
gente di fama, gente onoratissima, e che a Parma ha lasciato
buon ricordo di virtù pubbliche e private. Sapevo da voi che la
sostanza, senza essere larghissima, era tuttavia non spregevole,
e capace di maggiore incremento. So ora di laggiù che l’erede
rimasto orfano in età giovanissima, e avendo dalla carriera
militare incentivo a spendere, non ha intaccato d’un soldo il
suo patrimonio. Questa è una ragione di gran sicurezza per un
babbo, e vale già il doppio, il triplo di ciò ch’egli possiede.
Mi resta solo un timore; quello di essermi imbattuto in una
perla d’uomo; cosa tanto difficile ai giorni nostri, che mi pare
un prodigio, una stranezza. Perchè non mi sembri più tale, debbo
ricordare che mi sono pure imbattuto in voi, caro e stimato
Zuliani.
“Io partirò giovedì da Milano, ma per far sosta a Padova, dove
m’aspetta una seduta della Veneta. Ci ho piccolo interesse, come
sapete, ma bastante a farmi fare il viaggio. Sabato mattina,
poi, muoverò per Venezia, dove giungerò, come mi promette
l’orario, alle 9,50. Venitemi incontro alla stazione, se potete;
e non dite nulla alle mie donne, poichè mi spiacerebbe
obbligarle ad alzarsi troppo per tempo. Avremo così più agio di
ragionare tra noi due, e se Dio vuole avremo presto varata
questa nave, ad onor vostro e mio. State sano, ottimo tra gli
amici, e credetemi sempre il vostro
“_Anselmo Cantelli_.„
Filippo Aldini era fortemente commosso; leggeva e rileggeva, guardava e
riguardava il foglio per tutti i versi, come se non sapesse staccarsene.
— Scrive da uomo di cuore; — diss’egli finalmente: — e ciò ch’egli dice
dei miei vecchi mi tocca l’anima. —
Una lagrimetta, frattanto, gli era spuntata in pelle in pelle.
— Vedi, eh, che fior di galantuomini ci abbiamo noi per le mani? — gridò
Raimondo con aria di trionfo. — Come si fa a non amarli, a non andar
magari nel fuoco per essi?
— Vero, vero; ma io....
— Ma tu non sei convinto, ora, non sei persuaso della impossibilità di
dare indietro?
— Vorrei contentarti; lo sa Iddio, se vorrei; ma non posso.
— Non puoi? Di’ che non vuoi. Le tue ragioni le ho già combattute una
volta, e vinte. Perchè ritorni alla carica? Ti avverto, caro, che io non
posso seguirti. Non fo il burattino, io. Voglio la tua felicità,
finalmente. Non ami tu Margherita?
— Sì, — gridò Filippo, infiammandosi, — l’amo, lo sai, l’amo con tutte
le forze dell’anima.
— E allora che ti trattiene? Avresti tu qualche vincolo.... d’onore, che
io non conosco? —
Filippo fece ripetutamente un gesto di assenso.
— Ti torna in mente un po’ tardi, se mai. Ed è una persona libera, a cui
tu debba dare il tuo nome? —
Filippo rispose con un gesto di diniego.
— D’altri? — ripigliò Raimondo, facendo una vigorosa spallata. — Oh,
allora, mio caro, essa non ha male che non si meriti. E tu, se mai, la
guarisci. Puoi confidarmi il suo nome? Le parlo io, da onest’uomo. Non
puoi? O per caso, non sarebbe questa un’invenzione dell’ultim’ora? Anzi,
poichè al vincolo ho accennato io scioccamente, non sarebbe
un’invenzione dell’ultimo momento? Io ti conosco da un pezzo; non ho mai
veduto nelle tue abitudini nulla di misterioso, o di strano. Non c’è
neppur l’ombra di un vincolo, e tu vuoi darmela a bere; non c’è altro
che un capriccio pazzo, per tormentare te stesso e chi vuole il tuo
bene. Quanto a costui, dico male, non lo tormenti; vuoi farlo bugiardo,
vuoi levargli l’onore.
— Questo no! — disse Filippo, fremendo.
— Questo per l’appunto; — ribattè prontamente Raimondo; — è la
conseguenza logica del tuo capriccio. Se tu non te la senti di resistere
alla vergogna..., l’hai detta tu questo mala parola!... io non resisterò
alla figuraccia che m’avrai fatto fare con una famiglia tanto
rispettabile; te l’assicuro io.
— Ma che cosa.... — balbettò Filippo, — che cosa vorresti tu fare?
— Quello che un uomo d’onore sa fare, quando per colpa sua, o d’altri,
ha perduta la stima della gente dabbene. Non sarà poi un grande
sacrificio; — disse Raimondo, con voce improvvisamente mutata, e quasi
parlando a sè stesso. — Che famiglia ho io? Non figli a cui provvedere,
col desiderio di farli sempre più ricchi; anche la mia vita diviene una
cosa inutile e sciocca. Non ti ho mai detto queste cose; ma da un pezzo
lo sento. Allegro una volta per indole, ho del mio carattere antico
mantenuta la maschera: ma sono nel fondo un disgraziato. Vorrei amare
l’universo mondo; e a modo mio non ama nessuno. Mia moglie.... tu la
conosci, e sai se l’amo.... mia moglie è malata più che non sembri. Con
te, in confidenza, posso dire ciò che ho sempre taciuto: è figlia d’una
donna che è morta pazza; mi capisci? pazza. Ed anche lei, nervosa
all’eccesso, mi tiene da qualche tempo in continua ansietà. Oggi ride,
domani piange. Non so che cosa farei, per quella donna; ma so bene
quello che ho fatto.... —
Qui il povero Raimondo faceva la faccia scura; tristi ricordi si erano
aggravati sull’anima sua, come un velo denso di nuvoli sulla vetta di un
monte.
— Per isposar lei, — continuò, — mi sono persino disgustato con mia
madre. Tu vedi bene che la santa donna non viene quasi mai a Venezia,
nella città dove è nata! Ella non ha mai potuto perdonarmi questo
matrimonio. E neanche la mia Livia, — soggiunse egli, sospirando, — ha
mai fatto nulla per disarmarla, per rabbonirla; è così, e non si muta.
La mia povera madre, che adoro, la cara donna, l’unica persona al mondo
per cui sono ancora un bambino, mi tiene il broncio, mi punisce così
della mia disubbidienza. Ho meritato il suo rigore, lo so: ma ero tanto
innamorato! E vivevo per l’amor mio, in questi anni; vivevo anche per
l’amicizia, che ho sempre creduta una grazia del cielo. Ma tu, l’amico
del cuore, ricusi i miei doni. La vergogna.... il capriccio.... il
puntiglio!... Io avrò fatto male a correr le poste, già te l’ho detto;
ma posso aggiungerti che non le ho corse davvero, se non quando mi hai
dato il tuo sì, che oggi ti vorresti riprendere. Pensaci! Come è vero
Dio, ti accerto che domattina non andrò alla stazione per incontrare il
signor Cantelli, se non potrò portare con me il tuo consenso. Ciò che in
quella vece avrò fatto, saprai. Tu mi disonori in faccia a quell’uomo;
non sopravviverò a questo colpo. —
Filippo Aldini era allo stremo delle sue forze: il suo cuore si
contorceva nello spasimo di un’aspra tortura morale. Fremeva al pensiero
del rischio in cui la sua ostinazione precipitava l’amico; e la imagine
di Medusa gli si affacciava lumeggiata di sinistri bagliori, nell’ombra.
— Perdonami. Raimondo; — annaspò; — non ti esageri ora il pericolo?
— No; — rispose netto quell’altro. — La lettera di Anselmo ti mostra che
cosa pensi egli di me. Quando un uomo è collocato tant’alto nella stima
altrui, egli è come la statua rizzata sul suo piedistallo; se casca non
c’è rimedio, va in pezzi. Aggiungi che quando io fossi perduto nella
stima di Anselmo, ogni relazione d’amicizia e d’affari sarebbe rotta tra
noi. Tutto ciò farebbe scandalo tanto più grave, in quanto che, non
essendo conosciute le cagioni della rottura, il mondo ne imaginerebbe a
sua posta. Vedi a che punti mi condurrai col tuo no. Ma io prego ancora?
— gridò Raimondo, inalberandosi tutto ad un tratto. — Dopo ciò ch’io
t’ho detto delle mie risoluzioni, sarebbe una viltà continuare. Pensaci!
Tu non hai avuto ragioni da oppormi, ed hai sentite le mie. Pensaci!
Aspetterò la tua risposta prima di notte. Per darmela meditata e seria,
come ho il diritto di esigerla, poichè il cuore non te l’ha subito
dettata, devi restar solo colla tua coscienza. Va!
— Raimondo! — gridò Filippo non voce lagrimosa. — Raimondo! Se tu mi
leggessi nell’anima!...
— Te l’ho detto, aspetto la tua risposta. Leggerò quella; non più parole
inutili; va! —
Si era alzato, così dicendo. Anche l’Aldini si levò in piedi e si mosse
per uscire, con un gesto d’addio disperato; veramente disperato, come il
caso in cui lo aveva messo il suo triste destino.
Rimasto solo nelle stanze, Raimondo si studiò anzitutto di ricomporre il
viso ad un’apparenza di tranquillità. Con uno sforzo violento venne a
capo di padroneggiarsi, tanto da poter finire di minutare la lettera
rimasta interrotta; poi chiamò il signor Brizzi, per dargli le opportune
istruzioni. Finalmente uscito dal banco, andò attorno passeggiando senza
saper dove e perchè, ma rinfrancandosi a grado a grado nell’aria
pungente della sera, e portò a casa il resto del suo turbamento, quel
resto che non poteva sfuggire all’occhio indagatore di Livia. Lì per lì,
come s’è visto, Raimondo aveva dovuto scodellare quella bugia delle
ventimila lire in pericolo; la prima che gli era venuta alla mente, e la
più facile ad un uomo d’affari, ma non lavorata abbastanza, non
aggraziata nè condotta a pulimento, per la fretta che aveva di trovar
qualche cosa. Forte di quella bugia, era rimasto aggrondato, per tutto
il tempo del pranzo, ed anche più tardi in salotto, mentre la signora
fingeva d’esser tutta intenta nel suo ricamo turco (un ricamo che voleva
durare quanto la tela di Penelope), ed egli di essere sprofondato nella
lettura dei suoi giornali. Ed ella di tanto in tanto, col pretesto
d’infilar l’ago, mandava una rapida occhiata al marito; ed egli, a più
lunghi intervalli, come se si destasse ad un tratto da una specie di
letargo, attaccava qualche discorso vano, che tosto lasciava cadere.
Serata uggiosa per tutt’e due! Frattanto egli non dava indizio di
volersi spiccare da casa, per andare a far quattro passi.
Erano già suonate le nove all’orologio dell’anticamera, quando si udì
una scampanellata. Visite? Per quella sera non ne aspettavano. Poco dopo
entrava in salotto il fido Giovanni, portando un vassoio d’argento, e
sul vassoio una lettera.
— Per lei, signor padrone; — diss’egli, accostandosi al signor Raimondo.
Prese questi la lettera con un gesto convulso, che alla signora Livia
potè sembrare impaziente.
Ella intanto sbirciava il messaggio, che Raimondo aveva dovuto recare
più presso alla tavola, sotto il vivo lume della lampada elettrica
ond’era rischiarato il salotto; e tosto riconosceva il tipo delle buste
del banco maritale, insieme colla mano di scritto del signor Brizzi,
gran maestro in calligrafia commerciale. Anche questi particolari aveva
notati Raimondo, e alla sollecitudine con cui aveva afferrata la lettera
era succeduto un senso di delusione e di noia. Nondimeno, aperse la
busta, ne estrasse il foglio, e lo spiegò. C’erano pochi versi di
scritto, e lo sguardo di Raimondo li abbracciò tutti in un colpo; egli
ripiegò quindi il foglio, lo rimise nella busta, e cacciò tosto il
messaggio nella tasca interna del suo soprabito.
Ma un gran mutamento si era fatto in lui: sparite le gronde, la fronte
rasserenata, l’occhio tornava a brillare della solita luce, e le labbra,
non più strette come dianzi, s’ammorbidivano ad una espressione di gran
contentezza.
Tutto ciò non era sfuggito allo sguardo di Livia. La bella signora aveva
molte ragioni, quel giorno, per essere in singolar modo curiosa. Passati
appena pochi secondi, quanti ne bastavano a capire che Raimondo non
avrebbe aperto bocca egli stesso per darle ragguagli, placidamente,
senza levar gli occhi dal suo ricamo, gli disse:
— Buone notizie?
— Eccellenti; — rispose Raimondo.
— Il rischio che correvi di perdere?...
— Sfumato. Lo dicevo ben io a me stesso! Come ti si può cangiare così,
di punto in bianco, diventare tutt’altro, l’uomo che hai sempre stimato,
vedendo in lui la perla degli uomini? Ecco intanto come vanno le cose di
questo mondaccio; — soggiunse Raimondo, chetando un pochino quella sua
foga soverchia; — è bastata la voce di un maligno, per far credere che
un galantuomo chiamato a Padova da un negozio urgente, rimasto colà un
giorno più del previsto, fosse dato per un fuggiasco, che volesse
sottrarsi ai suoi impegni d’onore. È tornato, il brav’uomo; è capitato
al banco, dopo che io n’ero uscito, ed ha soddisfatto il suo debito. —
Le spiegazioni verbali erano belle e buone; ma la signora Livia avrebbe
preferito leggere senz’altro la lettera. Disgraziatamente Raimondo
teneva gli affari e le lettere d’affari per sè; ed era un gran fatto che
per una volta tanto si fosse lasciato cavar di bocca quel poco.
Uscito di pena, Raimondo lesse meglio i giornali, anzi diciamo che
incominciò a leggerli soltanto allora; ed anche, secondo l’uso, lesse e
commentò la cronaca cittadina a sua moglie. La quale, frattanto, pensava
che suo marito, anche avendo perduto o corso rischio di perder somme più
forti, non era mai stato tanto accorato come quel giorno, tra le sei e
le nove di sera.
— Va, caro; tu non me la dici giusta; — pensava ella in cuor suo.
Quella sera egli si ritirò nelle sue stanze un po’ prima del solito. E
al servitore che lo accompagnava col lume, parlò facetamente così:
— _Paron Nane_, domattina vorrei il caffè alle sette. E svegliatemi,
s’intende; che non vorrei beverlo freddo. —
Era strano, quell’ordine di svegliarlo alle sette. Nell’inverno, di
solito, si faceva portare il caffè alle otto, e magari alle otto e
mezzo. Inoltre non diceva “paron Nane„ al suo vecchio servitore, se non
quando era allegrissimo. Che proprio tutto quel buon umore venisse da
una lettera d’affari? e niente, il cattivo delle ore innanzi, da un
discorso che aveva dovuto fargli Filippo Aldini, quel medesimo giorno?


XIII.

Triste risveglio.

Ma aveva poi parlato Filippo Aldini? Bene lo aveva promesso a lei, sulla
sua fede di gentiluomo; ed ella doveva crederlo risoluto, come le era
apparso sincero. Quella fiducia si era avvalorata in lei vedendo
ritornare a casa Raimondo così profondamente turbato: ma la fiducia si
era dileguata oramai, e tanto più facilmente quanto era stato più rapido
il trapasso di Raimondo dalla insolita tristezza al buon umore consueto.
Ch’ella si fosse ingannata nei suoi sospetti? Si trattava egli davvero
d’una somma di denaro in pericolo? tutto si riduceva egli adunque ad un
episodio volgare della vita bancaria, sempre seminata di rischi? In
questo caso, bisognava concludere che Filippo non avesse ancora parlato,
e che tutto il rimescolo di Raimondo dipendesse da quell’altra cagione,
che le era parsa insufficiente a produrlo. Ma allora, perchè aveva
indugiato l’Aldini a parlare? Quando aspettava egli a farlo, mentre il
farlo era più urgente che mai?
Ah quella lettera! quella lettera, se a lei fosse riuscito di leggerla,
le avrebbe dato modo di procedere a più sicure induzioni. Senza dubbio,
quella lettera usciva dal banco Zuliani; lo diceva la busta con tanto di
bollo; lo diceva la nota calligrafia commerciale del signor Brizzi
degnissimo. Ma il foglio che c’era dentro, che cosa portava nelle sue
pieghe? proprio la notizia che un debitore non era scappato?
Questi pensieri, tutti intessuti di dubbi angosciosi, dovevano tenerla
quella notte ben desta, facendole dar volta ad ogni momento nel suo
letto, sotto gl’impulsi d’una febbrile inquietudine. A un certo punto
non seppe più trattenersi. Scivolò dalle coltri, indossò la sua veste da
mattina e passò nell’abbigliatoio, che separava la sua dalla camera del
marito. Muovendo leggera leggera si accostò all’uscio di questa, e
stette un pezzo origliando, per assicurarsi che Raimondo fosse ben preso
dal sonno. Di solito, quando dormiva, Raimondo dormiva sodo. Ma come fu
lunga per lei la fatica di girar la maniglia che teneva chiuso
quell’uscio, traendola così delicatamente, così lentamente, che la toppa
non avesse a cantare! Raimondo, benedetto lui, non avrebbe sentito
neanche il cannone. E finalmente, se si fosse risvegliato, non mancavano
pretesti a giustificare l’apparizione notturna di lei. Poteva dire, ad
esempio, di essersi turbata, sentendolo parlare, o dolersi in sogno,
come alle volte accade. Ma allora, addio lettera: e su quella lettera
appunto bisognava metter la mano.
L’uscio era aperto senza rumore, e Livia entrò guardinga nella camera;
inoltrandosi alla fioca luce della finestra, arrivò strisciando fino
alla spalliera di un canapé, dove ella sapeva che suo marito usava
gittare i suoi abiti. Allungò il braccio, palpò destramente, trovò il
soprabito, e ficcò la mano nella tasca di petto; ivi sentì il
portafogli, e accanto al portafogli una busta. Era quella? A buon conto
la prese, e così lieve lieve com’era venuta, si ritrasse, strisciando
sul molle tappeto, fino alla camera sua. Là dentro, al lume di una
lampadina da notte, guardò ansiosamente la busta. Era proprio quella,
col bollo del banco, e la soprascritta già da lei ravvisata. Tosto, con
ansia indicibile, e con pari sollecitudine, ne estrasse il foglio, e lo
spiegò, accostandolo quanto più poteva al cristallo. Ah! non c’era più
da ammirare là dentro la calligrafia commerciale del signor Brizzi;
bensì da stupire, e come! davanti ad una mano di scritto meno regolare,
senza sfoggio di filetti e svolazzi, tutta personale, asciutta, rigida,
e chiara, poi, chiara fin troppo! Filippo aveva dunque parlato? Sì,
certamente, poichè egli appunto scriveva.
Ah, bravo! anche la malizia dello scrivere all’amico sotto la copertina
del banco? Tutto ciò, ben inteso, per non dar nell’occhio a lei, per
guardarsi da una sua indiscrezione. E come aveva dovuto lavorar di fine,
per giungere a tanto! Il banco Zuliani si soleva chiudere poco dopo la
partenza del principale. Per usare a quel modo della carta del banco e
dell’opera del suo segretario, il conte Aldini era andato a scovare il
signor Brizzi. Come ciò fosse avvenuto, s’indovinava benissimo: dal
Quadri, ove pranzava l’Aldini, al _Cappello Nero_, ove il Brizzi faceva
i suoi pasti, non era lunga la strada.
Queste cose pensò in un baleno; frattanto leggeva il biglietto. Così
scriveva brevemente l’Aldini a Raimondo:
“Hai ragione, ed io sono un pazzo. Ma se tu vedessi nell’anima
mia!... Basta, io non ti dirò altro dei miei turbamenti. Vedi
pure il signor Anselmo; io non ho più nulla da opporre alle tue
argomentazioni, segnatamente all’ultima, che mi ha troppo
commosso. Ah, Raimondo, Raimondo! Tu eri ben degno d’un amico
migliore.
“Il tuo _Filippo Aldini_.„
E nient’altro: ma quel tanto bastava ad illuminare la signora Zuliani.
“Vedi pure il signor Anselmo; io non ho più nulla da opporre.„ Oh, caro!
Si era egli dunque finito di persuadere da sè? C’erano molte più cose da
opporre a lui, e alle sue facili persuasioni. Ma non c’era tempo da
perdere. Livia rilesse il biglietto, per non dimenticarne una sillaba;
poi lo ripose nella sua busta, e com’era andata una volta, così
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