Il ponte del paradiso: racconto - 17

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cortesia, e prese a parlar d’altro; ma a lui, dopo alcuni minuti di
conversazione, parve di capire che la sua bella interlocutrice fosse
alquanto disattenta. Anche il signor Anselmo, certamente per esser
rimasto un pochettino stonato dal telegramma delle amiche milanesi, era
disattento da parte sua, anzi, più che distratto, sovra pensiero. E
Filippo, dopo essere stato un po’ incerto di quel che dovesse fare, si
alzò per prender commiato.
Margherita intese il pensiero, di lui, e non volle lasciarlo così
addolorato.
— Mi trova un po’ distratta, non è vero? — diss’ella, porgendogli la
mano, e lasciandola amabilmente in quella di Filippo. — Non ci pensi;
non è per Lei, ma per una faccenda che mi preme. Ad ogni modo, mi
perdoni questo ed altro. Sì, ho dell’altro da farmi perdonare. Il suo
segreto non sarà più conservato in due, ma in tre persone. Non tremi; —
aggiunse, stringendogli più forte la mano; — sarà sempre ben custodito.
L’essenziale sarà che ad ogni richiesta.... m’intende? ad ogni richiesta
possibile, quantunque improbabile, Ella dica di non averlo confidato a
nessuno. Soltanto per farle questa raccomandazione, le ho confessato il
mio piccolo peccato, che non è neppur tale, e non avrà nessuna
conseguenza, ora che possiedo il disegno del suo quartierino. Ella non
capirà nulla in questo mio indovinello; ma non importa; capirà poi, e mi
approverà. Ci rivedremo stasera? All’ora solita, signor conte; e le
giuro che non sarò più distratta. —
Così ebbe commiato Filippo Aldini, e ben dolce, poichè tanto a lungo la
mano di Margherita era rimasta nella sua.
— Ed ora mi dirai.... — incominciò il signor Anselmo, poichè furono
soli.
Ma la fanciulla non gli lasciò finire la frase.
— Caro babbo; — diss’ella, abbracciandolo. — Dobbiamo noi vincere, sì o
no, questa battaglia difficile? E salvare quel poveretto? Le armi che ho
preparate sono di buona tempra, mi pare, e leali; speriamo che valgano.
— Dio ti assista, donna forte! — esclamò il signor Anselmo. — Ma se
Raimondo....
— Verrà da me, se mai; ed io saprò difendermi. Ora tu, si capisce, per
debito di cortesia, vai incontro.... alle amiche di Milano. L’arrivo è
per le cinque e quarantatrè. Si capisce ancora che tu mi conduci con te
alla stazione. —
Il signor Anselmo tentennò il capo e sorrise.
— Non ci mancherebbe altro che ci andassi da solo! — rispose. — Con
tanta carne che hai messa al fuoco, Dio sa come mi troverei
impacciato! —
Erano suonate le quattro, e con le quattro era di ritorno all’albergo la
signora Eleonora, accompagnata dal suo Federigo.
— Vi potevamo aspettare! — diss’ella.
— Sì, hai ragione; — rispose placidamente il signor Anselmo. — Come
disse quella gentildonna ai suoi convitati: “perdonino, mi ero
dimenticata in biblioteca„, così noi ci siamo dimenticati in
chiacchiere. Ma non dubitare, ci rifacciamo subito anche noi.
— Dove andate?
— Alla stazione, incontro ad un amico di babbo;-entrò a dire Margherita.
— Saremo di ritorno, ad ogni modo, per l’ora del pranzo. —
Uscirono, padre e figliuola, presero una gondola, e si fecero cullare
sulle acque del Canal Grande, che a lume di tramonto erano bellissime.
Ammirarono i bei palazzi, così degni di osservazione, nella diversità
delle forme architettoniche e nella varietà degli stili. Di là dal ponte
di Rialto, Margherita sporse il capo fuori del felze, e tese lo sguardo
cercando il palazzo Orseolo, uno dei più graziosi di Venezia, notevole
per la eleganza delle sue cornici, delle sue modanature, e più per le
sue finestre ad arco acuto, dai terrazzini sporgenti, vagamente
intessuti di pilastrini ornati a fogliami e di rosoni traforati, nello
stile del Quattrocento.
— Povero signor Raimondo! — mormorò la fanciulla, quasi parlando a sè
stessa. — Che vita, la sua! —
La gondola guizzò oltre, leggera leggera. Poco prima delle cinque erano
già alla stazione. Ci avevano da aspettare un bel pezzo, e spesero il
tempo passeggiando. Il signor Anselmo, che quel giorno era rimasto così
lungamente seduto, non ebbe certo a dolersene. Margherita, per contro,
aveva da infastidirsi non poco, vedendosi fatta argomento di tante
ammirazioni d’una turba di peripatetici aspettanti.
Non è poi vero che a tutte le donne belle piaccia di essere ammirate,
specie con troppa insistenza. Quelle che n’hanno fastidio pensano di
sicuro che ad una dose più scarsa di ammirazione potrebbe accompagnarsi
benissimo una dose più abbondante di reverenza, o di tatto.
Il treno delle cinque e quarantatrè arrivò miracolosamente puntuale.
Margherita l’ebbe per un segno di buon augurio. Tra le poche persone che
scendevano dalle vetture di prima classe, indovinò quella che aspettava,
e le corse incontro, indovinata a sua volta: si ricambiarono i nomi, si
presero per braccio, e si trassero in disparte sulla calata, discorrendo
animatamente sottovoce. Parecchie cose dovevano essere state già dette
per lettera; ora la signorina Cantelli aggiungeva utili ragguagli, o
colmava lacune. La stazione si era già tutta vuotata di viaggiatori e di
aspettanti, quando Margherita e la sua nuova compagnia si decisero ad
uscire. Sul ponte si separarono; la persona misteriosa strinse la mano
al signor Cantelli, presentato in quel punto; poi quella discese in una
gondola; Margherita e suo padre nell’altra, che li aveva portati, e che
doveva restituirli alla riva degli Schiavoni.
Giunsero all’albergo prima dell’ora di pranzo; alquanto sollevati di
spiriti, come chi si conforta nella coscienza di aver fatto il debito
suo; ma pensosi, come chi, arrivato al punto della prova, dubita
istintivamente della bontà d’un suo ritrovato, ond’era poc’anzi ben
certo. Son quelli i momenti che il facile incomincia a parervi
difficile, e il difficile vi diventa impossibile. Ahimè, non son tutti
sicuri, i meglio architettati disegni, come non son tutte rose nel
giardino della vita; il qual giardino è troppo spesso una landa.
Per nascondere la sua ansietà, Margherita tirò accortamente i discorsi
di tavola sulle compere fatte dalla mamma in quei giorni, pel corredo
del suo Federigo; quel famoso corredo che doveva accordarsi nelle sue
parti con tanti climi e temperature differenti sulla faccia del globo.
La signora Eleonora aveva pensato a tutto; non la trovarono mai in
fallo, nè mai la colsero alla sprovveduta. Così vigile è l’amor materno,
che aguzza l’ingegno alle creature più tarde. Del resto, non era tarda
d’ingegno, la signora Eleonora; solamente un po’ dubitosa, non ben
sicura di sè; piccolo difetto che non istarebbe male, in guisa di
correttivo, agl’ingegni più pronti.
Una fissazione dell’ottima signora era questa, che le navi da guerra non
dovessero prendere il largo altrimenti che a primavera, come le antiche
galere. E per intanto vagheggiava l’idea che la corvetta non fosse
pronta per la fine del gennaio. Ah, un altro mesetto di armamento! Si
sarebbe potuto far assistere Federigo alle nozze di sua sorella.
— Ma sì! — aggiungeva facetamente il signor Anselmo. — Vedrai che il
governo seguiterà a non indovinarne mai una; e questa volta, per far
dispetto alla moglie d’un commendatore, si sbriga. —
Così ingannavano il tempo tutti e quattro; e due di essi ingannavano
anche l’ansietà onde erano divorati. Alle nove in punto arrivò il conte
Aldini, e la corvetta e il suo armamento passarono in seconda linea. Il
signor Anselmo prese a discorrere di politica spicciola, come la
recavano, per favorire la digestione dei popoli, i giornali della sera.
Margherita parlò di teatri, facendoli presto piacere al nuovo venuto,
che in verità non n’era mai andato pazzo, trovandoli tutti a lor volta
nemici di qualche senso umano, o assordanti, o accecanti, o indigesti, o
scipiti.
Margherita conosceva già la teorica dell’Aldini, e rammentava di non
averla neanche combattuta. Per quella sera, tuttavia, un pochino di
controversia avrebbe fatto buon giuoco.
— Sostenga lei un’opinione; — diss’ella; — io sosterrò l’altra.
— È impossibile, signorina; — rispose Filippo — e sarà sempre
impossibile tra noi. Se Ella esprimerà un pensiero diverso dal mio, io
lascerò il mio per conformarmi subito al suo.
— Perchè, signor conte? Le idee possono esser molte, e le opinioni
diverse.
— Vero; e può anche esser piacevole di abbracciar l’opinione....
dell’avversario.
— Il quale, — ribattè Margherita, — non si troverà molto soddisfatto di
vincere senza aver combattuto.
— Verissimo; mi persuade; — conchiuse Filippo, dandosi tosto per vinto.
— Ah, ora lo fa apposta; — notò Margherita.
— Ma no!
— Ma sì!
— Ella ha ragione; — conchiuse Filippo una seconda volta. — E vede? —
soggiunse, a mo’ di commento, — vede, da questi piccoli esempi? Tra due
che discutono, volendo ognuno di essi aver ragione, ce n’è sempre
uno.... che merita di averla. E l’altro ha ragione a suo modo,
rinunziando alla sua opinione. Vuol dire di no! Ed io son tanto lieto di
darle ragione, che ancora una volta, e sempre, dirò come Lei. —
Anch’egli, in questa piccola scherma, cercava d’ingannar la sua cura;
una cura tanto più molesta al suo spirito, in quanto che doveva essere
inerte, non obbligandolo a scuotersi, a darsi moto, per iscongiurare un
gran guaio. Tutto era in mano di Margherita; ed ogni sua speranza era in
lei. Che cosa aveva ella incominciato a fare? I suoi misteri del
pomeriggio erano pieni di promesse; la sua allegrezza di quella sera
egualmente. Ma poteva anch’essere un’allegrezza mentita; o non
significar altro se non questo, che ogni lavoro di difesa o d’approccio
della guerriera animosa era rimesso al domani. Così viveva ancor egli
dubbioso, tra speranza e timore.
Sulle dieci, mentre la conversazione languiva, si udì un rumore di passi
frettolosi su per la scala. Bussarono all’uscio del salotto, ed entrò un
cameriere annunziando il signor Antonio Brizzi.
— Fate passare; — disse il signor Anselmo, alzandosi tosto per muovere
incontro all’inaspettato visitatore. — Oh, bene! —
Ma l’esclamazione di giubilo morì sulle labbra del signor Anselmo, al
vedere il signor Antonio affacciarsi sulla soglia, pallido, anelante, e
con gli occhi stralunati.
— Che cos’è stato? — domandò allora. — Entri, la prego, e richiudiamo
l’uscio. Per amor di Dio, non ci tenga in pena! —
Il povero signor Brizzi durava fatica a contenersi. Parole e lagrime gli
facevano nodo alla gola.
— Una disgrazia.... — balbettò; — al palazzo Orseolo.... una grande
disgrazia!... —


XIX.

Al palazzo Orseolo.

Raimondo non era ancora tornato a casa, quando fu annunziato alla
signora Zuliani l’arrivo della sua inaspettatissima suocera. N’ebbe una
scossa di nervi, un tuffo di sangue al cervello, un rimescolo per tutte
le fibre. Ma bisognava striderci, e andarla a ricevere. Le due donne si
guardarono a lungo, dopo il saluto strettamente necessario; non si
baciarono, non si strinsero la mano.
La signora Adriana si presentava in sembiante di giudichessa. C’era
tanta espressione di dolore in quella figura veneranda, che Livia ne fu
sgomentita e umiliata. Ad un certo punto, essendo uscito il servitore,
come soggiogata dallo sguardo severo della vecchia, si buttò
ginocchioni, tentando di afferrarle la mano.
— Mamma! — gridò, con voce lagrimosa.
— Cessate! cessate! — disse la signora Adriana, ritraendosi. — Dov’è mio
figlio?
— Sarà a casa per le sette. Ma non mi perdonerete voi?
— Non è mio ufficio, perdonare. Dio vede i cuori; Dio giudica le opere e
le intenzioni; egli solo può perdonare; non io. —
Livia chinò la fronte, avvilita. Si sentiva mancare, già sfinita com’era
da quei due giorni terribili. Il giorno innanzi, Raimondo era venuto a
pranzo, ma preceduto da una lettera, che fissava i termini delle loro
relazioni, pel breve tempo che sarebbero ancora durate. In presenza
delle persone di servizio si era mostrato tranquillo, come se niente
fosse accaduto fra loro; aveva discorso di cose vane; poi, subito dopo
il caffè, si era ritirato nella sua libreria. Ella, di tanto in tanto
origliando agli usci, lo aveva sentito scrivere, rovistar carte,
scrivere ancora fino alle undici, e poco dopo andarsene a letto. Fortuna
che non erano giorni di ricevimento serale per lei, da obbligarla a
sforzi di volontà, di padronanza sull’animo suo, che certamente non
avrebbe potuto durare. Spossata, rifinita, era andata a letto
tardissimo, passando la notte in un dormiveglia doloroso, pieno di
tristi visioni e di oscuri terrori.
Quel giorno, poi, a colazione, era stata la medesima scena. Egli,
tranquillo al solito, non taciturno in presenza dei servi, aveva
sparsamente condito il breve pasto con piccoli discorsi, e tutti di
piccole cose. Aveva perfino toccato di affari, egli che in casa se n’era
sempre astenuto; operazioni sbagliate del governo sulla rendita,
conseguenti ribassi, fallimenti probabili, rallegrarono la conversazione
domestica.
Ella era disfatta, quel giorno, quasi sformata nel viso; tanto che la
cameriera, osservandola, non aveva potuto trattenersi dal dirle:
— Signora, si sente male? Vuole che mandiamo pel medico?
— Che! che! — aveva risposto. — Sono i miei soliti sconcerti nervosi.
Frutti di stagione! Che cosa potrebbe dirmi di nuovo il dottore?
Stasera, per dormire e rifarmi, prenderò il cloralio. —
La sua, frattanto, era una condizione intollerabile. Raimondo le aveva
scritto, il giorno innanzi, di voler sciogliere la loro questione,
presto, nel modo più netto e più degno, per la pace e per l’onore
d’entrambi. Quale era il modo immaginato da Raimondo? Ah, lo sapeva ben
lei! ed ora, capitava la suocera; non aspettata, non desiderabile, al
certo, in quello stato d’angoscia. La signora Adriana, che a Venezia e
nella casa del figliuolo era comparsa in sette anni tre volte, e da
oltre un anno non si lasciava vedere, per qual cagione si presentava
allora, senza neanche il pretesto di una occasione solenne? Chiamata da
Raimondo, forse? Anzi senza il forse; non mostrava ella, appena
arrivata, di saper tutto, o quasi? Ne faceva testimonianza manifesta la
sua severità, che superava di tanto la freddezza consueta delle sue
relazioni con la nuora; si aggiungevano a quella severità di contegno le
sue parole così gravi, e lo sdegnoso rifiuto di ragionare con lei, di
perdonarle, di ascoltarla almeno.
Venne Raimondo poco prima delle sette. E fu meravigliato, alla vista di
sua madre; parve quasi sconcertato all’aspetto. Ma il sentimento
figliale vinceva; si buttò nelle braccia della donna veneranda,
reprimendo a tutta forza le lagrime. Non voleva piangere, no, non voleva
dar saggio di commozione soverchia.
— Figlio mio! figlio mio; — gridava la vecchia signora, non saziandosi
di baciarlo, di guardarlo negli occhi, e di baciarlo ancora.
— Eccolo qua; — rispondeva Raimondo sforzandosi di sorridere a quella
effusione violenta di affetto materno. — Eccolo qua! Ma anche tu,
mamma.... che bella improvvisata ci hai fatta, quest’oggi! —
E non proseguì, vedendo negli occhi e nelle labbra di sua madre che quel
plurale non tornava gradito. La fiera nemica delle nozze di lui non
aveva ancora disarmato, non si era ancora piegata a consigli più miti.
Ahi, come presaga, sette anni addietro, dei danni che quelle nozze
avrebbero apportato al suo figliuolo infelice!
Il pranzo riuscì freddo in tre, più che non fosse stato quello del
giorno innanzi in due. La conversazione, ad onta degli sforzi evidenti
di Raimondo, era impacciata e ad ogni tanto interrotta, segnatamente per
la risoluzione della signora Adriana di non rivolger mai il discorso a
sua nuora. Di ciò che venne in tavola, poi, la signora Adriana assaggiò
a mala pena. Aveva fatto più che uno spuntino in viaggio, diceva lei,
nella fermata di quasi un’ora a Treviso, dove il treno di Belluno
aspettava il treno di Udine. Una scusa, certamente; e il fatto era
questo, che la vecchia signora non aveva volontà di mangiare.
Subito dopo il caffè la signora Adriana volle ritirarsi nel suo
appartamento. Al terzo piano del palazzo Orseolo erano sempre due camere
preparate per lei. Fece per saluto alla nuora un cenno del capo, e si
mosse. Il figlio l’accompagnò, dandole il braccio.
Livia rimase sola, in preda ad un’agitazione indicibile. Raimondo, da un
quarto d’ora uscito di là per accompagnare sua madre, non discendeva.
Senza dubbio si discorreva molto, lassù, si facevano liberamente tutti i
discorsi che in presenza di lei non si erano potuti fare. E si sentiva
fischiare gli orecchi di tutte le cose spiacevoli che in quel mentre si
dicevano di lei. Il sangue le martellava alle tempie; vampate e brividi,
alternandosi con frequenza, davano indizio di febbre crescente. A un
certo punto non potè più resistere all’inquietudine che s’impadroniva di
lei. Balzò in piedi, e corse alla scala interna che metteva al piano
superiore; stette alquanto in ascolto; poi guardinga salì fino al
corridoio che collegava parecchie camere dell’appartamento superiore.
Arrivata ad un certo punto, di là da quelle che occupava la signora
Adriana, poteva anche nascondersi dietro una svolta, caso mai fosse per
uscir suo marito. Di servi, che capitassero lassù, non aveva timore.
Quella era appunto l’ora che, sparecchiata la mensa dei padroni, la
gente di servizio, tutta raccolta a pianterreno, si assideva
tranquillamente alla sua. Così d’ogni parte sentendosi abbastanza
sicura, si accostò all’uscio della camera in cui madre e figlio stavano
parlando insieme, e tese l’orecchio. Erano frasi rotte da prima, e non
era possibile intendere a qual punto delle loro confidenze già fossero i
due; ma il nome suo ricorreva nel discorso più volte. “Livia„ diceva il
figliuolo; “quella donna„ diceva la madre. Ma questa a grado a grado si
veniva riscaldando, e la sua voce giungeva finalmente più chiara.
— E per quella donna, infine, ti uccidi! Perchè? — incalzava la signora
Adriana.
— Uccidermi! Io? — rispondeva con accento turbato Raimondo. — Chi ve lo
ha detto? Chi ve lo ha scritto? Quell’uomo? Sarà un’altra infamia sua.
Il suo tradimento, il mio diritto di vita e di morte su lui, ne facevano
il mio schiavo. Se la sorte, proposta generosamente da me, gli era stata
propizia, egli tanto più doveva obbedirmi e tacere.
— Non accusare quel disgraziato, — replicava la vecchia signora. — Vi ha
uditi una coraggiosa fanciulla; Margherita Cantelli.
— Margherita!... E come? come ha potuto?...
— Non so, ma certamente era lei. In compagnia di suo padre, voglio
credere.... Non hai tu, ad un certo punto del tuo orribile colloquio col
signor Aldini, non hai tu sentito un rumore, che veniva da una cameretta
vicina?... un rumore d’uscio che si chiudeva?...
— Sì, ebbene?...
— Quella fanciulla, attratta da un suo capriccio donnesco nel
quartierino del suo fidanzato, non volle esser colta là dentro da
estranei; si era rifugiata in quella cameretta, presso una porticina di
servizio, donde poteva trafugarsi. Prima di uscire per quell’altro
passaggio, volle ascoltare, sapere chi fosse il visitatore del suo
fidanzato. Curiosità? gelosia? Comunque fosse, ascoltò, udì il vostro
patto feroce. Sbigottita, non volle udire più altro; aperse l’uscio
segreto e fuggi. Se tu la inseguivi, eri in tempo per vederla, e per
riconoscerla. —
Raimondo era rimasto muto, certamente pensando alla stranezza del caso.
E Livia frattanto pensava:
— Ella ha dunque voluto sostituirsi a me.... in ogni cosa? Ma infine,
perchè? Non forse per salvare Raimondo? Coraggiosa!... —
Ed accolse nell’animo un raggio di speranza. Era Margherita, che aveva
così prontamente avvertita la madre di Raimondo, chiamandola in
soccorso. Quella madre avrebbe certamente adoperata tutta la sua
autorità. E lei, Livia, lei, cagione di tutto il male, non era stata
capace di una così buona ispirazione, di un così felice ardimento!
Ma il raggio di speranza che era penetrato nell’anima di Livia,
impallidì tosto, fu per ispegnersi alle parole di Raimondo.
— O madre, madre mia, tutto è vano oramai. La maledizione del cielo si è
aggravata su me, dal giorno che ho disobbedito alle tue esortazioni,
resistito ai tuoi consigli amorevoli. Ma tu lo vedevi bene.... ed
avresti dovuto perdonarmi.... amavo quella donna.... e l’amo ancora,
odiandola, con tutte le forze dell’anima. Per me, dunque, è finita. E
come vuoi tu ch’io possa vivere? Separandomi da lei? Sarebbe uno
scandalo. Voglio morire da gentiluomo, rispettando le donne, anche
quando tradiscono. Ho giuocata la mia vita con quell’uomo, nel modo più
leale e prudente. Poichè tu sai ciò che la sorte ha deciso preparati. Io
non posso più vivere.
— Prepàrati! — ripetè la signora Adriana, con accento di profonda
amarezza. — Prepàrati! E sei tu che parli così? Quella infame ti ha
dunque guastato a tal punto l’anima e il cuore? Prepàrati! Quando mai
potrà prepararsi a questa angoscia un cuore di madre? Ho saputo il patto
terribile; e perchè l’ho saputo, son corsa a gridarti: no, per una
disgraziata, per una impura, traditrice della fede giurata, non si fa
ciò. Il tuo amico pentito.... sappilo; quella animosa fanciulla me lo ha
giurato con le lagrime agli occhi, venendomi incontro, all’arrivo.... si
ucciderà egli pure, se tu manterrai quel patto dissennato. E tu, illuso,
credevi di poter condannar lui alla vergogna di vivere, di esser felice,
a prezzo della tua morte! Ma già il primo a non voler più la felicità di
quell’uomo, sarà il padre di lei, un vecchio onorando, che tu avrai
profondamente addolorato, fors’anche accorciandogli il vivere. E speri
di evitare gli scandali? Ma tu li aggraverai, uccidendoti.
— Mamma! — gemette Raimondo, supplichevole,
— Sì, fammi il tenero, con quel cuore di sasso! Ucciderai altri, per
intanto; e prima di tutti tua madre. Morirò, sì, maledicendoti, allora.
Ma che cos’è questo vostro furor di morte? — gridò la povera donna,
animandosi sempre più. — La vita è vostra, forse? Non di chi ve l’ha
data? Non delle vostre famiglie? Non del vostro paese e del mondo, che
aspettano opere virtuose e nobili esempi da voi? Vigliacchi, che avete
solamente il coraggio di sottrarvi ad una piccola pena! Sì, piccola, e
vergognosa ancora, come è sempre una forte passione per una creatura che
se ne mostra indegna, per una donna che vi ha tradito, per una donna che
vi ha disprezzato, per una donna che avrà ancora la soddisfazione di
esser liberata dalla vostra presenza, di ereditare da voi la ricchezza
che le avrete lasciata, il rispetto del mondo che le avrete assicurato,
come premio del suo tradimento....
Livia, nel colmo dell’angoscia, tendeva verso l’uscio le palme è le
labbra supplicanti. No, non è vero, voleva gridare, no, non sarà! E
l’avrebbe gridato, se la vergogna del farsi trovar là in ascolto non
l’avesse trattenuta. Fremente, tremante, sconvolta, si appoggiò alla
parete, per ricuperar le sue forze vacillanti; e pensava, frattanto,
vedeva tutto l’orrore della sua condizione, insieme con l’avverarsi
possibile degli orrendi pronostici della signora Adriana. Oramai non
voleva ascoltare, non poteva udire più altro. Si tolse di là; con uno
sforzo supremo misurando il passo e trattenendo il respiro, mosse verso
il corridoio e scese la scala.
Sul pianerottolo, al chiarore d’un lume sospeso alla parete,
giganteggiava un’ombra, che veniva su dalla scala inferiore. N’ebbe
terrore, a tutta prima; poi riconobbe il servo Giovanni, il fedele di
suo marito.
— Giovanni, — gli disse, cedendo ad una subita ispirazione, — il padrone
è su con sua madre. Ragionano d’interessi. Nessuno vada lassù a
disturbarli; e molto meno donne, avete capito?
— Non dubiti, signora; — rispose il colosso. — Mi pianto qui, e non
passerà anima viva. —
Livia andò allora nella sua camera. Vi rimase a mala pena tre minuti;
poi ricomparve sul pianerottolo, più agitata che mai. Giovanni era là,
ritto impalato al suo posto di sentinella.
— Giovanni, — gli disse la signora, — portate su questa lettera al
padrone. È una risposta, che aspetta. —
Il servo prese la lettera ed obbedì al comando della padrona, facendo
col peso del suo corpo d’atleta un gran rumore su per la scala. Non
voleva sentire, il brav’uomo; perciò voleva esser sentito.
Infatti, al rumore de’ suoi passi, Raimondo interruppe il suo doloroso
colloquio colla mamma; schiuse l’uscio Iella camera ed apparve nel
corridoio.
— Che c’è? — domandò egli, vedendo Giovanni, che per allora, ahimè, non
poteva chiamare “Paron Nane„.
— La signora.... — disse il buon servitore, — manda questa lettera. È la
risposta che Vossignoria aspetta, mi ha detto. —
Raimondo lì per lì non comprese che cosa dovesse egli aspettare. Ma
tolse dalle mani del servitore la lettera, lo rimandò ai fatti suoi, e
rientrò nella camera di sua madre. Colà giunto strappò la busta, lesse
in un batter l’occhio (così breve era il messaggio di Livia!), gittò un
grido, e il foglio gli cadde di mano.
Lo raccolse la signora Adriana, e lesse a sua volta;
“Obbedisci a tua madre, e vivi. Mi levo io da soffrire, e levo
tutti di pena. E dire che ti amavo! Non ho amato altri che te.
Lo sento e posso dirlo in quest’ora, che Iddio sta per
giudicarmi.
“La tua povera _Livia_.„
La signora Adriana trasse un profondo sospiro, e seguì il suo Raimondo,
che già era fuori, facendo a precipizio la scala.
— Giovanni, — gridava egli, incontrandosi sul pianerottolo col servitore
di sentinella, — dov’è la signora?
— Nelle sue camere, credo. Di là è uscita, per consegnarmi la lettera. —
Raimondo corse affannato nelle stanze di Livia. Nel piccolo studio,
ov’ella certamente aveva scritto, non c’era; nella camera da letto,
nemmeno. Ma era aperta la finestra, e l’aria pungente della sera si
cacciava dentro, facendo tremolare la fiamma d’una candela accesa, sulla
lastra di marmo d’un cassettone. Atterrito, il poveretto si affacciò al
terrazzino, l’ultimo a destra, sulla facciata del palazzo Orseolo, e di
lassù gli venne all’orecchio un vocìo confuso, che muoveva dal traghetto
vicino. Seguiva un pronto agitarsi di gondole, e tosto un grido che
dominava tutte le altre voci: “una donna nel Canale!„
Non volle udirne di più; passato veloce tra sua madre, che era lì
esterrefatta sull’uscio, e il fedel servitore che prese tosto a
seguirlo, corse in anticamera, aperse l’uscio e guizzò per la scala fino
alla gradinata che metteva sull’acqua e chiamò a gran voce una gondola,
che tosto accorse per portarlo verso il traghetto. Alla luce dei fanali
vide allora un corpo di donna che alcuni gondolieri avevano poc’anzi
afferrato, quasi pescato a fior d’acqua, e che traevano a riva,
chiamando gente in aiuto.
— Il signor Zuliani! il signor Zuliani! È la sua signora, che si è
gettata in acqua.
— Caduta; — tuonò in accento di correzione una voce, al cui suono il
signor Zuliani si volse, riconoscendo il suo fedel servitore, che lo
aveva seguito ed era entrato con lui, senza che egli pur ne avvertisse
la presenza, nella medesima barca.
— Giovanni, un medico! Prendi il primo che trovi; poi va a cercare il
dottor Teodoro. —
Sarebbero venute opportune le cure dei medici? La povera donna era fuori
dei sensi, come morta, e grondante sangue dal capo. Intanto, chiamato da
alcuni pietosi, accorreva un medico dalla farmacia più vicina; vide il
caso, che gli parve disperato, e ordinò che per intanto la signora fosse
al più presto levata di là, dove non c’era modo, tra per la calca e per
la scarsità della luce, di fare un’esplorazione convenevole. Tutti
volevano aiutare, a sollevar la giacente: Giovanni si fece avanti a
spintoni, e alzandola di soppeso tra le erculee braccia, mosse veloce
verso l’uscio da tergo del palazzo Orseolo, che fu tosto richiuso
com’egli fu passato, insieme col padrone, col medico e due o tre più
solleciti aiutatori. Accorrevano intanto sulla scala le persone di
servizio, gridando, gemendo, ma soprattutto chiedendo notizie.
— Caduta! che disgrazia! caduta! — ripeteva il portatore del prezioso
fardello.
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