Il ponte del paradiso: racconto - 01

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ANTON GIULIO BARRILI
Il Ponte
del Paradiso
RACCONTO

MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1904.
————
PROPRIETÀ LETTERARIA
_I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i
paesi, compreso il Regno di Svezia e di Norvegia_.

Tip. Fratelli Treves.
————


IL PONTE DEL PARADISO


I.

Spiacevole invito.

— Che idea! — esclamò la signora Livia, lasciandosi ricadere sulle
ginocchia il suo ricamo turco, mentre con le pupille stravolte da un
moto repentino di stizza andava cercando il soffitto a cassettoni dorati
del suo salottino. — Invitare le Cantelli! Ed hanno accettato? da te? —
Raimondo sgranò tanto d’occhi, per guardar bene sua moglie.
— Non ti capisco; — diss’egli. — Accettare un invito da me, non è forse
come accettarlo da te? Non siamo noi la stessa cosa?
— Per gl’inviti, no; — rispose asciuttamente la signora.
— Oh Dio! — riprese egli, sforzandosi di volgere il discorso alla celia.
— Ci sono dunque delle eccezioni alla vostra santissima legge?
— C’è questa, mio caro; — sentenziò la signora. — Gl’inviti solenni, in
una casa bene ordinata, li fanno marito e moglie coi loro nomi uniti in
una formula unica. Nei casi ordinarii, e d’una certa confidenza, invita
la signora, intendendosi annuente il marito. Alla fin fine, non è lei
che governa la casa? —
Raimondo chinò la fronte con aria contrita.
— Vizio di forma, adunque; — conchiuse egli. — Puoi sanarlo tu, andando
a far visita, e confermando l’invito.
— No, caro; guasterei. C’è poi la sostanza, che non mi va.
— E perchè, se è lecito saperlo? Quelle buone signore si ritrovano qui,
lontane da casa loro, al Danieli. Un albergo, sia pur di prim’ordine, è
sempre un’albergo; e in giorni come questi....
— Male! — interruppe la signora, che non voleva passarne una. — Perchè
si ritrovano a Venezia per l’ultimo giorno dell’anno? Se ci penso, non è
neanche stagione per addormentarsi qui, sulla “tacita Laguna„.
— Ne sai la ragione; — si provò a rispondere Raimondo colla usata
dolcezza. — Il figliuolo che è qui al dipartimento navale....
— Per Natale e Capo d’anno potevano ottenergli una licenza, e portarselo
a Milano; — ribattè la signora. — Si lascia così solo laggiù il capo di
casa? E in giorni come questi (son tue parole), in giorni come questi,
sacri al raccoglimento delle famiglie?
— Eh, ci avrà pure pensato, la signora Eleonora; — osservò pacatamente
Raimondo; — avrà domandato e non avrà ottenuto. Del resto, che t’ho a
dire? Comunque sia andata la cosa, poichè le signore Cantelli sono
rimaste qui, a noi non rimaneva altro che fare il dover nostro; non ti
pare? —
Una spallucciata fu tutta la risposta della imbizzita signora, che per
non avere a dir altro si rimise attorno al suo ricamo turco. Se quello
che andava facendo, mettendo punti su punti, era un versetto del Corano,
diciamo pure che Maometto mandava a quel paese le povere signore
Cantelli.
Raimondo, frattanto, anche a volersi contentare d’un gesto, non poteva
fermarsi lì, col suo ragionamento avviato, che bisognava condurre alla
fine.
— Pensaci, mia buona Livia; — soggiunse. — Si tratta della famiglia del
mio corrispondente di maggior conto, e più che corrispondente, patrono.
Ho grandi obblighi, e di antica data oramai, col banchiere Cantelli. Se
le mie faccende hanno così prosperato, credi che ci ha avuto gran parte
la fiducia e l’appoggio del signor Anselmo, di quel re dei galantuomini.
Così, venendo al caso di stamane, mi è parso necessario, incontrando la
signora Eleonora all’angolo della Piazzetta, di dirle che andavo appunto
da lei, per invitarla, con la sua bella, figliuola e con quel caro
ufficialetto di suo figlio, a fare il gran salto dall’anno vecchio al
nuovo con noi. Ed ho anche insistito; confesso il mio peccato, che non
mi pareva poi tale. Ora, mia buona Livia, quel che è fatto è fatto, e ci
vorrà pazienza; soltanto mi duole che ti possa spiacere.
— Spiacermi! spiacermi! chi ha detto mai ciò?
— Ah, volevo ben dire! — gridò Raimondo, più che sollevato oramai, e
disposto a ridere. — Possiamo dar da cena a ventiquattro.
— Sì, caro, invitando a caso, e male. Ma siamo alla vigilia, quest’oggi,
ed io mi son tenuta scarsa nei biglietti d’invito, per non andare oltre
i dieci. Ora vedi tu, signore e padrone, dove ci portano le tue novità.
Tre Cantelli, e noi due, si fa cinque; il cavalier Lunardi sei; il
signor Gregoretti sette.
— Poi la tua cara Galier....
— Eh! non me la rinfacciare, povera e cara anticaglia, che è piena di
garbo, e più interessante, col suo brio, di tante e tante puppattole.
— Non nego, non nego; — si affrettò a dire Raimondo. — Con lei, dunque,
si fa otto.
— E nove col suo nipote; — soggiunse la signora Livia; — e dieci col
signor Ruggeri; e undici col maestro di musica, necessario per
accompagnare al piano, se qualcheduno volesse cantare; e dodici....
— Ferma lì, per carità! — gridò Raimondo, con accento sbigottito. —
Metti al dodici il mio amico Filippo. Non vorrei che toccasse il tredici
a lui, poveraccio.
— Mettiamolo al dodici; — concesse la signora, con aria di somma
indifferenza. — Al tredici andrà il povero signor Telemaco. Per fortuna,
non ha da sapere a che numero ci casca. Verrà poi tua madre? Finora non
c’è lettera, nè telegramma.
— Se non verrà, — disse Raimondo, trattenendo un sospiro, — avremo
sempre sotto la mano il mio ottimo Brizzi.
— Invitalo dunque senz’altro.
— No, questo, no: non gli anticipiamo la noia. Tu sai bene che il mio
eccellente segretario, il mio braccio destro, si ritrova piuttosto male
colle cerimonie, e più volentieri passerà la gran notte con una mezza
dozzina di amici al _Cappello Nero_. Avremo tempo a propinargli l’amaro
calice domani, se sapremo che la mamma non viene. —
E represse, così dicendo, un altro sospiro. Ma non voleva esser triste;
sopratutto non voleva parer tale.
— Che stravaganza, dopo tutto, questa superstizione del numero tredici!
— ripigliò, facendo bocca da ridere.
— L’hanno tanti! — disse Livia.
— E credo che facciano un po’ tutti per chiasso; — proseguì Raimondo; —
come quel tale che mi diceva coll’aria e coll’accento più grave del
mondo: quando si è in tredici a tavola, accade sempre questo, che uno
dei tredici muor sempre, o presto o tardi, prima degli altri dodici.
— Bella novità! — esclamò la signora, non potendo trattenersi dal
ridere.
— Ma è l’unica cosa che se ne possa inferire con certezza, non ti pare?
— conchiuse Raimondo, felice di vedere rasserenata la sua parte di
cielo. — Dunque tornando a noi, tutti i tuoi inviti son fatti?
— Sì.
— E non vorrai sanare il mio vizio di forma colle signore Cantelli?
— No, ti ho detto, guasterei. Oggi, poi, non me la sento di uscire.
Quante cose ho da disporre, quante da ricordare, come padrona di casa!
Sai che c’è da chiamare tutti i pensieri a capitolo, come altrettanti
monaci in una abbazia? E in queste cose tu non potresti aiutarmi. Siete
così disadatti voi altri uomini, a preparare un ricevimento!
— Vero; — disse Raimondo; — e aggiungi pure molte donne. Io anzi non ne
conosco più d’una, per far tutto a quel dio. E te ne sono così grato! La
mia casa è una reggia, e tu ne sei la regina.
— Ah! sì, bravo, due cerimonie! — esclamò la signora.
— Sempre, lo sai, come il primo giorno; — riprese Raimondo. — La mia
felicità è così piena! Signore, dico a Dio più spesso che tu non ti
possa immaginare, fate che non cessi, che non si diminuisca d’un punto.
E tu, dolce Livia, ricordi un giorno, se mai c’è stato, nel quale io ti
apparissi diverso dal primo in cui ci siamo conosciuti? —
Il pensiero di Raimondo era tenero nella sua sincerità; l’accento era
impresso di passione profonda. La signora Livia si alzò lasciando cadere
sul tavolincino il ricamo col quale da un pezzo si era venuta
baloccando, e avvicinatasi a Raimondo, con un bel gesto di graziosa
degnazione, si chinò a baciarlo sulla fronte.
— Fanciullone! — gli disse poi, rialzandosi tosto sulla vita. — Va al
tuo banco, ch’è ora, e lasciami alle mie occupazioni.... regali. —
Raimondo aveva afferrate le mani di lei, e le baciava divotamente, l’una
dopo l’altra, cercando di trattenerla, ad ogni tanto guardandola negli
occhi con aria supplichevole, che pareva domandare un supplemento di
grazie sovrane. Ma la regina aveva la sua dignità da conservare. Bene si
lasciò tenere a bada parecchi minuti secondi; bene si accostò un tratto
colla persona per esaudire la muta preghiera; ma subito si ritrasse,
facendogli boccuccia, e si svincolò da lui per andare nella sala da
pranzo, dove erano stati dianzi per far colazione, e dove i servi
finivano appunto di sparecchiare. Quella era l’ora che madonna soleva
scegliere per ragionare col Giovanni, il più antico servitore, come il
più decorativo, dei signori Zuliani, decorato egli stesso del titolo di
maestro di casa; e quel giorno, vigilia della gran cena di San
Silvestro, doveva essere un colloquio importante al sommo, una specie di
consiglio domestico, uno di quei consigli solenni, in cui si dimostra la
sapienza delle padrone di casa, e i signori uomini di solito non
capiscono un’acca.
La signora Livia era sparita; ma Raimondo Zuliani, anche restando come
si suol dire a bocca asciutta, era contento di sè e di sua moglie. Aveva
vinta una giornata campale, invitando alla gran cena le signore
Cantelli, che a sua moglie piacevano poco, e quella cara non era più in
collera. Benedetta donna! che stranezza era la sua, di non poterle
soffrire? Sì, certo, la signora Eleonora, con quella sua persona
intirizzita, con quel suo fare sostenuto, con quella sua parsimonia di
parole, non era la compagnia più allegra del mondo. Per questo, viva la
faccia della contessa Galier, fosse pure con tutte le sue grinze, donde
tra la cerusa e il belletto brillava e scoppiettava sempre l’arguzia,
mentre era lei la prima a ridere degli sforzi inani che faceva allo
specchio, per levarsi vent’anni di dosso! Ma quella Margherita Cantelli
era tanto carina! E niente puppattola, come pareva che volesse
gabellarla in un momento di stizza la sua Livia adorata; semplice,
intelligente, buona e cortese, un vero angelo in terra. E poi, e poi,
bisognava pensare che la signora Eleonora e la signorina Margherita
erano la moglie e la figlia (rispettivamente, come si dice negli atti di
partecipazione) del banchiere Anselmo Cantelli, col quale Raimondo
Zuliani aveva obbligazioni infinite. Non erano state tutte rose, nei
cominciamenti di Raimondo; ed anche più tardi, quando già poteva
avventurarsi più in alto nel mare magno degli affari, non gli erano
mancati i frangenti, nè i passi difficili; Milano allora, sempre
confidente e magnanima, aveva sostenuto Venezia. Gratitudine, se ce n’è!
Egli era dunque contento del dovere compiuto, felice di vedere la sua
Livia così presto rabbonita. Sempre a quel modo l’aveva egli amata,
temendone un poco gli scatti improvvisi, servendola molto timidamente,
come avrebbe servita la sua dama un buon cavaliere antico, memore di
essere stato paggio, e sempre disposto a reggerle lo strascico della sua
veste di castellana. Che veglia d’armi aveva fatta Raimondo Zuliani,
cavaliere moderno, per conquistare la sua felicità! quante difficoltà
aveva dovuto superare! Le più gravi gli erano anche riuscite più acerbe,
poichè erano venute a lui dalla mamma adorata, che non vedeva di buon
occhio la gente d’onde Livia nasceva. Come aveva lavorato di fine, il
giovinotto, e con quanta pazienza, per levare certi dubbi, certi vaghi
timori dall’animo di sua madre. La buona signora Adriana si era
finalmente adattata all’idea di quelle nozze, che le spiacevano tanto. A
che non si adattano le madri, povere madri, per far contenti i loro
figliuoli? Solo in un punto non aveva saputo piegarsi, la signora
Adriana, ricusando perciò di lasciare il suo ritiro di Belluno. Lassù
non era nata, per verità; ma quello era omai diventato il suo nido,
poichè ci aveva accasata una figliuola, e la consuetudine di parecchi
anni le faceva amare quel nuovo soggiorno. Un po’ freddo il paese; ma
dove mai non fa freddo, d’inverno? Per contro, c’era abbastanza fresco
in estate, ed ella si trovava benissimo in quell’antico palazzo dei
Cappellari della Colomba, dove con qualche ritocco opportunamente fatto
dall’amatissimo genero si poteva star come papi.
Così diceva ella ridendo. E un papa c’era nato diffatti, sebbene da papa
non ci fosse vissuto. A Venezia la signora Adriana compariva assai
raramente, appena quel tanto che bastasse a dimostrare che non
dimenticava affatto la patria. Qualche volta era discesa per la vigilia
dell’Ascensione, antica festa veneziana; qualche altra pel Capo d’anno,
ma governandosi in modo che il fatto non passasse in consuetudine, e
volentieri trovando la scusa nel rigore della stagione. Aveva promesso
di scendere per quell’anno? Sì e no, dipendendo il fatto dalle
circostanze, che sogliono sempre avere un gran peso sulle umane
risoluzioni. Ma si dica pur tutto; la figliuola maritata a Belluno aveva
già due amori di bambini; e quando si è nonne non si sa mai distaccarsi
da quelle piccole anime, nella età in cui sono veramente belle, monde
d’ogni colpa, se non d’ogni moccio. Ma questo è un guaio pei nasini
rosei, ed anche un po’ pei ditini grassocci; belle cosine che si lavano
senza fatica, e gli angioletti tornano puliti a quel dio, da divorarli
coi baci.
La signora Livia, dal canto suo, non incalzava molto con preghiere per
far calare la mamma a Venezia. E non già per avversione che le ispirasse
la vecchia, che sarebbe un dir troppo, ma perchè forse non si sentiva
amata svisceratamente da lei, o forse perchè al tempo delle sue nozze
con Raimondo l’aveva indovinata contraria. Del resto, se nel suo cuore
c’era un risentimento, od altro di simile, lo dissimulava bene, come
sanno le donne assai meglio di noi, perchè più di noi ci sono spesso
costrette.
— Sai? — diceva ella al marito. — Non posso reprimere un senso
d’invidia, pensando che tu l’hai, la tua mamma, e che io non ho più la
mia. —
Così ragionata, la cosa poteva anche passare agli occhi di Raimondo. Un
po’ strana, a dir vero, la sua dolce metà, e alle volte neppur tanto
dolce; ma egli l’amava così. Raimondo si era dato senza risparmio, alla
cieca, come tutti gli uomini di profondo sentire, che il raziocinio e
l’altre doti dell’intelletto debbono mettere intieramente a servizio di
gravi occupazioni, di assiduo lavoro mentale. Gli affari comandano; sono
una ferrea disciplina, gli affari; gelosi, imperiosi, prepotenti, se ne
avessero modo, in quella guisa che distruggono ogni germe di pensiero
nell’anima, asciugherebbero ogni vena di affetto nel cuore dell’uomo. E
con molti, non c’è che dire, ne vengono a capo; comprimono, schiacciano,
disseccano, trasformano, come accade nella trasmutazione di tanti
tessuti organici, vegetali ed animali, in pietra o in metallo. Così il
bel fiore dell’ideale, educato da una provvida bontà nel cuore più
ruvido, si metallizza ancor esso, prendendo magari, per una certa
affinità elettiva, la forma di una moneta da cento lire, nuova di zecca
e fiammante. Fior di conio, dicono i numismatici; che bisogno c’è egli
d’un fior d’ideale? Ma non tutti la pensano così, non tutti sentono a
quel modo. E quando in certi cuori il bel fiore è ben vivo e tenace, le
cure dell’assiduo lavoro, le prepotenti ragioni del tornaconto, possono
comprimere fin che vogliono; sarà vana fatica, non varranno mai a
schiacciarlo, non a disseccarlo, non a trasformarlo, non a farvelo
diventare di metallo o di pietra; che anzi, imprigionato più
strettamente, si fortificherà contro le dure invasioni, e per qualche
spiraglio vi tramanderà gli effluvii più intensi. Raimondo Zuliani nel
profondo dell’animo era fatto così; banchiere poeta; poeta senza far
versi; poeta nella delicatezza e nella vivacità di un’indole tanto più
forte ne’ suoi scatti improvvisi, quanto più era ordinariamente
compressa dalla necessità e dalla consuetudine; poeta nel culto
dell’amicizia, poeta nella adorazione per la sua Livia, di cui era
innamorato come il giorno che l’aveva conquistata, fra tante difficoltà,
fra tanti contrasti, e non senza strappi dolorosi al suo cuore di
figlio.
Delle sue nozze niun frutto era anche venuto; cagione d’intima pena per
lui, specie se pensava alla mamma, che un amor di bambino avrebbe
attirata più spesso e trattenuta più lungamente a Venezia, come quegli
altri due la trattenevano, e troppo volentieri, a Belluno. Ma bisognava
striderci. La sua Livia, del resto, non si dava pensiero di queste
malinconie.
— Infine, — gli diceva, — che te ne fai, se mi ami? Se tu avessi
quell’amor di bambino, come ti piace di chiamarlo, non dovresti spartire
i tuoi sentimenti fra due? Un altro essere, ultimo venuto, comanderebbe
in casa, tua. In quella vece, che cosa avviene? Tu non hai altro che me;
mi amerai meglio. —
Questo era un argomento perentorio, davanti al quale bisognava deporre
le armi ed arrendersi a discrezione.
— Sì, sì, hai ragione tu; — gridava egli tutto racconsolato. — Ma vedi?
bisognerà dirmene spesso, di queste dolci parole. —
Nel fatto, la signora Livia non sentiva nessuna tenerezza pei bambini, e
l’esserne senza poteva anzi parerle una benedizione del cielo. Pensava
ella pure che con simili impicci al fianco, gioventù e bellezza ad un
tempo si sciupano? Certe cose si sentono, anche confusamente,
nell’anima, senza bisogno di pensarci su; e voi le potreste leggere
espresse a chiare note di serenità e di contentezza sulla fronte di
parecchie donne, se non a dirittura di molte. Strano, non è vero! Si è
tanto detto e creduto che Dio abbia spirato in ogni donna il senso della
maternità, quel senso arcano e ineffabile che in tutte si rivela, fin
dagli anni più teneri, nell’amor della bambola! E questo pensava alle
volte anche Raimondo Zuliani; ma oramai senza fermarcisi troppo.
— Oh, finalmente! — diceva egli tra sè, — che cos’è questa maternità? Un
istinto. E che cos’è un istinto? Un moto interno, naturale,
involontario, irresistibile; impulso oscuro, adunque, una forza cieca,
che ci accomuna, nell’adempimento di certe funzioni, ad ogni specie di
animali. È della natura umana, o dovrebb’essere, il ribellarsi a questa
forza cieca, per seguir la ragione. È chiaro poi, che se avessi
figliuoli, io dimezzerei l’amor mio. Livia dice benissimo; lasciamo
dunque l’istinto alle bestie. —


II.

Pentiti, don Giovanni!

San Silvestro era venuto, ma solo soletto, portando sul Canal Grande,
nell’antico palazzo abitato dai signori Zuliani, una lettera di Belluno.
La signora Livia ci aveva azzeccato; lettera o telegramma che fosse, la
mamma, come si soleva chiamare in famiglia la vecchia signora Adriana,
avrebbe scritto di non potersi muovere. Ragione, o pretesto? Pareva una
ragione, poichè la lettera parlava di un nipotino che era a letto colla
rosolia; pareva un pretesto, poichè la lettera soggiungeva non trattarsi
di cosa grave, bensì di una forma benigna, assai benigna, di quella
inevitabile malattia da bambini. Ma infine, pretesto o ragione che
fosse, il piccino voleva sempre la nonna al suo capezzale, e non c’era
modo di spiccarsene. Raimondo lesse, e sospirò, com’era il suo fare; ma
non aggiunse parola.
Così, anche su d’un altro punto, aveva ragione sua moglie; avevano corso
il rischio di essere in tredici per la cena del capo d’anno. Bisognava
ad ogni costo mettere il sequestro, sulla persona del signor Brizzi; e
il sequestro fu messo quella mattina, appena Raimondo ebbe fatto ritorno
al suo banco.
Il signor Brizzi era il segretario del banco Zuliani, il braccio destro
di Raimondo, quello che faceva andare la macchina, e diciamo pure la
zecca, poichè era una macchina da far quattrini. L’onestà certamente è
la base d’ogni commercio; e quantunque molti ne facciano senza, non
bisognerà credere che sia utile imitarli, perchè allora si fabbrica
sulla rena, e le case generalmente non durano. All’onestà, per cui la
casa Zuliani era omai proverbiale, il signor Antonio Brizzi, grande
scritturale nel cospetto del Signore, aggiungeva una diligenza
scrupolosa, una prontezza mirabile, una esattezza esemplare, per cui la
macchina bancaria andava come un orologio: s’intende, come un orologio
che va, e che va bene; due cose che non sono di tutti gli orologi.
Compiamo il ritratto morale del signor Antonio Brizzi, soggiungendo
ch’egli era un vecchio scapolo. Ad ammogliarsi prima gli era mancato il
tempo; e di ammogliarsi poi non era più tempo. E non se ne doleva; che
anzi! Era uomo di gusti semplici, che la compagnia d’una donna avrebbe
sempre un po’ contrariati; si contentava di poco, non ispendendo la metà
di quel che guadagnava, tanto che gli amici lo accusavano di essere omai
diventato milionario, o giù di lì. “Soprattutto giù di lì„, rispondeva
egli ridendo; “tanto giù, che più sotto c’è il Canale„. Unico suo spasso
e suo unico sfoggio era il fare un po’ lunga la fermata serale al
_Cappello Nero_, dove faceva i suoi pasti, in compagnia di quattro o
cinque amici, stagionati e senza famiglia come lui, coi quali si
cambiavano due chiacchiere sul più e sul meno, framezzandole con qualche
sorso di Murano, o di Valpolicella.
Non si stava già sulle cerimonie, con loro. Le cerimonie lo seccavano a
morte, e per questo non si ritrovava bene in casa del suo principale, in
quei ricevimenti sempre un pochettino solenni, o che a lui parevano
tali; dove bisognava star sulla vita, fare il bocchino, gesticolar poco
o nulla, e parlare in punta di forchetta, fra giovinotti inamidati,
vecchi incerettati e signore infarinate. I giovinotti inamidati lo
mettevano in soggezione, i vecchi incerettati gli facevano rabbia, le
signore infarinate gl’incutevano un religioso terrore. Si trattava poi
di una soltanto; chè la signora Livia, salvo in circostanze singolari, e
veramente costretta dal suo ufficio di padrona di casa, non ne
sopportava di più. Ma quella c’era sempre, buon Dio, come obbligata in
chiave, e gli pareva una stonatura. Povera contessa Galier di San Polo,
così amena, così facilona, e la prima a ridere delle sue infarinature
ostinate! Ma il signor Brizzi era fatto così; si ritrovava male con le
dame. C’era quella sola? Pagava per tutte.
Conoscendo l’umore del suo segretario, Raimondo Zuliani aveva dovuto
attaccarlo col solito preambolo.
— So che vi dò noia, mio caro Brizzi; ma voi mi scuserete, perchè non
posso fare altrimenti. Mia moglie conta su voi, questa sera; ed io, poi,
anche conoscendo le vostre inclinazioni, debbo contarci come lei. Alla
cena del buon augurio non potete, non dovete mancar voi, che siete il
mio amico migliore. E poi, che volete? Si resterebbe in tredici, senza
di voi; è dunque necessaria la vostra presenza.
— Allora al fuoco, e senza risparmio, come a Malghera; — disse ridendo
il signor Brizzi.
Ridendo, sì, ma a denti stretti, e perciò non di gusto, come faceva al
_Cappello Nero_. Li aperse bene, quella sera sul tardi, per maledire la
falda e tutto il resto dell’abbigliamento cerimoniale, che aveva dovuto
cavar dall’armadio. E nondimeno, quando ebbe finito di vestirsi, non era
più tanto feroce. Uscito dal suo quartierino in vicinanza dei Frari,
venuto alla riva e sceso in gondola, dopo aver gittata al gondoliere la
frase “al palazzo Orseolo„, le sue invettive cominciarono a condirsi di
qualche amenità; segno che quell’ottimo signor Brizzi si veniva bel
bello rassegnando al suo fato.
— Ebbene, vecchia mia, — diceva egli, abbottonando su quella povera
falda i due petti del suo palandrano, — sei contenta d’essere uscita
dall’armadio, ove meritavi di restare fino alla mattina del giudizio
universale? Con tante grinze, farai la tua bella figura! E tu, piastrone
di tela batista, lustro e sodo come un piatto di porcellana, le vorrai
bere, le tue goccioline di caffè e di liquori, non è vero? Strano! —
soggiunse il signor Brizzi, accomodandosi meglio che poteva sui neri
cuscini del _felze_. — Ci sono quei cari giovinotti, che non si
macchiano mai. Forse per questo portano i baffi tirati all’insù, che
paiono tanti gatti arrabbiati. E noi.... e noi, poveri vecchi, li
portiamo voltati all’ingiù, come tanti Cinesi. Ecco il guaio! —
Il signor Brizzi, come abbiamo sentito da lui, era stato tra i difensori
di Malghera. Fedele ai ricordi del patrio risorgimento, portava baffi e
pizzo all’italiana.
A piè della gradinata del palazzo Orseolo approdava un’altra gondola,
donde smontarono dopo il signor Brizzi altri due invitati di casa
Zuliani. Tutti e tre, scambiata una stretta di mano, salirono, giungendo
proprio gli ultimi all’appello. Nel gran salotto della signora Livia era
già adunata, disposta in crocchi, secondo il caso o le affinità
elettive, una fiorita compagnia; “le donne, i cavalier, l’armi....„; sì,
anche l’armi, rappresentate da Federico Cantelli, nella sua severa
uniforme di sottotenente di marina. Quanto agli “amori„ potevano essi
mancare? Dove son donne e cavalieri, è più facile azzeccar gli amori che
l’armi.
— Così tardi? — chiese amabilmente la signora Livia, stendendo la sua
bella mano al signor Brizzi.
— Padrona, — rispose l’ameno segretario, inchinandosi, — abbia la bontà
di scusare un povero villano, che non ha voluto venire con le mani
vuote. Come vede, ho portato questi due forestieri. —
E contento della sua barzelletta, si trasse da un lato, per lasciar
passare alla cerimonia dello _shake-hand_ il cavalier Lunardi e il
maestro di musica.
Raimondo respirò per sua moglie. Coi tre ultimi arrivati si era
quattordici in punto. Ma non respirò il signor Brizzi, trovandosi là in
mezzo a tante persone elegantissime, specie davanti a signore, con le
quali non poteva già bastargli una frase in burletta, come quella che
aveva finito di dire alla padrona di casa, e sua. Conosceva le signore
Cantelli; era anzi stato una volta all’albergo per ossequiarle e
mettersi ai loro ordini, quando erano arrivate a Venezia: ma si sentiva
impacciato con esse, particolarmente colla signora Eleonora, sempre così
contegnosa e così avara di parole. Benedetta la contessa Galier di San
Polo, che poteva essere infarinata più del convenevole, se non del
necessario, ma infine, viva la faccia sua tinta e ritinta, parlava
sempre lei, e non c’era altra noia che di starla a sentire. Noia, poi!
Si dice così per dire. La contessa era amenissima; colla sua parlantina
avrebbe messo di buon umore un convento di trappisti.
Più impacciato del nostro ottimo Brizzi appariva il signor conte Filippo
Aldini. Che la presenza delle signore Cantelli mettesse in soggezione
anche lui? Non era da credere. Filippo Aldini era un elegante
inappuntabile, un giovinotto alla moda, rotto alla vita dei salotti;
sebbene non frequentasse più molte case, come prima faceva assai
volentieri, restava sempre quello di prima, nella bella padronanza di
sè, dei suoi atti e delle sue parole, disinvolto e misurato ad un tempo,
sobrio nel gesto, parco nella celia, ma pronto a scoccarla con aria
tranquilla, che non pareva affar suo, come se avesse detta la cosa più
semplice e più naturale del mondo. Non si confondeva mai; confondeva gli
altri, piuttosto.
Perchè dunque appariva allora tanto diverso? Che fosse ammalato?
Raimondo Zuliani, senza far tante indagini, notando solamente la novità
della cosa, ebbe compassione di lui; e venutogli accanto, lo aveva
tratto bel bello verso le signore Cantelli, a cui l’amico non si era
ancora fatto vivo altrimenti, che con un rispettosissimo inchino.
— Posso io presentare il mio amico Aldini? — aveva detto Raimondo,
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