Il ponte del paradiso: racconto - 13

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raccostati offrivano la chiave di tutto l’occorso, specie a chi già
conoscesse un certo segreto di casa Zuliani. Ahimè, quello era a
conoscenza di troppi; vero segreto di Arlecchino, come tanti e tanti
altri d’ugual genere nel nostro povero mondo; così facilmente, di
leggerezza in leggerezza, d’imprudenza in imprudenza, lasciamo
indovinare i fatti nostri più intimi a tutta una turba di sfaccendati,
in ogni città che non sia Londra o Parigi! Ed anche si può rinunziare a
queste eccezioni, chi pensi che Londra e Parigi non debbono sfuggire
neppur esse a certe piccole noie, essendo anche laggiù il mondo elegante
e il mondo pettegolo nelle istesse condizioni di buon vicinato, ed
esercitando i loro disutili uffici in una sfera piuttosto ristretta,
come in tante altre città di minore importanza. Di quel segreto
d’Arlecchino il povero signor Brizzi si era sempre doluto in cuor suo,
poichè egli amava molto il suo principale, e non era mai stato senza
timore che un giorno o l’altro gliene giungesse un cenno all’orecchio.
Era un segreto, quello, da non metterci bocca; e cercava, se fosse stato
possibile, di dimenticarlo egli stesso; per intanto non permetteva che
davanti a lui qualche amico imprudente vi facesse la più lontana
allusione.
— Comunque sia, — rispondeva la signora Zuliani, la cui fede era
certamente men salda che non fossero le tenui speranze del suo pietoso
interlocutore, — il vivere insieme è impossibile. Ella veda frattanto,
mio buon signor Brizzi, se può avere qualche altra notizia, che mi giovi
di conoscere, nello stato in cui siamo, di aperta rottura. Chi sa? Egli
vorrà bene confidarsi con Lei. E a me deve importare moltissimo che si
confidi con Lei, anzichè con altri, che sia meno amico di ambedue; non
le pare? —
Il signor Brizzi, che era tutto cuore, promise assai volentieri. Se il
signor Zuliani, com’era da credere, si fosse aperto delle proprie
tristezze con lui, certamente egli avrebbe raccomandato calma e
prudenza. Gran cose, la prudenza e la calma; quanti malanni non hanno
esse evitati! E ciò senza contare che le famiglie non debbono mettere i
loro dissapori in piazza; perchè la gente ne ride, e tra le risate della
gente se ne va il loro buon nome, il credito, il rispetto, l’onore,
tutto ciò che è più geloso, e dovrebb’esser più sacro per noi.
Con questi ed altri simiglianti discorsi, l’ottimo Brizzi prese commiato
dalla signora Zuliani. A lui si accompagnò, recando il pastrano del
padrone, il vecchio Giovanni; quel povero “paron Nane„ che pur troppo
non doveva aspettarsi la ripetizione della faceta apostrofe con cui
dodici ore innanzi era stato salutato.
Ritornata nella sua camera, la signora Zuliani si vestì in fretta e
furia, poco o punto giovandosi dei troppo lenti uffici di Giustina, la
sua cameriera.
— Andate piuttosto a vedere se Giovanni è tornato; — le disse. — Appena
arriva, mandatelo qua. —
Il vecchio servitore giungeva proprio in quel punto, e fu tosto
avvertito del comando di lei.
— Avete fatta la commissione? — gli chiese.
— Sì, signora.
— E veduto il padrone?
— No, signora; egli era nel suo studio, ed io son rimasto nella prima
camera, dove lavora il signor Brizzi. Ma l’ho sentito rispondere “sta
bene, mettete là, su quella sedia„, dopo che il signor Brizzi gli ebbe
detto che il pastrano era stato portato da casa. —
Raimondo era dunque rimasto al suo banco. Aveva egli finito di scrivere
le sue lettere? Di questo ella non poteva chiedere al servitore, che
aveva riferito quanto era in poter suo di sapere, non essendo stato
introdotto alla presenza del padrone. Erano le dieci e mezzo: la signora
Zuliani fece una pronta risoluzione; mise il cappellino in testa,
ravvolse il velo intorno alla faccia, ed uscì prendendo cammino verso il
corso Vittorio Emanuele. Di certo, andava a trovare la Galier, avendo
anch’essa bisogno di sfogarsi, di versare la piena delle sue afflizioni
nel cuore compassionevole della contessa, della sua intima amica,
dell’amica più vera, anzi dell’unica, che avesse per tale. Pallida e
spossata, con gli occhi pesti, in ogni altra occasione la signora
Zuliani avrebbe rinunziato ad una corsa fuori via; ma il momento era
grave, ed urgente il bisogno; del resto, quel velo fitto sul viso poteva
dissimular molti guasti.
Ella pensava, frattanto: mentre il corpo era in moto così frettoloso, il
pensiero non poteva restarsene inerte.
— Ha sdegnato di uccidermi; — diceva ella tra sè. — Vuole sfogarsi
contro di lui, è chiaro; gli manda un cartello di sfida. Come non l’ho
io preveduto, ch’egli si potesse appigliare a questo partito? E ancora,
se lo avessi preveduto, mi sarei io trattenuta dal fare quello che ho
fatto? Ora, egli manderà la sua lettera. L’avrà poi potuta scrivere? Ne
ha strappate già tante, che altrettante potranno ancor fare la medesima
fine. Comunque sia, bisogna avvertire quell’altro, che non sa nulla,
avvertirlo ad ogni costo. La contessa è così buona, mi è tanto amica,
che vorrà pure aiutarmi. —
Avvertirlo, sì, era bene, e faceva bella testimonianza d’animo
compassionevole. Ma era lei, Livia, la terribile Livia, la furia
scatenata di poche ore innanzi, che pensava allora in quel modo? Il suo
odio implacabile, dov’era andato a finire? Forse odiava quell’uomo,
sentendolo felice, prossimo al compimento dei suoi voti più cari, alla
consumazione del tradimento più nero; e nell’animo di lei si era
stemprato ad un tratto il geloso furore, dando luogo ad un sentimento di
pietà, forse di amore per quel disgraziato, allo scatenarsi della bufera
che doveva travolgerlo. Arcani del cuore!
Quando fu giunta al portone della Galier, la signora Zuliani entrò nel
vestibolo, ma non si volse già verso la scala a collo, che conduceva al
quartierino dell’amica; si volse in quella vece al cortile, e prese la
scaletta di servizio che metteva allo stabile attiguo.
— Perchè no? — aveva ella detto tra sè. — Sarà tutto tempo guadagnato.
Forse egli non ha ancora pensato a serrare col catenaccio, non
aspettando più apparizioni di gelose importune; — soggiunse ella
sospirando. — Tentiamo! —
Ed era salita; e giunta al noto usciolino, aveva provato nella toppa la
piccola chiave inglese, grazioso gingillo da cui non si era ancor
separata. La piccola chiave fece liberamente il suo giro; ma l’usciolino
non si aperse altrimenti.
Per l’appunto, non aspettando più visite da quella parte, Filippo Aldini
aveva dato di dentro il catenaccio. Disperata, bussò colle palme
distese, bussò quanto più forte potè, a colpi reiterati. Ah, per fortuna
era stata udita; ella sentì aprire la vetrata dello studio, e tosto
nell’andito oscuro un passo ben conosciuto, il passo di Filippo. Ancora
pochi secondi, e il catenaccio era levato; aperto l’uscio, le apparve
Filippo nel vano.
— Voi! — esclamò egli, ancora compreso di stupore. Non l’aspettava
infatti; ma l’aveva indovinata poc’anzi al giro di chiave, quindi al
batter disperato delle piccole mani.
— Sì, io; — rispose ella, entrando nello studio. — Datemi ospizio per
due minuti. So bene che vi annoio....
— Annoiarmi, no; — fu pronto egli a rispondere. — Ma voi intenderete il
mio stupore; dopo ciò che avevo promesso ier l’altro, e che ho
fedelmente eseguito, ma senza ottenere nulla da lui.... lo saprete
bene....
— Io non so nulla; — interruppe la signora. — Ho potuto credere in
quella vece che non abbiate voluto resistere fino all’ultimo.
— Fino all’ultimo! — ripetè Filippo, con voce impressa di orrore. —
L’ultimo... era il suicidio di vostro marito. Me lo aveva minacciato,
poichè il mio rifiuto lo disonorava, dopo l’impegno assunto col
banchiere Cantelli, ed egli non voleva sopravvivere al suo disonore.
Così sono stato debole, così ho ceduto, signora. —
Quelle parole la scossero. Ricordò le frasi del biglietto di Filippo
Aldini; ricordò la nera tristezza di suo marito, in attesa di quel
biglietto, e il suo mutamento repentino appena lo ebbe ricevuto. Tutto
ciò si accordava con le parole di Filippo. Ma ella non era disposta a
convenirne; e neanche era tempo da confessarsi in colpa; ben altro aveva
ella da dirgli.
— Lasciamo le dispute vane; — replicò, — e le lagnanze e le
recriminazioni, egualmente vane. Il mio orgoglio non ne farà; il mio
sdegno si è abbastanza saziato. Sono venuta per dirvi ch’egli sa
tutto. —
E cadde, così dicendo, sul divano dello studio, ove si tenne
rannicchiata, colle palme raccolte intorno agli occhi, non osando
levarli a guardare l’effetto che le sue parole producevano in lui.
Filippo era rimasto fieramente colpito. Istintivamente aveva recata una
mano al cuore, come se lì avesse ricevuta la punta mortale. Anche
intorno a lui, quante rovine in un tratto!
— Sa tutto! — ripetè, dopo un istante di pausa. — In che modo?
— Io gli ho date le vostre lettere.
— Le mie lettere! Non le avete bruciate?
— No; vi amavo.... non potevo obbedirvi. Ora il male è fatto; e
irrimediabile, non è vero? — soggiunse la signora, accompagnando la
frase d’un amaro sorriso. — Vengo ad avvertirvene, per un senso di
misericordia, che ho ritrovato ancora in fondo al mio cuore. Badate a
voi, conte; non v’incontrate con lui in questi momenti.
— Grazie, — rispose Filippo, sorridendo più amaramente di lei. — Ma come
evitarlo?
— Fuggendo.
— Io?... lo pensate?... io fuggire?
— Ma non c’è altro scampo; — diss’ella. — Se egli vi cerca, e al primo
incontro vi ammazza.... come un ladro del suo onore?
— Sarà nel suo diritto, ed avrà fatto bene; — conchiuse Filippo, alzando
la fronte, che fino allora, sotto la sensazione del colpo doloroso,
aveva tenuta abbassata.
Non c’era nulla da rispondergli; e la signora Zuliani non rispose
parola. Filippo Aldini aveva errato; riconosceva il suo fallo, senza
voler sottilizzare, senza voler distinguere come e fin dove si potesse
creder suo; era disposto a pagarne la pena; non gli si poteva chieder di
più. Egli, a buon conto, accettando il suo destino, si sentiva libero
una volta per sempre, intieramente padrone di sè.
— Molto male, — ripigliò allora, con accento grave, ma tranquillo, —
molto male avete fatto, signora. E adesso, poi, mi avrete gittato
quell’uomo sulle braccia, per venirmi a consigliare una viltà? Pagherò
il mio debito da gentiluomo, se il signor Zuliani vorrà, come io
finalmente penso contro la vostra supposizione, rifarsi con armi e forme
da gentiluomini; ed anche lo pagherò, posso prometterlo, da uomo di
cuore, che conosce i suoi torti. Se dunque è un bersaglio, quello che
vuole, egli ne ha il diritto, e lo contenterò.
— Ed egli vi ucciderà egualmente.... — ribattè la signora.
Filippo si strinse nelle spalle, e non rispose.
— O voi ucciderete lui; — proseguì ella, terminando il dilemma.
— Non farò ciò; — diss’egli, più col gesto che con parole formate.
In quel punto si udì una scampanellata all’uscio di casa.
— Ah, lui! — gridò Livia atterrita.
— Non credo; manderà piuttosto qualcuno; — notò freddamente Filippo. —
Ad ogni modo uscite, vi prego.
— E non volete ascoltarmi?...
— Non posso, signora. Qualunque cosa egli pensi di fare, io sono a’ suoi
ordini. Dopo ciò che avete fatto voi, non vedo altro che questo: e sono
lo schiavo della sua volontà. —
Una seconda scampanellata, e più forte, avvertì che non era tempo da
nuovi discorsi.
— Andate, vi supplico, andate; — disse Filippo, traendola con dolce
violenza verso l’uscio a vetri. — E non tremate per lui. —
Ella non aveva più parole, nè volontà per opporsi; obbediva alla
esortazione di Filippo.
— E badate; — soggiunse egli, prima di richiudere la vetrata alle spalle
di Livia; — serrate voi l’uscio, mentre io vado ad aprire di là. —
Livia era sparita, e la vetrata richiusa. Filippo andò all’uscio
padronale, lo aperse e si trovò davanti a Raimondo Zuliani, che già
stava per dare una terza strappata.
Filippo aspettava una coppia di padrini, per verità, ma anche, tra varii
casi possibili, aveva preveduto quelle di ricever la visita di Raimondo
Zuliani. Perciò non fece atto di grande stupore, vedendolo. Soltanto,
doveva fingersi ignaro della cagione che gli faceva capitare in casa
l’amico, a quell’ora. Da chi, infatti, poteva egli essere informato di
ciò che era avvenuto al palazzo Orseolo, quella stessa mattina? Ma egli,
per contro, non poteva mostrarsi lieto nell’aspetto, come sarebbe stato
naturale, alla vista del suo amico migliore. Si tenne dunque a
mezz’aria, e il suo atto di temperata maraviglia non prese colore da
nessun sentimento di sciocca allegrezza, o di inopportuna alterigia.
— Ah! — diss’egli, sforzandosi di parer tranquillissimo. — Tu qui?
— Sì, io qui; — rispose Raimondo, con misurata gravità. — E siamo soli,
per parlare liberamente?
— Solissimi; entra pure di qua. —
Non era vasto il quartierino di Filippo Aldini. Il suo studio era anche
la sua sala di ricevimento. Raimondo fu dunque introdotto nello studio.
Egli era serio nell’aspetto, anzi severo ed accigliato; ma non più
stravolto, non più contraffatto, nè irrequieto, come lo aveva veduto due
ore prima il signor Brizzi. In quelle due ore passate nel suo banco,
Raimondo Zuliani aveva avuto tempo di padroneggiarsi abbastanza. E
perchè poi, sarebbe egli durato nell’agitazione dei primi momenti?
Niente val più d’una risoluzione fatta, sulla quale non si deve più
ritornare, per render la calma necessaria agli spiriti dell’uomo. Egli
si era tanto padroneggiato, da poter pensare a parecchie cose più o meno
urgenti della giornata, da lasciar ordini per alcune operazioni
bancarie, e da incaricare il signor Brizzi d’una gita all’albergo
Danieli, per far le sue scuse al signor Anselmo del non esser egli
potuto andare alla stazione, e dirgli che sarebbe andato a riverirlo più
tardi. Non aveva egualmente potuto scrivere la sua lettera al “signor
conte„; ma non già perchè gli si fossero schiarite abbastanza le idee.
Troppe cose, aveva finalmente pensato, troppe cose gli sarebbe stato
necessario di scrivere. Capitava egli in persona, per dirle al “signor
conte„. Le cose d’un certo rilievo, si sa, vengon più facili a voce, che
non per iscritto.
Entrò nello studio, adunque; e appena fu entrato, fece egli da padrone
di casa. Era una cosa da nulla; ma si poteva argomentarne subito la
gravità del colloquio.
— Siedi; — aveva egli detto all’Aldini.
— E tu? — disse l’altro, obbedendo.
— Anch’io; — rispose Raimondo, ricusando la poltrona che Filippo gli
offriva col gesto, e prendendo in quella vece una scranna. — Vedi come
son calmo; — soggiunse, poichè fu seduto. — Pure, ecco un uomo, al quale
tu hai tolta la pace e l’onore. —
Filippo Aldini finse di guardarlo con aria trasognata. Ma poichè
all’artifizio della bugia non poteva durare, non aggiunse all’atto la
ipocrisia della parola; ed anzi il suo atto di stupore si mutò
rapidamente in un altro, di rassegnazione umiliata. Ah, se quell’uomo
gli fosse capitato là con una rivoltella in pugno, e d’un colpo lo
avesse freddato, certo gli si sarebbe mostrato più umano, che non
tenendolo lì, alla tortura d’un colloquio angoscioso, lasciandogli
pensare la triste cosa che pensò in quel momento supremo.
— Margherita! immagine cara! Perduta, dunque, irremissibilmente perduta!
È il destino. —


XV.

Fermi ai patti!

Stettero muti a lungo, guardandosi; Raimondo più risoluto e severo, come
ne aveva diritto; l’altro quasi timido, e profondamente umiliato, come
doveva. Era il duello morale che incominciava, prima del duello
materiale; era la punizione anticipata, in quel fronteggiarsi di due
uomini, uno dei quali si poteva dire il giudice, e l’altro era
certamente il reo.
Raimondo Zuliani fu il primo a rompere quell’angoscioso silenzio.
— Ma dimmi, — incominciò, — perchè io conosca il segreto della umana
ipocrisia.... un segreto che non ho mai potuto comprendere, e nemmeno
concepire.... come hai potuto mentire così lungamente, così vilmente con
me? —
Ad una domanda simile Filippo Aldini avrebbe potuto rispondere molte
cose. “Non è stata menzogna, non ipocrisia volontaria, la mia; non sono
stato io il colpevole, o solamente di debolezza. Trascinato, travolto,
nell’ora maledetta in cui l’uomo che non cede alle lusinghe di una donna
è ridicolo, ho ceduto ad un impeto di follìa. Ma il pentimento è stato
pronto, come era stato improvviso l’errore. Quel pentimento io l’ho
ancora dissimulato, per non offendere una debole creatura; l’ho
dissimulato a lungo, mettendo innanzi un sentimento che in me era forte
egualmente e profondo, il rimorso. Ho esortato, ho pregato, ho
supplicato; un po’ tardi, se ti parrà; ma infine, ho detto tutto ciò che
consigliava l’onore, la santità della nostra amicizia. Pensa ancora, a
mia scusa, che l’uomo non è spirito puro, a cui si possa chiedere
l’esercizio delle più eroiche virtù; pensa soprattutto che l’obbligo di
vivere così famigliarmente con te, di usare così frequentemente in tua
casa, e di non potermene allontanare senza timore di peggio, fu un’altra
specie di catena, che mi tenne ben duramente legato. Che credi? ch’io
non vedessi il pericolo? e che ci andassi incontro di buon animo? Ho
combattuto, e non ho vinto; le conseguenze della mia disfatta eccole
qui. Non intendo già di sfuggirle; mi basta, per l’onor mio, di averti
dimostrato che non ero un ipocrita, che potrei esser degno di scusa, non
avendo tradita con deliberato proposito la tua fede, la tua amicizia.„
Questo avrebbe potuto rispondere tutt’altri, che non fosse stato Filippo
Aldini, attenendosi alla verità, ma venendo meno a tutta una serie di
rispetti umani e di cavalleresche virtù. Le sue difese morali avrebbero
aggravata una donna; Filippo Aldini le mise da banda senz’altro.
— Non mi chieder nulla; — rispose in quella vece. — E non mi dir nulla,
ti prego. Se ha da essere un rimprovero, io me lo faccio da un pezzo.
Vedi la mia umiliazione? C’è più rimorsi qua dentro, che mille coscienze
umane non ne possano contenere. Risparmia questo carico nuovo alla mia.
Poc’anzi, quando io t’ho veduto entrare, ed ho letto nei tuoi occhi la
collera dell’uomo offeso, ho anche sperato che tu fossi per cavare
un’arma e freddarmi d’un colpo.
— L’ho pensato; — disse cupamente Raimondo. — Già ero per via.... e sono
ritornato indietro per deporre quell’arma, che sarebbe stata una
tentazione troppo forte. Ucciderti qui come un cane.... Lo avresti
meritato. Ma io.... se non son nato gentiluomo, mi sento tale
nell’anima. Facciamo le cose da gentiluomini, ho detto; ed eccomi qua,
disarmato.
— Sono a tua disposizione; — mormorò Filippo, inchinandosi.
Raimondo Zuliani crollò il capo, ed atteggiò le labbra ad un sorriso
sardonico.
— Lo so bene; — riprese. — So come queste cose si fanno; ed anche come
figurino bene in drammi e romanzi. Si sceglie la pistola, non è vero? Tu
spari senza puntare, o per delicatezza cavalleresca fingendo di prender
la mira; ma poi nel momento buono, sviando un tantino la canna, o in
alto, o da un lato. Così, nobilmente, ti lasci uccider da me, se io ne
vengo a capo nel numero stabilito di colpi. Non mi conviene. Aggiungi il
chiasso che si potrà fare, e si farà certamente, intorno allo scontro.
Voglio, ho il diritto di voler evitare uno scandalo, incominciato coi
mezzi silenzii di quattro padrini informati a dovere, e continuato coi
larghi commenti di una intiera città, che si occupi delle mie disgrazie
coniugali. Nè solo a me devo pensare. — soggiunse Raimondo Zuliani,
passando dall’accento amaro al solenne. — Quella donna è una
disgraziata, una colpevole; ma io l’ho amata; ma essa porta ancora il
mio nome; ed è infine una donna. Siamo cavalieri fino all’estremo. L’ho
risparmiata stamane, quando ella mi confessò tutto, mostrandomi le tue
lettere a lei.... e lasciamo stare le pazze ragioni che l’hanno
consigliata a guarirmi così duramente della mia cecità.... l’ho
risparmiata, e le ragioni mie potranno essere state pazze come le sue;
ma io non le rinnego per questo. Dovrò io condannarla ad una morte più
grave? dovrò farla arrossire e vergognare agli occhi del mondo? Neanche
ciò mi conviene.
— Allora?... — chiese Filippo.
— Allora, — rispose Raimondo, — rimane che stabiliamo esattamente i
termini della nostra questione, e che tu ne riconosca le conseguenze
legittime. Rispondi sincero ad alcune domande. Mi hai tu ferito
nell’onore?
— Sì; — disse Filippo, chinando la fronte.
— Mi hai tu uccisa la felicità?
— Sì; — disse ancora Filippo, con un profondo sospiro.
— Credi che uno di noi due sia di troppo sulla terra? — Filippo stese le
palme in atto supplichevole, come a scusarsi del non poter rispondere
con un monosillabo; poi con accento risoluto soggiunse:
— Mi ucciderò io; sei contento?
— No; — disse Raimondo, sdegnoso. — Una morte volontaria! La tua parte
sarebbe ancora troppo bella, davanti a qualche animo preoccupato,
disposto a giudicare coi lumi, o coi fumi, della passione. E a me, poi,
resterebbe la parte d’un tiranno da melodramma. Non mi conviene.
— Ma allora?.... — tornò a chieder Filippo.
— Allora, ecco ciò che io voglio, a pareggiare le nostre condizioni;
ecco ciò che ho il diritto di pretendere. Prima di tutto, giurami di
stare al patto.
— A qual patto, mio Dio! — gemette Filippo.
— A quelle che vorrò io; — rispose Raimondo inflessibile. — Non sei tu a
mia disposizione?
— Sì, te l’ho detto.
— E tu dunque giura di attenerti a ciò che mi piacerà stabilire.
— Sia; te lo giuro; — conchiuse rassegnato quell’altro.
Raimondo mise la mano alla tasca di petto del suo soprabito, e ne cavò
il portafogli. Insieme col portafogli era venuta fuori anche una
lettera, che Filippo riconobbe sua, del giorno innanzi. Povera lettera,
che doveva essere il principio della sua felicità, ed era stata in
quella vece la cagione della sua rovina irreparabile! Sospirò,
guardandola; sospirò ancora mentre Raimondo la ricacciava in tasca, con
un gesto d’impazienza e di sdegno. Aperto il suo portafogli, Raimondo
Zuliani ne cavò due foglietti quadrati, sui quali si vedeva un accenno
di scritto.
— Li avevo già preparati; — diss’egli, — Guardali bene. —
Filippo li guardò. C’erano scritti due nomi; Aldini nell’uno, Zuliani
nell’altro.
— Esamina attentamente; — incalzò Raimondo. — Non c’è scritto altro, nè
sopra, nè sotto. Ed ora piegali in quattro. —
Filippo obbedì. Raimondo, frattanto, offriva il suo cappello: ma
ravvedutosi tosto, e guardatosi attorno, aveva veduto appeso in un
angolo il cappello dell’Aldini. Lasciato il suo, corse ad afferrar
quello, e lo porse a Filippo, dicendogli:
— Mettili qua dentro. —
E perchè quell’altro si schermiva, riprese con accento imperioso:
— Suvvia! voglio così. —
Filippo aveva obbedito.
Oramai, si sentiva ridotto allo stato d’una macchina, in piena balìa di
quell’uomo. Raimondo Zuliani agitò un tratto il cappello, perchè il caso
disponesse i biglietti a sua posta.
— Ed ora, — riprese, — cavane uno.
— Perchè?
— È vero, debbo dirti il perchè. Il nome estratto dirà chi di noi due
dovrà morire, in un termine stabilito di tempo. Metto il termine a
sessanta giorni, da oggi. Ti parrà forse troppo lungo; — soggiunse
Raimondo; — ma ti dirò poi perchè sia necessario. —
Filippo esitava sempre; ed allora più che mai.
— Raimondo! — gridò con accento supplichevole.
Ma quell’altro era implacabile.
— Hai dunque paura? — gli chiese.
Filippo Aldini si rizzò tosto sulla persona, con tutto l’orgoglio del
sangue antico, con tutto l’ardore della sua gioventù, con tutta la
fierezza dei freschi ricordi d’una vita onorata.
— Non per me, — gridò egli, ferito nel cuore. — Come puoi tu dimenticare
che parli ad un soldato? E non ti ho offerto io poc’anzi un patto
migliore del tuo? Te l’offro ancora; sarai più sicuramente vendicato, ed
io l’avrò per atto di giustizia. —
Raimondo crollò sdegnosamente le spalle.
— Se lo dicevo io, che si scivola nel melodramma! — esclamò. — Debbo
ripeterti ancora che tu vorresti la parte bella per te? e che questo non
mi conviene? Finiamola, e resti ciò che io ho stabilito. Quanto al
termine che ho posto, è forse a mio vantaggio, ma tu non devi
lagnartene. Io, se ha da toccare a me, non me ne voglio andare dal mondo
come un fallito. Grazie a Dio, non son tale. Voglio dar sesto alle cose
mie, chiudere il banco da uomo che si è seccato degli affini, trovare un
buon pretesto alla mia sparizione, ed anche portare le mie ossa
condannate assai lontano di qua. Dunque siamo intesi, alla sorte! —
Così dicendo, porgeva ancora il cappello. Filippo torse il viso con un
gesto di viva repugnanza.
— Non io, se mai, — diss’egli, — non io.
— Ebbene, tanto fa; — disse Raimondo; — sarò io. — E mise la destra in
fondo al cappello. Il momento era solenne. Grave nell’aspetto, ma calmo,
Raimondo levò la mano, tenendo un biglietto tra le dita; lo spiegò
tranquillamente, e lesse:
— Zuliani! —
Filippo diede un balzo di tutta la persona. Quel balzo rispondeva ad un
violento sussulto del cuore. Divento pallido, smorto nel viso; un sudor
freddo gli gocciolava dalla fronte.
— Ah! Raimondo! — esclamò, tendendo le braccia in atto disperato. — Non
così! non così!
— Perchè? — disse Raimondo, grave e tranquillo come prima. — Perchè, se
le cose sono state fatte a dovere? Vedi l’altro biglietto; c’è pure il
tuo nome, che poteva uscire, com’è uscito il mio. Fermi ai patti,
dunque; non c’è stato inganno, e i patti onestamente accettati debbono
essere onestamente osservati.
— Ma il colpevole sono io: perchè pagheresti tu, con la vita, per una
colpa non tua? —
Raimondo fece un gesto di sublime rassegnazione; e l’accompagnò di un
mesto sorriso.
— Caro, — rispose, — è la giustizia del cielo; cieca come quella degli
uomini! Ma no, — soggiunse tosto, ravvedendosi, — dico male; non cieca.
Guardandoci bene, non è piuttosto, da dirsi avveduta, quella di lassù, e
cauta, e provvida, come l’altra di quaggiù non sarà mai? Pensaci; come
potrei viver più io, se anche m’avesse favorito la sorte? — aggiunse
Raimondo, rabbruscandosi in volto. — Tanto la mia sentenza era scritta;
non mi avevi ucciso tu già nei miei due sentimenti più vivi e più sacri,
l’amicizia e l’amore? — Va, dunque, e lascia che il destino si compia.
Quanto a te, sei punito abbastanza; dal tuo rimorso, anzitutto, a cui
credo.... Che è ciò? — chiese egli, interrompendosi a mezzo del sua
triste discorso, e volgendo gli occhi verso la vetrata di fondo, nella
parete di sinistra.
Era venuto di là un piccolo rumore, breve e leggero, ma secco, come di
serratura delicata, ove una stanghetta a colpo avesse battuto nella
bocchetta, per chiudere un uscio. Anche Filippo lo udì, ricevendone una
scossa molesta; ma non poteva mostrare di averlo notato.
— Che cosa? — domandò egli a sua volta, fingendo di non intendere il
perchè di quella interruzione.
— Un rumore di là; — disse Raimondo.
— Di là? C’è un anditino; — replicò Filippo; — e la camera del
servitore. Ma il servitore, di giorno, non c’è. —
Avrebbe potuto dire che il servitore non c’era neanche di notte, e che
al governo del suo quartierino bastava una persona di mezzo servizio. Ma
a tanta abbondanza e sincerità di ragguagli non era neanche obbligato.
Bene sentì l’obbligo di assicurare il suo ospite, andando ad aprir
l’uscio a vetri, ed anche di entrare nell’andito, per poter dire,
tornando, che infatti non c’era nessuno; onde il rumore udito da
Raimondo poteva credersi effetto di un fenomeno acustico d’una risonanza
da camere e scale del vicinato. Il signor Zuliani, del resto, non si
trattenne a pensarci più oltre, dovendo ritornare al fatto suo; il
quale, per allora, si mutava nel fatto del suo avversario.
— Ed ora, — diss’egli, — la prima parte è assestata.
— Ma no, Raimondo, ma no! — gemeva ancora Filippo Aldini.
Quell’altro non voleva sentire piagnistei. Lo saettò d’un’occhiata
severa, e riprese:
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