Il ponte del paradiso: racconto - 09

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e le rendo giustizia. Carina per ora, intendiamoci; bisognerà vedere
come metterà.
— Oh Dio, degli altri dubbi?
— Già; se diventasse un’oca come sua madre, che brutti giorni al signor
conte! —
E ripigliava a ridere, la signora Livia, a ridere più che mai, fino alle
lagrime, e facendosi ritornare il singhiozzo.
Raimondo pensò che quello fosse un ridere troppo forte per troppo lieve
cagione. Ma conosceva il carattere di sua moglie, con quella facilità di
andare agli estremi. Ora tra un estremo e l’altro, era da preferirsi
quello del ridere. Il ridere fa buon sangue, finalmente. Ed egli poteva
consolarsi pensando al titolo di una commedia dello Shakespeare: _All’s
well that ends well_; è tutto ben quel che finisce bene. Per tali
ragioni Raimondo Zuliani se ne andò quel giorno assai felice al suo
banco; felice ancora di essersi sollevato d’un gran peso, confidando
alla sua Livia il segreto che gli doleva di aver mantenuto troppo a
lungo con lei.
Quel giorno, ancora, a pranzo, la bella signora trovò nella sua
salvietta un astuccio di velluto azzurro che prometteva gran cose.
— Un gingillo, — disse Raimondo, con aria modesta; — ed era un gioiello
di grandissimo prezzo, una vera meraviglia, un regalo da principe.


X.

Idilio domestico.

Filippo Aldini aveva lasciato passare un giorno senza andare al Danieli.
La visita inaspettata della signora Zuliani, mettendolo presto nella
necessità di congedarsi, gli aveva impedito di chiedere alle signore
Cantelli se potesse piacer loro di fare qualche altra passeggiata
artistica la mattina seguente; perciò non aveva stimato neanche
opportuno di ripresentarsi, e senza una apparente ragione, a
ventiquattr’ore di distanza. Andò il terzo giorno, che era un mercoledì,
conciliando col suo desiderio le convenienze sociali. Lo ricevette la
signora Eleonora, che era sola nel salotto; nè per tutto il tempo delle
solite ciarle preliminari d’ogni visita di cerimonia Filippo Aldini vide
comparir Margherita: l’uscio della camera attigua, donde soleva
presentarsi la luminosa figura, rimaneva inesorabilmente chiuso, “d’ogni
lume muto„.
Ardì finalmente chieder di lei, parendogli che più del parlarne fosse
disdicevole alla condizione sua di visitatore il tacerne.
— È poco bene; — gli disse la signora Eleonora. — Il medico le ha
raccomandato qualche giorno di riposo.
— Speriamo sia cosa leggera; — riprese egli turbato, invocando colla
intensità dell’accento e dello sguardo una confortante risposta.
— Sì, sì, leggera; ci ha avuto un po’ di febbre; ma anche questa è
svanita. —
La signora Eleonora rispondeva impacciata, fors’anche di mala voglia, e
Filippo Aldini non osò chieder di più. Era già per andarsene, avendone
buon pretesto nel timore di riuscire importuno; ma la signora lo
trattenne, dicendo che per allora la sua Margherita non aveva bisogno di
lei. Così seguitarono un altro poco a discorrere, lei senza calore di
frasi, egli non sapendo che dirle di nuovo o di vario, per offrire
appiglio ad una conversazione che non fosse di parole scucite. Per
fortuna giunse Federigo, e la signora Cantelli si animò un tratto alla
presenza del figlio. Anche Filippo ebbe modo di tacere, senza venir meno
alle buone creanze, e tempo di collocare discretamente qualche frase qua
e là. Poi se ne andò, giustamente immaginando che il suo rimanere più a
lungo avrebbe impedito a quei due di andare nella camera di Margherita.
Quella indisposizione subitanea, e più ancora il silenzio intorno alle
cause che l’avevano prodotta, mettevano Filippo Aldini in una grande
ansietà, ch’egli tentava invano di dominare. E Raimondo non ne sapeva
niente? Forse da lui avrebbe saputo qualche cosa. Passò dunque a
salutare Raimondo al suo banco, non facendo nulla di strano con ciò,
poichè soleva andarvi quasi ogni giorno, dalle tre alle quattro del
pomeriggio. Raimondo fece festa all’amico, secondo l’uso, e fu il primo
a parlargli delle Cantelli, chiedendogli se fosse andato a salutarle.
— Sì, sono stato; la signorina Margherita è indisposta; — rispose
Filippo. — La signora Eleonora dice che è cosa leggera. Ma che sarà
veramente?
— Non te lo ha detto?
— No, niente, ed io non ho creduto conveniente insistere colle domande.
— Ebbene, te lo dico io; è stato un effetto del gran calore che mandano
le stufe dell’albergo. Anche mia moglie ne ha sofferto, solo a restarci
un’ora in visita: ma per lei, fortunatamente, è bastata qualche ora di
letto; mentre la signorina Margherita, che a quella fornace si è
scaldata più lungamente, ne ha sofferto di più. Non temere, per altro; è
cosa da nulla, tanto da nulla, che ieri, quando fui al Danieli, la
signora Eleonora non aveva neanche chiamato il medico.
— Lo ha chiamato poi; — disse Filippo; — perchè me ne ha parlato.
— Ah sì; e il nome?
— Non lo ha detto.
— E che cosa ha ordinato?
— Qualche giorno di riposo.
— Vedi dunque? Non c’è da stare in affanno, mio felice mortale. Ci si
vede, stasera? Non si va a teatro, e si fanno quattro ciarle, al solito
dei mercoledì. Ma vieni per tempo; se no, potrebbe darsi che uscissi, e
ti vedrei troppo tardi. —
Filippo Aldini promise. Andare per andare, meglio di prima sera, per non
correre il rischio di perdere la compagnia dell’amico.
Raimondo era di buonissimo umore: a casa fu piacevolissimo, pensando
sempre come la sua Livia avesse gradito il suo regaluccio. Disponendosi
ad accompagnare la moglie nella sala da pranzo, le disse tra tante altre
cose più o meno importanti:
— Stasera avremo il nostro Filippo. —
La signora Livia non rispose. Ma forse non aveva udito; poichè egli,
dopo un istante, riprese:
— Se almeno capitasse sull’ora del caffè!... Egli ha sempre detto che
quello di casa Zuliani è il primo caffè di Venezia.
— Chi? — domandò la signora.
— Filippo, Filippo Aldini. È passato da me oggi alle quattro; e mi ha
promesso di venire questa sera da noi. Vedi come son forte in
grammatica.
— Che cosa viene egli a fare? — scappò detto alla signora. — S’è
inabissato il Danieli? non dovrà egli condurre le signore Cantelli a
teatro?
— Non è questo il suo uso; — notò pacatamente Raimondo. — Poi, come ti
ho detto, la signorina Margherita è ancora indisposta.
— Ah, non ci pensavo. E allora il signor conte si degna di venire da
noi? Staremo agli avanzi.
— Ma che idea!
— Bene, lo riceverai tu. Io mi ci seccherei; e il meglio sarà di darmi
per ammalata. Non è la moda?
— Via, fammi il piacere! — gridò Raimondo. — Che cosa ci hai, contro
quel poveretto?
— Niente; che vuoi ch’io ci abbia? O piuttosto, sì, pensandoci meglio,
sento di averci qualche cosa. Prima d’ora, lo stimavo; oggi.... mi pare
un altro uomo, e un altro carattere. Sai che son fatta così; quel che
penso debbo dirlo, o lasciarlo capire. E intanto, con tutto quello che
penso, dovrò, per far piacere a te, parlargli della felicità che lo
aspetta, e rallegrarmi con lui della gloria di quei due milioni, o giù
di lì, che la fortuna gli porta.
— È tutto qui? — disse Raimondo. — Non gliene parleremo.
— Sarebbe l’unica; — consentì la signora. — Ma tu col tuo fare così
largo, così espansivo, sarai capace di star zitto? —
L’osservazione non era piacevole; ma Raimondo ebbe il buon senso di
mandarsela in celia.
— Ah sì, birichina? Perchè non ho saputo tenere un segreto con te, mi
credi incapace di star zitto con gli altri? Ma con te era un’altra cosa,
mia bella. Non potevo tacerti più a lungo un’idea che mi premeva tanto,
e che contro il tuo pensare, permetti, mi pareva e mi pare sempre più
una bella cosa.
— Puoi dirla anche bellissima; — rispose la signora. Che si canzona? Un
milione e duecento cinquantamila lire, e poi la dote di cinquecentomila.
— No, cara; la dote prima, l’eredità poi, e speriamo assai tardi.
— È tutt’uno; e verrà egli in possesso di tutto.
— Neanche questo; sarà tutta roba dei figliuoli.
— Che han da venire; — commentò la signora. — Ed egli frattanto
amministrerà.
— Amministrare non è scialacquare, ed egli vorrà tenere i suoi conti in
regola. Oh, infine, perchè una ragazza è ricca, non troverà più un
galantuomo che s’innamori di lei? E se il galantuomo s’innamora, dovremo
noi sospettarlo di secondi fini? Sii giusta, amica mia, sii ragionevole.
— Sì, sì, quello che vorrai; tanto più che non ho da farci uno sforzo; —
rispose la signora, ridendo di quel suo riso pazzesco. — Un giudizio
interiore sugli atti del prossimo nostro non si può soffocare, ecco
tutto. Ma il fare una bella o una brutta cosa, risguarda lui. Resta che
io non gli entrerò di nulla, e tu nemmeno; altrimenti un po’ d’amaro
dovrebbe uscir fuori.
— Ma perchè, Dio santo, perchè?
— Sei tu che me lo domandi? Tu, a buon conto, hai sposato una donna che
non aveva un soldo. Ho detto un soldo.
— Bella forza! — esclamò Raimondo. — Quella donna era Livia la bella.
— Anche quell’altra è bella, ma con la ricchezza in più.
— Bella, sì, non lo nego; — riprese Raimondo. — Ma che paragoni vuoi
fare? Sono essi possibili? Riconosco tutto quello che va riconosciuto;
ma sopra Livia, o alla pari con Livia, niente, niente; hai capito? vuoi
che vada a gridarlo sul campanile di San Marco? —
Livia era in quel momento un po’ avanti a lui. Si arrestò, mentre egli
finiva la frase, gli appoggiò le spalle sul petto, e arrovesciando il
capo sull’omero di lui, volse la faccia ridente per modo che il galante
marito potè cogliervi un bacio.
Quella sera Filippo Aldini capitò al palazzo Orseolo; non sull’ora del
caffè, come Raimondo avrebbe desiderato, ma pochi minuti più tardi. Fu
accolto con grazia incantevole dalla padrona di casa, e di ciò fu
contento Raimondo assai più che di poter offrire all’amico una chicchera
del primo caffè di Venezia. Così, fatto felice con poco, Raimondo parlò
volentieri per tre, mentre Filippo anche più volentieri ascoltava, e la
signora Livia guardava i giornali, interrompendo di tratto in tratto
quella leggera occupazione con qualche breve sparizione; per dar ordini,
naturalmente, e una volta poi per ritornare tutta gloriosa e trionfante
con una gran busta di velluto azzurro, che posò sulla tavola sotto gli
occhi dell’Aldini.
— Confetti? — mormorò egli, tanto per dire qualche cosa.
— Se ne gradisce, signor conte; — rispose la signora, facendo scattare
il coperchio. — Per serate di gala. —
Filippo Aldini rise involontariamente dell’errore in cui era caduto. Ma
l’errare è da uomini, specie in simili cose. La gran busta di velluto
azzurro racchiudeva nella sua custodia di raso bianco un gioiello
stupendo, una specie di diadema tra lo stile egizio e l’etrusco. Un
cerchio d’oro, che s’andava assottigliando verso i capi, e che doveva
nascondersi mezzo entro le ciocche della capigliatura, reggeva nella sua
parte anteriore un serpente, avvolto in larghe spire, eretto il collo e
spalancate le fauci, in atto di ghermire una farfalla. L’idea, forse,
non era nuova; ma la facevano parer tale, se mai, le grazie di un’arte
squisita, e più di tutto una leggerezza di esecuzione che contrastava
mirabilmente colla varietà della materia posta in opera, e tutta
distribuita in piena evidenza. Il serpente era coperto per intiero di
smeraldi sul dorso, di crisòliti nel ventre, con aggiunta di carbonchi
nella cresta e negli occhi: la farfalla aveva il corpo formato di tre
zaffiri, e le ali tempestate di brillanti; screziate di brillanti
minuscoli le antenne, e terminate in due rappettine di brillanti più
grossi, tremolanti e scintillanti ad ogni moto dei loro tenui sostegni.
Insomma, era uno splendore, una maraviglia, un portento. Filippo ammirò,
come doveva, esaminando attentamente in ogni parte il lavoro, e lodò
senza fine il buon gusto della scelta.
— Della scelta! — esclamò Raimondo, — Non ne ho nessun merito. Era il
meglio della vetrina, e la grande ultima novità di Parigi. Con queste
raccomandazioni, non c’era da scegliere; bisognava portar via
senz’altro.
— Ti loderò dunque di aver portato via; — disse Filippo. — Sei contento?
— Raimondo è un angelo; — sentenziò la signora.
— Angeli in terra, e coi baffi! — gridò Raimondo, con accento di
protesta. — In terra, mia cara, non ci sono altri angeli che le donne: e
aggiungerò: alcune donne.
— Angeli caduti di lassù, dunque; — fu pronta a ribattere la signora
Livia; — voleranno male, non ti pare? E saranno anche capricciosi,
diseguali d’umore, come siamo noi troppo spesso. Ma tu, Raimondo, sei
sempre quello d’un giorno. Dica Lei, Aldini; non pensa come me, che
Raimondo è un angelo? —
Filippo Aldini sentiva di fare in quell’idilio maritale una parte
abbastanza ridicola. Avrebbe per intanto voluto trovare qualche idea che
gli facesse gioco, rialzando un pochettino la sua condizione di terzo
incomodo.
— Raimondo è banchiere; — diss’egli. — Come banchiere gradirà le
cambiali a due firme. Ma non qui certamente; e il mio avallo varrebbe
poco, anzi diciamo pure che guasterebbe, dove ella ha parlato così bene.
Io so per mio conto che Raimondo Zuliani è la perla degli amici.
— Ah, ne conviene? — gridò la signora con accento di viva esaltazione,
mentre gli occhi le si accendevano d’un lampo subitaneo.
Filippo si era già pentito della sua giunta. Gli passò per la mente che
da quelle sue parole si prendesse occasione ad entrargli del suo
matrimonio, che era ancor di là, molto di là da venire. Ma non se ne
fece nulla; il lampo subitaneo degli occhi si spense, l’accento si
rifece pacato, ed anche Raimondo si era fatto sollecito a cangiare
argomento. Ne uscì dunque colla paura; e frattanto uno squillo del
campanello in anticamera annunziava visite. Entravano pochi istanti dopo
in salotto il cavaliere Lunardi e il maestro di musica. Oh bravi!
Filippo Aldini li avrebbe di gran cuore abbracciati.
Anche la signora Livia fu molto contenta di quei due arrivi. E come no?
Erano due gentiluomini della sua corte, e si dimostravano singolarmente
fedeli; erano anche i più utili, l’uno per tener viva la conversazione,
l’altro per variarla con un pochino di musica.
— Abbiamo pensato che era mercoledì, e che Ella non andava a teatro; —
disse il cavaliere Lunardi, stringendo devotamente la mano che Livia gli
stendeva con gesto regale.
— Usanza vecchia; — rispose ella. — Bisognerà cambiarla.
— Perchè?
— Per far novità, non le pare? Il mondo cammina; non possiamo star fermi
noi, che ci dobbiamo viver dentro.
— Oh, signora, non si dia pensiero del mondo. Quando avrà ben camminato,
si stancherà. Noi facciamo intanto il comodo nostro. Ed ella, per
carità, non ci levi la nostra buona serata.
— Ella è sempre gentile, signor cavaliere. Ma io non la leverò di qui,
se non per vederla ancora a teatro. —
Tra queste ed altre chiacchiere d’uguale importanza, il maestro di
musica era andato al pianoforte. E suonò, quasi sarebbe inutile il
dirlo, un po’ di _Bohème_, quindi un po’ di _Manon_; anzi delle due
_Manon_: avrebbe suonato anche un po’ di _Tosca_, se la _Tosca_ fosse
già stata messa in musica e portata agli onori della scena. Ma ciò,
senza avere in animo di far torto ai giovani compositori italiani,
conveniva poco alla signora Livia.
— Maestro, — diss’ella, facendo interrompere di punto in bianco una
elegantissima frase melodica, — ci suoni il duetto d’amore
dell’_Otello_. È una cosa tanto appassionata, veramente deliziosa! —
Il maestro fu pronto ad attaccare il pezzo richiesto.
— Che dolcezza! che incanto! — mormorava la signora Livia.
E coi moti del capo, e col battere delle dita sulle pieghe della gonna
di velluto, accompagnava i suoni, che le andavano all’anima. Dovevano
tutti infiammarsi, andarne in visibilio come lei, e primo frattanto il
cavaliere Lunardi, che le sedeva vicino. Ma il buon cavaliere era in
vena, quella sera, e non voleva arrendersi senza battaglia.
— Strano! — diss’egli, poichè il maestro ebbe finito. — Un duetto
d’amore tra marito e moglie! S’è mai sentita in teatro una cosa
simile? —
La signora Livia s’inalberò, minacciando il cavaliere Lunardi colle
stecche raccostate del suo ventaglio.
— Ma sa, cavaliere, — gridò, — che questa sera, contro l’uso, Ella è
molto brutto?
— Grazie per l’uso; — riprese egli, inchinandosi sulla vita; — ma in che
sarei brutto, stasera?
— Non se ne accorge? Nel non veder poesia nel matrimonio. Il nodo è
sacro; non è dunque da buttar via. E se due creature l’hanno per tale,
non ci vorrà Ella riconoscere un bello esempio di costanza in amore? La
costanza....
— Tiranna del core; — soggiunse a mo’ di glossa il cavaliere Lunardi.
— Tiranna pei duchi di Mantova; — ribattè la signora; — ma non per chi
ama davvero. E le pare una cosa tanto poco poetica, da non tollerarsi in
un duetto d’opera?
— Ecco, io non so veramente; — rispose il cavaliere Lunardi, fingendo di
mettersi sul grave; — bisognerebbe aver provato. Del resto, qui si fa
per discorrere, ed io, in questa causa di santificazione del matrimonio
sarò l’avvocato del diavolo; una parte che non disdegnano di sostenere i
più fedeli cristiani. Il matrimonio, ella dice, può essere esempio di un
amore costante. Un amore costante è un amore che rischia d’invecchiare.
Diciamo dunque un amor vecchio. Ed io ho letto in un autore antico, e
latino, il che accresce di tanto la sua autorità, che un amor vecchio è
una gran prigionia. Dimmi tu, Filippo, se cito giusto; tu che hai gli
autori latini sulla punta delle dita. —
L’Aldini sorrise, tentennando la testa.
— Troppo forte mi fai; — rispose. — Ma per questa volta ti posso
servire. L’autore latino è Petronio. _Antiquus amor carcer est_, ecco la
massima; ma egli, per tua norma, la fa dire da uno dei commensali di
Trimalcione, e per celia.
— Bravo! — gridò Raimondo. — Aiutaci un po’ tu contro questo terribil
cavaliere.
— Terribile, è troppo onore per un combattente mio pari; — disse il
Lunardi, ridendo. — Infatti, vedete; io, da buon campione.... senza
valore, cedo volentieri sulla questione poetica; ma mi rovescio sulla
questione musicale. Mi battano anche su questa. Intanto io sostengo e
dico che l’amore matrimoniale non è da duetti alla ribalta. Questo
dell’_Otello_, che credo sia l’unico, su che idee tenta di appoggiarsi?
Su questa, che è poi un cenno di tempi anteriori al matrimonio: “E tu
m’amavi per le mie sventure. — Ed io t’amava per la tua pietà„. Diciamo
di passata che il Moro, anzi il Negro, è molto generoso con una bella e
bionda patrizia veneziana; l’ha riamata per la sua compassione! Quanto a
lei, se è vero che ne sentisse tanta, che bisogno c’era di sposare il
Nubiano? Un negro, lo so, è un uomo come un altro. Ha delle sventure?
Poveraccio, gli si apre una colletta, e la figlia del senatore Brabanzio
ci mette magari tutti i ducatoni che le hanno regalati per Ceppo. Che
cosa ci ha guadagnato la bella Desdemona a sposare il Nubiano? Un
fazzoletto. Gran signore, e veramente prodigo, quel generale della
Repubblica! Va dai Bocconi del tempo, e compra un fazzoletto; neanche
una dozzina, per l’uso; e quel fazzoletto unico, vuol vederlo sempre.
Avesse pensato almeno a regalarle un bel solitario di diecimila lire! o
un diadema come quello che ieri è stato pagato venticinquemila al
Marchesi!
— Ieri? — domandò la signora.
— Sì, ieri, tra le quattro o le cinque. Se ne parla dappertutto, e si
almanacca sul nome del compratore, che il gioielliere non ha voluto
dire.
— Raimondo! — esclamò la signora, mezzo severa e mezzo sorridente
nell’aspetto. — Una follia!
— Come l’amore, se mai; — rispose a mezza voce Raimondo.
Frattanto la signora aveva riaperta la busta di velluto azzurro, che era
rimasta davanti a lei sulla tavola, e la faceva ammirare al cavaliere
Lunardi.
— Eh, lo pensavo ben io! — gridò il cavaliere, dopo aver guardato per
tutti i versi il gioiello. — Ci avrei giocata la testa. Da due giorni
c’era folla, alle vetrine del Marchesi; ma nessuno s’era arrischiato
dentro. E poi, quando fu sparito dalla mostra, lo avrebbero tutti
voluto, il capolavoro costoso. Dico tutti per iperbole; saranno poi
stati tre. Mariti? non so. Bene è stato un marito, quello che ha portata
la palma; il _record_, come ora si dice. Ed ecco, — conchiuse allegro il
cavaliere Lunardi, — ecco i mariti con cui si possono far dei duetti.
— Ne conviene, eh? — disse Livia, raggiante.
— Ma sì, nel caso presente che è il caso vero, e forse unico. Ma in
quell’altro, del Nubiano, Dio guardi! E poi, con quella brutta fine!
— Ammetta che amava bene, quell’uomo.
— Da pazzo, sì, che ancora potrebbe andare; da cieco, che non va più in
nessun modo.
— Eppure, mi lasci dire, — notò la signora, — nel caso di Otello aveva
torto Desdemona. Ma sì, cavaliere, aveva torto, con quella sua eterna
compassione per Cassio. Compassione pei negri, compassione pei bianchi;
era un pozzo inesauribile di compassione, quella nostra concittadina.
— Consoliamoci, — soggiunse il cavaliere Lunardi, — consoliamoci
pensando che Desdemona non è mai esistita, e che a nessuna delle nostre
belle Veneziane è mai passato per il capo, da che Venezia esiste, di
sposare un Negro.
— Ah, non è storico, il fatto?
— Non credo. Del resto chiediamone all’amico Aldini. Che cosa puoi
dircene tu, Filippo?
— Quello che ne saprai tu pure; — rispose Filippo. — Il fatto vero è
brevemente questo. Cristoforo Moro, veneziano, e governatore a Cipro nel
1508, uccide la moglie per gelosia. Trent’anni dopo, o giù di lì, un
romanziere prende il fatto nudo e bruco dalla cronaca veneziana, e ne fa
una novella. Un po’ per riguardo alla casata patrizia dei Moro, un po’
per seguitare il suo uso, che era quello di travisare i fatti d’ogni
storia, e sacra e profana, per far mostra di genio inventivo, trasforma
il Moro di casato in un Moro di nazione, e lo fa di pelle anche più nero
che non siano mai stati i Mori. Ecco tutto. Su quella novella del
Giraldi ha lavorato lo Shakespeare. Sul dramma dello Shakespeare hanno
fatto musica, da quei due grandi artisti che sono, il Rossini ed il
Verdi. Ho abbreviato per non dar noia, ma credo di non aver dimenticato
nulla; — conchiuse modestamente l’Aldini.
Aveva infatti abbreviato molto; e forse c’era da dirne più a lungo,
specie in onore di quel povero Giraldi, la cui novella era stata ormata
periodo per periodo, quasi parola per parola, dal grande tragico
inglese. Quando i salotti si occupano d’arte, prendendo occasione da
un’opera moderna, è ben giusto che sopportino anche un richiamo erudito
alle fonti. Ma l’argomento dava noia all’Aldini. Che idea stramba era
venuta in mente al cavaliere Lunardi, con la sua arguzia sul caso di
Otello, e, peggio ancora, sulle massime di Petronio Arbitro! Del resto è
sempre così, nei salotti; quando vien fuori un tema antipatico, non c’è
caso che nessuno se ne voglia staccare; ed è proprio come quando siete
afflitto da un fignolo, o da altra noia consimile, che tutti sentono il
bisogno di farvi carezze, e ci dànno allegramente del dito.
L’Aldini non aveva ancora finito il suo discorsetto erudito, che già la
signora Livia si era dileguata con la sua busta di velluto azzurro tra
mani. Raimondo aveva creduto lì per lì che fosse andata a riporre il suo
gioiello; e non fu poca la sua maraviglia, quando la vide ritornare col
diadema in fronte. Proprio così; la bella donna aveva voluto fare, a
benefizio di pochi eletti, la prova generale della sua rappresentazione
a teatro.
— Serata di gala! — diss’ella, avanzandosi con incesso di dea in mezzo
al salotto, maestosa, trionfante, sotto quel luccichìo di gemme, con
quel pennacchio di piccoli brillanti, che tremolavano ad ogni suo passo,
mandando attorno bagliori di fiamme azzurrine e rossiccie.
Il cavaliere Lunardi gettò un grido di ammirazione.
— Questo divino spettacolo è per noi, solamente per noi; — soggiunse
egli tosto. — Tutti possono invidiarcelo; nessuno ce lo leva più. —
Raimondo gongolava. La sua Livia non poteva fargli davvero un regalo più
prezioso del comparire innanzi agli amici col suo bel diadema in capo,
che la faceva rassomigliare ad una regina antica, della leggenda o della
storia, ad Elena, per esempio, a Cleopatra; a questa, soprattutto, che
parve creata a bella posta per dar risalto ai più costosi ornamenti.
Un pensiero di quella fatta balenò certamente alla fantasia del
cavaliere Lunardi.
— Chi oserebbe negare, — diss’egli, — che le pietre preziose siano state
fatte per accompagnar la bellezza? Tutto, in natura, ci si mostra
ordinato ad un fine. Lo smeraldo, lo zaffiro, il diamante, sono fatti
per le donne belle; se così non fosse, a che servirebbero? —
La trionfante signora sorrise a quella scarica di complimenti, e passò,
avviandosi al pianoforte, per dire al maestro di musica:
— Un altro duetto, la prego; per me e per Raimondo, mi capisce? —
Il maestro di musica assentì prontamente con un cenno del capo; e subito
attaccò il duetto dei _Puritani_: “A te o cara amor talora.„ Era la
passione di Raimondo Zuliani, che giurava e spergiurava esser quello il
motivo melodico più bello che fosse mai passato per la mente di un
musicista.
Così pensando in materia di musica, era naturale che Raimondo si
accostasse anche lui, e ritto lì dietro la cassa armonica del pianoforte
prendesse a battere il tempo con la punta delle dita sul coperchio,
canticchiando tra i denti il suo motivo prediletto. Ma non canticchiava
più, cantava a dirittura, quando veniva a frammettersi nel duetto la
parte del coro:
“Senza occaso questa aurora
Mai null’ombra o duol vi dia;
Santa in voi la fiamma sia,
Pace ognor v’allieti il cor.„
— Ed eccoti, Lunardi mio; — diss’egli, alla fine del pezzo, — il duetto
di due che si sono sposati.
— Sì, sì, hai ragione, Arturo; ed ha ragione Elvira; — rispose il
cavaliere Lunardi. — Potrei ribattere ancora che le eccezioni non
contano; ma già mi son dato per vinto, “campione senza valore„, come ti
ho detto in linguaggio postale. —
Infine, si era allegrissimi. La signora Livia, rutilante, sfavillante,
di gioie e di gioia, trionfava accanto al suo Raimondo, che era
diventato il re della festa, e che in cuor suo ripensava i versi
indimenticabili del coro nuziale.
“Santa in voi la fiamma sia,
Pace ognor v’allieti il cor.„
Il re della festa non lasciò partir quella sera i suoi fedeli, senza
aver fatto saltare il turacciolo a due bottiglie della Vedova
incomparabile. Ottimo signor Cliquot, voi mancavate a quell’altro
duetto; ma si ricordò di voi il cavaliere Lunardi, che bevve alla vostra
pace e alla gloria del vostro casato fino alla consumazione dei secoli.
Filippo Aldini se ne andò quella sera abbastanza consolato dal palazzo
Orseolo. Si era festeggiato un santo matrimonio, e non si era fatto il
menomo cenno del suo. Un altro giorno guadagnato, frattanto; ed egli
giunse a casa sua, oltre il corso Vittorio Emanuele, colla illusione di
non esser più lui, ma un altro essere, sciolto di pensieri, di cure, di
malinconie d’ogni specie, padrone di sè, padrone del mondo.


XI.

La testa di Medusa.

Filippo Aldini ebbe modo, nella pace notturna del suo quartierino, di
almanaccar lungamente su quello che per calmarne le apprensioni gli
aveva detto Raimondo. Margherita era dunque ammalata per il caldo
soverchio di una stufa? Strano ripensandoci allora, strano che quel gran
caldo, magari con tutte le esalazioni capaci di ingombrare il cervello,
egli non lo avesse neanche avvertito! E proprio, nello spazio di tempo
assegnato, ad una visita di cerimonia, ne era rimasta offesa la signora
Zuliani che aveva dovuto in giornata mettersi a letto anche lei!
Bizzarra coincidenza di indisposizioni! E quella ottima signora Eleonora
così impacciata con lui, quando era andato a far visita!
Un vago sospetto passò per la mente di Filippo. Che la Zuliani avesse
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