Il ponte del paradiso: racconto - 04

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esagerarlo. Sentimi, caro; perchè tu ami la signorina Margherita....
— Non ho confessato questo; — interruppe Filippo.
— Ma va da sè. Come puoi non amarla? Come si può non amarla?
— Sentimento generale, allora; — rispose Filippo. — È dunque molto
generico, e impegna poco.
— No, caro; — riprese Raimondo. — Tutti debbono amarla, vedendola; ma
uno è destinato ad amarla per tutti, avendo occasioni di avvicinarla, e
ragioni di piacerle. Sei tu, assassino, del “non c’è male„, sei tu che
la fortuna ha privilegiato; sei tu che hai ricevuto il colpo mortale. Tu
dunque l’ami, è valuta intesa. Ma se te lo leggo in faccia! Sei tanto
turbato a sentirne parlare! —
Filippo chinò la fronte, confuso. Troppo bene l’amico gli aveva letto
negli occhi, meglio che non s’immaginasse egli stesso.
— Ma ti ho già detto che non voglio essere sospettato; — rispose Filippo
dopo un istante di pausa. — Quella donna, se fosse vero quello che tu
pensi di me, sarebbe sempre troppo ricca.
— Non c’è altro? — disse Raimondo.
— Mi pare che basti.
— E tu non potrai chiedere la sua mano, capisco. Ma se un altro la
chiedesse per te? Io, per esempio. —
A quella uscita improvvisa, l’Aldini balzò sulla scranna.
— Spero bene che non lo farai; — diss’egli concitato.
Ma quell’altro non si scompose punto; anzi, guardando placidamente in
viso l’amico, ripigliò:
— E se lo avessi già fatto?
— Tu? — gridò Filippo, impallidendo.
— Io, sì; che ci trovi di strano? Più strano fu il tuo “non c’è male„,
mentre io avevo avuto il piacere di vederti così animato nella tua
conversazione con quella cara fanciulla. —
Infastidito da quel ricordo, e da altri ancora, Filippo Aldini crollava
il capo e batteva le labbra.
— Rinfacciami sempre una frase disgraziata! — diss’egli. — Dovevo
rispondere che è un sole? che è un angelo?
— Eh, perchè no? L’avevo ben detto io, che pure amo mia moglie, e non
conosco altra donna da metterle in paragone; potevi dirlo tu, che sei
libero. —
Filippo rimase un tratto in silenzio, cercando argomenti che non
volevano lasciarsi trovare. Infine, di guerra stracco, girò di fianco il
punto difficile, ritornando alla sua prima linea di difesa.
— Sei curioso, col tuo modo di ragionare! — riprese. — Orbene, se pure
avessi pensate tutte quelle belle cose, dovevo io dirle, lasciando
scoprire Dio sa che orgogliose intenzioni? Dovevo in quella vece pensare
che sarebbe stato un errore avanzarmi nella regione dei sogni. E mi son
castigato, se mai, di un sogno pazzo, come quello che tu vorresti fare
per me. Ma ti pare? Io, non sospettato finora, non sospettabile di
calcoli così vili?... Dunque ti prego, Raimondo, non mi parlar più del
tuo sogno, e tralascia i buoni uffici che vorresti fare per me.
— Ti ho detto che ho già aperto il fuoco.
— Con lei?
— Con lei, no, con sua madre. Ma, per quello ch’io ne so, dev’essere
tutt’uno.
— Tutt’uno! Che cosa ne sai?
— Questo, che la signora Eleonora ti vede di buon occhio, e ti stima
moltissimo; intendi? moltissimo; è stata la sua parola. E aggiungo che
la signorina Margherita ti ha lodato come un cavaliere compito, il primo
ch’ella abbia ancora conosciuto, per ingegno, per cultura, per serietà,
per buon gusto; e ti fo grazia del resto. —
Filippo si era lasciato andare, come sfinito, contro la spalliera della
scranna; aveva arrovesciato il capo, e ad occhi chiusi meditava. Che
cosa? Forse le parole di Margherita; forse la gravità del suo caso. Ah,
quel prepotente Raimondo! faceva come voleva, senza chieder permesso,
senza avvisare, e metteva lui negl’impicci.
Intanto, il prepotente Raimondo proseguiva la sua narrazione.
— Tornando alla signora Eleonora, le ho parlato a cuore aperto,
esponendole la mia idea. S’intende che non potevo darla intieramente per
mia, e che dovevo lasciarla credere un po’ tua, anzi molto tua. Se ho
fatto male, se ti ho compromesso, accoppami, o perdonami; ti lascio la
scelta. Ma tu lasciami aggiungere che la madre è tutta per te; l’hai
conquistata, pare. La buona signora, che tutti credono così orgogliosa,
così piena di sè, è nel fatto una donna di gran buon senso, semplice di
gusti e dotata di un ottimo cuore; non mi ha fatto altra osservazione
che questa: “bisognerà parlarne a mio marito; ogni cosa dipende da lui„.
— Ah, vedi? — gridò Filippo scuotendosi. — Ecco qui, dove incomincia il
difficile. —
Raimondo gli rispose a tutta prima con una spallata.
— Ma che difficile! — soggiunse poscia. — Che difficile mi vai tu
sciorinando? Conosco l’uomo; è ragionevole, un vero filosofo, e pensa
che la boria dei quattrini va lasciata agli sciocchi. Figùrati che al
suo paragone io sia un mostro di superbia. Egli dunque non farà
questione di denaro, te ne sto io garante. E poi, che si canzona? un
partito come te non si trova ad ogni cantonata. Non ne convieni? Hai
torto. Lascio stare la tua persona, per non offendere la tua modestia;
le tue doti morali, non le vuoi mettere in conto? E il tuo titolo, che
ha pure il suo prezzo? Non sei ricco; ma sei pieno d’onore. E poi, che
cos’è questa ricchezza? Da dove si comincia a calcolarla? Tu hai
finalmente dugentomila lire al sole.
— Dugentomila! — ripetè Filippo, tentennando la testa.
— Al quattro per cento, sicuro; — replicò Raimondo. — La tua piccola
tenuta non ne rende forse ottomila? E ancora, se Dio vuole, sarà
governata alla diavola, sfruttata in prima mano dal fattore, e in
seconda mano dall’agente. Ci campano tutti, e non migliorano il fondo.
Questo, frattanto, vigilato un po’ meglio, può rendere dieci, dodicimila
lire; ed allora tu ne possiedi trecentomila, sempre al quattro per
cento. Potrai dunque garantire la dote di tua moglie, se, puta caso, la
batterà dalle dugento alle trecentomila. Meglio ancora; quella dote, da
uomo serio, tu non la sciupi; puoi convertirla subito in terre,
allargando, raddoppiando il tuo fondo. E se ciò non basta, se la dote è
più vistosa ancora, non sono qua io per far fronte?
— Tu? — disse Filippo, arrossendo fino alla radice dei capelli.
— Io, sì, io che son ricco, e per una volta tanto me ne voglio vantare;
io posso aggiungere che tu hai, depositate al mio banco, centomila lire
in cartelle di rendita.
— Una bugia! — esclamò Filippo, torcendo le labbra.
— No, caro; dipende da me che sia una verità. Tu non conosci l’amico
tuo, lasciatelo dire; non sai fin dove, al bisogno, egli porti
l’amicizia, e come la intenda. Ti parlo solenne, vedi? Ma tu mi trascini
pei capelli. Sono senza figli; Dio non mi ha concessa questa
felicità.... se pure si ha da crederla tale; — soggiunse Raimondo,
cercando consolazione dove poteva; — e poco sarebbe per me il perdere
quella somma.
— Non permetterò che tu ne corra neanche il pericolo.
— Ma non la perderò; — riprese Raimondo, — poichè rimarrà nella mia
cassa forte. Se tu m’annoi, bada, dirò che il tuo deposito è di
dugentomila. Infine, senti, non mi far pena coi tuoi rifiuti, più
orgogliosi che tu non pensi, più orgogliosi del sogno che non osavi
fare, e di cui ti volevi castigare. Voglio il tuo bene; voglio vincere;
Margherita è un angelo, e deve esser tua. Sono impegnato, dopo tutto;
che figura farei, se dovessi rimangiarmi quello che ho detto? Sii
ragionevole, amico; obbedisci a chi ti ama, e non lo far passare per un
burattino. —
Filippo Aldini era stato lungamente zitto, come oppresso da quella
valanga di ragioni, di esortazioni, di prepotenze. Ma bisognava
rispondere qualche cosa; Raimondo era in attesa, smanioso, incalzante,
con la tensione dello sguardo e col fremito delle labbra.
— E allora.... — chiese Filippo, esitando, — dirai alla tua signora....
— Che c’entra lei? — gridò Raimondo, inarcando le ciglia dallo stupore.
— C’entra benissimo; — rispose Filippo, questa volta con accento più
risoluto, staccando le frasi e battendo le sillabe. — La moglie è ricca
di ciò che possiede il marito. E tu dovrai dirle che mi vuoi far ricco
d’una parte, sia pur piccola, del tuo, e che io ho accettata l’offerta.
Che cosa penserà ella? Che io sono un matricolato furfante, entrato
destramente nelle tue grazie, in veste di amico sincero, coll’idea di
accostarmi alla cassa. Infine tutto ciò che dovrei fare per compiacerti,
mi diminuisce nella mia propria stima. Come oserò andare dalle signore
Cantelli, dopo quello che hai detto alla signora Eleonora? Come oserò
mettere ancora il piede in casa tua, dopo quello che dirai alla signora
Zuliani?
— Oh Dio! — esclamò Raimondo, che incominciava a sentirsi scappar la
pazienza. — La signora Eleonora sa da me che saresti andato da lei, e mi
ha mostrato di gradire assai la tua visita. Non puoi farne di meno,
senza passare per uno screanzato. Quanto allo scrupolo che hai per la
mia cassa, siccome è una probabilità molto lontana che io debba fare al
banchiere Cantelli il discorso che ti avevo accennato, è chiaro che io
non ne debba parlare a nessuno, e molto meno a mia moglie, colla quale,
del resto, io non ho mai discorso d’affari. Per tua norma, la casa e la
cassa le ho sempre tenute separate; è l’unico modo perchè non si diano
noia a vicenda. Sei contento? Non ancora, mi sembra. Ebbene, ritiro, se
vuoi, mi rimangio l’idea di esserti utile al bisogno col mio denaro, che
finalmente non avrei dovuto neanche metter fuori. Ti va, benedetto
ragazzo? Ecco adunque appianata la gran difficoltà. L’essenziale è che
tu vada dalle signore Cantelli. Faccio, se tu non vai, una figura
barbina; e non la merito, com’è vero Dio, non la merito. Ma vediamo di
appianare anche questa; — soggiunse Raimondo, cavando l’orologio per
guardar l’ora; — sono le due e mezzo in punto; non hai da vedere i tuoi
commilitoni prima delle quattro. Di qui in un volo siamo a San Marco; in
un altro al Danieli, e facciamo questa visita insieme.
Filippo Aldini chinò la fronte rassegnato. Era preso, come in una morsa,
dal suo prepotente amico. E lo seguì in istrada; ma non fu necessario di
fare i due voli che Raimondo annunziava, perchè, riusciti dalla via del
Telegrafo all’imbocco delle Procuratie, incontrarono le signore Cantelli
davanti alle vetrine del Munster. La signorina Margherita andava per
l’appunto dal libraio, in cerca di un’opera recente che desiderava di
leggere. Qui, dunque, saluti e fermata; comperato il libro, e mandatolo
all’albergo, le signore avrebbero fatto volentieri quattro passi per le
viottole. Accompagnate, non temevano più di smarrirsi.
— Vi lascio il mio amico; — disse Raimondo. — Io mi ricordo di avere
ancora una lettera da scrivere, per impostarla prima di sera. —
E se ne andò, felice, rifacendo la strada verso il suo banco. Il merlo
finalmente era in gabbia.
— Ce n’è voluto, — pensava Raimondo, — ce n’è voluto, con quel cercatore
di gretole. Ma vedete un po’ come sono diversi gli uomini! C’è chi
arraffa di qua e di là, e chi tiene costantemente le mani in tasca. Uno
v’insidia giorno e notte la borsa; un altro, a cui la offrite, ve la
sbatte signorilmente sul muso. Vogliamo credere che ci siano due razze
umane, in natura? Ho letto non so più dove che ci furono uomini prima di
Adamo sulla faccia della terra, e che ciò apparisce anche dal racconto
della Bibbia. Dunque diciamo Adamitici gli uni, discesi dalla semenza di
Adamo, e Preadamitici gli altri che non si sa donde siano mai capitati.
Basta, andiamo a scrivere questa lettera, la quale mi par più che mai
necessaria. Se, Dio guardi, la signora Eleonora non è forte di
scrittura, mi lascia qualche cosa nella penna, non dicendo al signor
Anselmo degnissimo tutto quello che occorre. Qui bisogna battere il
ferro mentre è caldo. E tu passeggia, passeggia colle signore, mio
preadamitico eroe. —
Filippo Aldini passeggiò infatti, e più lungamente che non prevedesse
Raimondo. La signorina Margherita voleva osservar tante cose, ed era
così lieta di assistere a tante gustose scenette di vita popolana! In
verità, non si era mai divertita tanto come in quelle due ore. Peccato
che fossero calate le ombre della sera, nell’inverno così
fastidiosamente sollecite, per interrompere quella passeggiata piacevole
e per rimandar lei con la mamma all’albergo. Ad ogni modo, erano già le
cinque suonate quando Filippo si congedò all’ingresso del Danieli,
ringraziato con effusione della sua gentil compagnia.
E i due commilitoni che lo aspettavano alle quattro? Filippo non ci
pensò nè punto nè poco.
Esistevano poi davvero, quei due?


V.

Natura ed arte.

Filippo Aldini era rimasto finalmente libero, reso alla solitudine de’
suoi pensieri. Solitudine, non quiete; tanto la giornata era stata piena
di commozioni per lui. Nè l’agitazione del suo spirito si chetò così
presto, che non passasse ancora gran parte della notte insonne. Quante
novità! e come, senza volerlo, senza prevederlo, si ritrovava egli
lontano in poche ore dai forti propositi in cui gli era parso di non
dover vacillare nè allora nè mai! Oh, infine che cosa poteva egli
rimproverarsi? Raimondo aveva proposto e disposto, premeditato,
combinato e conchiuso. Anche conchiuso? Almeno pareva; e dal modo come
il suo prepotente amico aveva condotto fino a quel punto il negozio, era
da credere che tutto oramai dovesse andargli a seconda. Che cosa
valevano contro quell’audacia fortunata le ragioni di Filippo? Ed erano
ragioni? Scrupoli, sì; e parecchi, e d’indole diversa. Ma non appariva
in tutto ciò la mano del destino? I fati, fu detto dagli antichi,
conducono i volenti, ma ancora e più trascinano i restii; che serve
dunque il ribellarsi?
Nel fatto, egli era innamorato di Margherita più che non avesse lasciato
dire da Raimondo, più che non avesse fin allora voluto confessare a sè
stesso. Aveva ricevuto il colpo fatale fin dalla prima volta che la
divina fanciulla gli era passata davanti agli occhi, con la mamma e con
Raimondo Zuliani, sotto le Procuratie Vecchie, mentre egli stava per
uscire dal Florian. L’aveva veduta fermarsi in piazza San Marco, alla
solita scena dei colombi, che è il trastullo di tutte le signorine e di
tutte le spose novelle appena giunte a Venezia. Alta e snella, con
quella massa di capelli nerissimi che facevano spiccar maggiormente il
candore perlaceo del viso; nettamente disegnata la flessuosa persona in
mezzo a quello sciame di volatori, che le roteavano sul capo, o intorno
alle spalle, quali avventandosi alle sue candide mani colme di grano,
quali fermando il volo sulle sue braccia, per aspettare la volta loro;
pareva una bella ninfa antica per “nuovo miracolo e gentile„ rivivente
ai dì nostri, forse indegni di tanta fortuna.
E poi, due giorni appresso, quando meno se l’aspettava, le era stato
presentato. L’aveva veduta da vicino; era stato costretto ad osservarla.
Che grazia ingenua, su quel labbro! che nobiltà serena, in quell’occhio
luminoso, sotto le ciglia lunghe più nero e più lampeggiante! in quella
linea delicata del profilo purissimo, e in quella compostezza leggiadra
della persona! Non più una ninfa antica, ma una dea veramente. Diana, o
Minerva? C’era molto dell’una e dell’altra in quella stupenda figura,
nel portamento, negli atti, nella espressione del volto.
Quei benedetti artisti greci, che avevano foggiate tante divinità
femminili, deliberatamente chiusi nella ricerca di un’immagine spiccata,
conforme al tipo che dovevano raffigurare, non avevano mai pensato a
fondere in uno i due tipi, della bellezza rigidamente casta, sempre un
po’ acerba, quasi selvaggia, e della bellezza intelligente, più serena e
più dolce. Sicuramente, quegli artefici insigni avevano cercate altre
espressioni, plasmando altri simulacri di dee; ma tutte semplici, d’un
carattere unico: Cerere, ad esempio, faccia contenta di buona massaia,
colle pupille a fior di testa e colle palpebre abbassate, come a
raccoglier lo sguardo sulle cose della terra; Giunone, maestà
consapevole, cogli occhi bovini, che non andavano più là dalle bianche
braccia, ond’ella era sempre stata orgogliosa. Quanto a Venere, celeste
o terrestre che fosse, uscita appena dalla spuma del mare, o dai lavacri
d’un bagno tiepido, era sempre la imagine di una donna, che doveva
parlare ai sensi il linguaggio della bellezza; linguaggio possente, a
cui non occorrono profondità di pensiero.
Quante sottigliezze! Ma gli passavano per la mente; e bisognava dirle, e
bisognerà perdonargliele. L’Italiano, finalmente, imbevuto di classico
latte, ha queste cose nel sangue. Margherita, agli occhi di Filippo
Aldini, era bellezza perfetta di forme, avvivata da un lume ideale che
prometteva tesori d’intelligenza elettissima. E l’amava, l’amava, con
tutte le potenze dell’anima. L’amore è così; viene quando vuole, e quasi
sempre contro il nostro volere. Avete formate le vostre abitudini; il
vostro genere di vita, vi paia buono o mediocre, vi si adatta al
raziocinio, come alla persona un abito vecchio: stimate di esser calmo,
tranquillo, immutabile nei gusti e nelle consuetudini, perchè da un
pezzo non avete avvertita la necessità di nessun cambiamento. Ed ecco,
passa l’ignota sul marciapiede, arresta con uno sguardo distratto e
fuggevole il vostro occhio abbagliato, v’inonda della sua luce, vi
penetra del suo fluido magnetico, vi rende di punto in bianco tutt’altro
da quello di prima. Buon per voi, se sono in quella imagine vittoriosa
uniti i due tipi celesti, Diana e Minerva, casta bellezza e intelletto
sovrano. Quantunque, armate come sono ambedue, non c’è da star troppo
allegri; fanno due ferite ad un tempo.
Nondimeno, se era stato colpito, Filippo Aldini si era anche e presto
riavuto del colpo. Gran forza d’animo, la sua; per quanto, a guardarci
bene addentro, sentisse di non averne gran merito. Un vecchio proverbio
veneziano gli significava per l’appunto il vero della sua condizione:
“per forza, San Marco!„. E aveva creduto di dire ogni cosa, di
difendersi bene, ripetendo a sè stesso: è troppo ricca. Ma anche questo
non senza impeti di ribellione in fondo al cuore. O Dio, perchè una
donna è troppo ricca, bisognerà dunque odiarla? Ma c’erano altre
ragioni, purtroppo; tanti sono i fili che ci muovono, o che non ci
lasciano muovere, ingarbugliandosi maledettamente tra loro, e
togliendoci ogni libertà di operare. Dunque, nessun passo oramai, che
non fosse per dare indietro. E per fortificarsi in quel duro proposito
aveva fatto quest’altro ragionamento, che era una consolazione, in
verità, ma una consolazione di dannato. Ebbene, diceva egli, l’ho
veduta, l’ho ammirata, l’ho tutta raccolta in me, questa bellezza
trionfante; le dedicherò un culto severo nel profondo dell’anima. E
vecchio, gelato il sangue nelle vene, ma non offuscata nel cervello la
memoria degli anni vissuti, potrò dire a me stesso con legittimo
orgoglio: veramente son nato in un felice periodo della vita del mondo,
che m’ha fatto contemporaneo d’una bellezza così nobile e cara.
Niente più visite, adunque; ma dentro di sè gli pareva di essere
diventato un altr’uomo. Avrebbe chiuso il suo cuore, lo avrebbe
sigillato come una fiala di essenze odorose. Più nulla avrebbe concesso
al mondo circostante, se non la parte più vana di sè; stoicamente chiuso
ai profani avrebbe serbato il sacrario dell’anima sua dolorosa. La
tristezza, infine, non nuoce; pari a certe acri sostanze, profuma e
custodisce tutto ciò che involge e compenetra. Filippo ne aveva già
conosciuto qualcheduno, di quegli uomini misteriosi, ai quali è custodia
e nutrimento un celato dolore, e che, calmi nell’aspetto, cortesi senza
condiscendenze alle altrui leggerezze, interamente padroni di sè
medesimi, passano e lasciano sul loro cammino un tenue solco di luce, un
bagliore incerto e discreto, che li rivela e li nasconde ad un tempo.
Disegno triste e caro, per tanti giorni vagheggiato nell’anima, com’eri
ad un tratto svanito? Raimondo voleva; Raimondo aveva mutato ogni cosa,
disfatto il faticoso edifizio di Filippo in un soffio. Era il destino, e
Filippo si lasciava trascinare dal destino. Aveva egli poi modo di
operare diversamente? I due terzi della notte erano stati passati da lui
a meditare, a combattere, a fremere di cento scrupoli, di cento rimorsi.
Nessuno scampo, nessuna difesa; era il destino, che voleva così. Filippo
se lo ripetè cento volte, dopo aver cento volte rivoltato per ogni verso
il suo caso di coscienza. Non ci voleva oramai pensar più. E qui, o per
istanchezza che sentisse, o per senno che avesse fatto, si addormentò
finalmente.
Si addormentò, dunque, ma il suo sonno non potè andare tant’oltre, che
non fosse visitato da un sogno. Aveva meritato di farlo piacevole, dopo
tanti contrasti; e veramente il suo sogno fu tale, ch’egli non avrebbe
potuto desiderarlo migliore. Filippo era solo, tutto solo, in una barca
senza vela e senza remo; e andava tuttavia, scivolava sull’onde verso il
mare alto, a lume di sole mattutino, entro una massa leggera,
trasparente, formata di rosei vapori, lasciandosi indietro un fitto velo
di tenebre. Non si voltava a guardarle, quelle tenebre dense; le sentiva
alle spalle, gravide di tempesta, sibilanti, piene di mostri, di gòrgoni
e di chimere; e le cacciava col pensiero da sè, a grado a grado
allontanandosi, sempre più immergendosi in quella nebbia rosata e
luminosa, che attenuandosi via via gli faceva balenare allo sguardo i
vaghi contorni d’una riva lontana. La barca scivolava, volava sulle
spume, già era fuori d’ogni pericolo. Ma c’era egli stato, il pericolo?
Egli non ne aveva, a dir vero, un’idea molto chiara.
E la riva lontana si avvicinava, pareva correre incontro a lui, quanto
più volava la barca prodigiosa sulle acque tranquille, senza aiuto di
vela, senza impulso di remo. Già una forma gentile si disegnava tra quei
tenui vapori rosati; si veniva condensando ad occhi veggenti in persona
conosciuta; alzava il braccio, stendeva la mano per dargli il benvenuto,
mentre una vocina soave, uscita dal suo labbro vermiglio, gli echeggiava
per tutti i recessi dell’anima: “Ah, finalmente, ritorna il mio
cavaliere?„
Sì, ritornava a lei, così volendo il destino. E la barca, frattanto,
appena toccato il lido incantato, spariva; ed egli era là, sulla
spiaggia, preso per mano dalla gentile apparizione. Allora, per miracolo
nuovo, il lido spariva a sua volta; ed egli e lei, tenendosi sempre per
mano, muovevano leggeri leggeri sul verde smalto d’un prato, di tanto in
tanto levandosi a piccoli voli, posando il piede a terra un istante per
rivolare ancora, come due uccellini che alternassero capricciosamente i
passi coi salti, e i salti colle volate, spensierati ed allegri,
contenti di sè e dell’ora propizia, senz’altro desiderio che di sentirsi
vivere. E si addentravano, così muovendo i passi e i voli, in una valle
ampia, per lenti giri sinuosa tra due ordini di colline verdeggianti,
lungo le rive d’un fiume, ora ristretto e gorgogliante tra scogli
muscosi e macchie di ontàni e di càrpini, ora placido e disteso sui
greti come una lunga fascia d’argento. Dal colmo dei poggi, frattanto,
occhieggiavano al sole ceppi di case e castella; dalle alte ripe sassose
ruzzolavano branchi di capre a dissetarsi nei tònfani; sulle vette dei
pioppi inneggiavano i rosignuoli ai non contesi amori, alle gioie
imminenti del nido.
Ma egli aveva già veduta quella valle; la conosceva bene da un pezzo.
Laggiù, sulla sua destra, quel monte solitario, sparso di casolari a
mezza costa, non era lo Sporno? Più in là, sulla sinistra, quell’altro
monte, erto e lungo, non era il Caio, giustamente superbo del suo nome
romano, vestito i fianchi di pini e di cerri, il dorso di faggi, o le
alte insenature di corbezzoli e di peri selvatici? Più oltre ancora e
più su, non erano quelle le creste dell’Appennino, dalla rupe
dell’Orsaro all’alpe di Succiso? E lì, poco lontano da lui, quelle folte
siepi di biancospino, ben ragguagliate dal falcetto, correnti in lunghe
file accanto alla strada, non segnavano forse i confini del suo lembo di
terra? E le indicava, tutto felice, alla sua dolce compagna. “E qui il
mio Lesignano; il vostro Montechiarugolo è laggiù da sinistra. Volete
che ci andiamo? Anch’io lo vedrò volentieri. Ma quanto cammino fin là, e
in terra non nostra, pur troppo! Bisogna che l’intervallo si colmi, non
vi pare? Bisogna che siano unite le nostre terre, come sono unite le
nostre mani....„ — “Sì, sì,„ gli rispondeva la cara voce; e una cara
mano tremava nella sua.
Bel sogno! bel sogno! Quanto era durato? Certo, a contenere le molte
cose vedute, tutto il tempo ch’egli aveva passato dormendo. Si era
destato, infatti, avendo ancora quella dolce visione negli occhi, e la
sua destra ancor tiepida dal tocco della mano di Margherita. La giornata
che doveva seguire, non sarebbe stata meno lieta per lui. Quella mattina
andò al Danieli verso le undici, ora combinata per l’appunto colle
signore Cantelli. Le trovò, che avevano finito di far colazione,
essendosi volentieri adattate ad anticiparla un poco, per conceder più
tempo alla gita che avevano disegnato di fare.
La signorina Margherita fu lesta a mettere il suo cappellino nero alla
spagnuola, dal nastro cremisi, sul ricco volume della chioma corvina, e
a gittarsi sulle spalle il corto mantello di velluto, nero anche quello
e con la fodera dell’istesso colore del nastro. Nero e rosso le andavano
d’incanto. La signora Eleonora fu più lenta ad aggiustare intorno alle
staffe dei suoi capegli grigi il cappellino chiuso, guernito di viole
mammole, e a tapparsi con molta cura nella sua pelliccia di martora.
Uscite col signor Filippo dall’albergo, passarono il ponte dei Sospiri,
svoltarono dal palazzo Ducale a San Marco, e di là, per l’arco
dell’Orologio, entrarono in Mercerìa, non già per rimanervi, a goder lo
spettacolo, sempre nuovo della turba affaccendata e chiacchierina. Quel
giorno andavano assai più lontano, e senza avere da dondolarsi in
Laguna. Che piacere! Margherita amava far diverso, se poteva, dalle
altre viaggiatrici: quelle in gondoletta per ogni piccola corsa; lei
volentieri a piedi per le corse più lunghe. Che peccato non aver sempre
al fianco una guida come il conte Aldini gentilissimo! Per quella volta,
a buon conto, non mancando la guida desiderata, non c’era da temere di
smarrirsi in quel labirinto di calli, di campi e di campielli, di
fondamenta, di ponticelli: senza darsi pensiero della via da tenere,
Margherita avrebbe osservata e studiata frattanto, di quartiere in
quartiere, quella calca di popolino così gaio, così originale nella sua
vivacità, e sentita bene quella sua parlata tutta vezzi e moinerie,
arguzie di pensiero e carezze di suoni.
Riusciti al ponte di Rialto, ed ivi passato il Canal Grande, scesero a
San Giacomo, donde piegarono a sinistra per Campo San Polo. Laggiù era
un altro viluppo di strade, con gran delizia della signorina Margherita,
che rideva spesso e volentieri, quel giorno, dovendo fare, al cenno
della sua guida severa, tanti giri e rigiri impreveduti, andare a
sghembi come le saette, ficcarsi per cento viottole, varcare cento
ponticelli minuscoli, e pensare frattanto, pensare con un vago terrore
quante volte si sarebbero smarrite, lei e la mamma, se avessero dovuto
fare quel curioso tragitto da sole.
— Ci siamo; — disse Filippo, come furono nella contrada di San Giovanni
Decollato. — Ella sarà un po’ stanca, signora?
— Ma no, ma no; — rispose la signora Eleonora. — Sento un po’ meno il
bisogno della pelliccia, ecco tutto.
— Voglia sopportarla due minuti ancora. L’aprirà quando saremo al Museo;
— soggiunse Filippo.
Andavano infatti a visitare il museo Correr; museo municipale, così
chiamato dal nome del suo fondatore, che alla città lo aveva
generosamente lasciato, ma via via cresciuto ed arricchito dalle
liberalità di altri nobili veneziani. C’era un po’ di tutto, là dentro:
tele, marmi, bronzi, maioliche e porcellane, vetri di Murano anteriori
al Mille, musaici, smalti, nielli, gemme incise ed avorii intagliati,
monili d’oro e d’argento; a farla breve, tanto da tesserci per via
d’esempi la storia di tutte le arti e di tutte le industrie veneziane.
Margherita era nel suo elemento: curiosa indagatrice, pronta a ritenere
le cose nuove e a paragonarle con altre già viste, aveva là dentro di
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