Il ponte del paradiso: racconto - 12

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guardinga ritornò nella camera di suo marito; rimise la lettera al suo
posto, mentre Raimondo seguitava a dormire, e si ridusse nella sua
camera. Soltanto allora poteva dar libero corso allo sdegno ond’era
tutta invasata.
— Ah no! non sarà come tu la pensi, cacciatore di doti! Saltasse il
mondo, questa non la spunterai, te lo prometto. Ed io, quando prometto,
mantengo. —
Così borbottava tra i denti, mentre la sopraccoglieva un gran freddo,
obbligandola a rimettersi in letto. Indossava ancora la veste da camera,
e non ci aveva neanche badato. Tra poco, al gran freddo sarebbe
succeduto un gran caldo; tanto già incominciava la febbre a darle
travaglio. E rileggeva con gli occhi della mente il biglietto fatale.
“Vedi pure il signor Anselmo„. Ma dove, se il signor Anselmo era a
Milano? Che, forse era egli per giungere a Venezia? Ma sì, l’ordine dato
da quell’altro di esser destato alle sette, non indicava che volesse
andargli incontro alla stazione? Si faceva tutto a gran furia; e sul
tamburo la scritta nuziale! Ah, no, mille volte no! Ella non voleva; non
avrebbe mai consentito.
Filippo adunque perduto irremissibilmente per lei! E di lei si era fatto
giuoco, il vigliacco! Ogni tentativo, pur troppo, le era andato a male.
Aveva parlato alle signore Cantelli, seminando accortamente sospetti; e
Raimondo si era affrettato a dissiparli. Curiose quelle donne, che si
lasciavano così facilmente persuadere, tanta era la fretta di acciuffare
un marito! Aveva parlato a Filippo, ottenendo da lui la promessa di
resistere; e Raimondo era venuto a capo di persuadere anche quello,
facendogli rimangiare la sua sacra parola. Con tante fatiche, non era
dunque riuscita a nulla? E non le si offriva nient’altro, per muovere
alla riscossa, per mettere a segno il cacciatore di doti? Ah, se avesse
potuto discorrer lei, col banchiere Anselmo! Quello non doveva avere la
stupida fretta delle sue donne, e neanche gli stolidi capricci del suo
collega di Venezia; quattro ragioni spiattellate lì, senza tanti rigiri,
lo avrebbero convinto della necessità di rompere quei negoziati
vergognosi. Che cosa gli avrebbe detto? Non lo sapeva ancora; si sarebbe
buttata là a capo fitto, anche a rischio di confessargli ogni cosa di
sè. Lo sdegno non ragiona; può passar sopra alla vergogna. L’essenziale,
per lei, era di vincere.
Ma come poteva sperare di veder subito il banchiere Cantelli, e senza
importuni alle costole? Ci pensava, e mulinava disegni, l’uno più
sottile e più pazzo dell’altro. Lo sdegno intanto cresceva, cresceva
come un fiume in piena, che raggiunge il colmo degli argini, li sormonta
e dilaga. Il sangue le dava tuffi frequenti; le tempia le ardevano; le
si offuscavano gli occhi. Filippo sposo! Filippo che si rideva di lei e
delle sue furie impotenti! Ah, il signorino, il bel conte, così mutato
da quello di un giorno! Perchè egli, con tutti i suoi rimorsi, con tutte
le sue prudenti esortazioni, non poteva negare a sè stesso di averla
ricambiata di amore. Gli avrebbero dato, se mai, una solenne mentita le
sue medesime lettere, piene di soavissime cose. Bruciando per tutte le
membra, non potendo più stare sotto le coltri, si alzò di scatto, mosse
alla volta di uno stipo che stava appoggiato contro la parete, lo
aperse, e toccato un segreto nel fondo, ne fece uscir fuori un involtino
di carta. Erano lì, strette da una fettuccia color di rosa, le lettere
di Filippo Aldini.
Non molte, per altro; l’amico era assai presto diventato sospettoso e
prudente: tanto prudente, che si era fatto promettere da lei di bruciare
quegli otto o nove messaggi d’amore. Che bisogno di conservarli, se
durava nei cuori il sentimento gentile ond’erano stati ispirati? Così
egli diceva. Ma qual donna innamorata, o che tale si creda, accetterà
mai il consiglio di distruggere i dolci ricordi del tempo felice, i cari
trofei della sua stessa vittoria? Aveva promesso di bruciare, ed aveva
conservato; rileggeva allora, e si esaltava sempre più. Scoccarono le
cinque, ed ella non aveva anche finito di sfogliar quelle pagine, di
notarne i pensieri, di meditarne le frasi, di richiamarsi alla mente le
sensazioni che s’erano accompagnate alla prima lettura. E se quell’altro
si fosse destato? Se udendo il fruscìo delle carte, od altro lieve
rumore nella camera di Livia, e imaginando ch’ella non dormisse più,
fosse comparso là, dall’uscio dell’abbigliatolo, e l’avesse colta in
sull’atto dell’amorosa lettura? Ebbene, comparisse pure, lo spettro
della vendetta. Oramai, ella non reggeva più alla violenza del suo
dolore; ogni altro male sarebbe stato un sollievo. Ma egli dormiva
ancora, dormiva sempre il sonno del giusto; e Livia ebbe tempo a
rileggere, a meditare, a richiamar sensazioni antiche, poi a rifar
l’involtino, a rimetterlo nel suo cassetto d’acero, e a richiuder lo
stipo.
Il freddo la riprendeva, ed ella ritornò a rannicchiarsi nel letto,
formando sempre nuovi disegni, non trovando mai nulla che valesse,
rabbrividendo, fremendo, gemendo, e nella sua disperazione chiedendo a
Dio che la facesse morire. Il mondo le pareva un buio deserto, oramai,
se le mancava Filippo, se Filippo doveva appartenere ad un’altra. E
vedeva la puppattola sciocca, bianco rosata sotto le ciocche luccicanti
dei suoi capelli neri; la vedeva lieta, trionfante, venirle incontro con
un sorriso che tradiva lo scherno, per ringraziarla dell’esser venuta ad
assistere alla cerimonia nuziale. E a quella, e ad altre feste doveva
esser presente la moglie di Raimondo Zuliani, autore glorioso e
dissennato della felicità del suo caro Filippo. Ah no, per la collera di
Dio, che punisce i traditori, quella felicità non sarebbe giunta a
maturanza; no, no, mille volte no; sarebbe morta, piuttosto, ma della
collera divina sarebbe stata lei lo strumento.
Intanto albeggiava; il cielo si tingeva di un tenue chiaror cenerognolo,
sui tetti dei palazzi nereggianti in grandi masse dall’altra riva del
Canal Grande. Ed ella ancora non aveva chiuso occhio; e quell’altro
seguitava a dormire, più saporitamente che mai. Attraverso gli usci
dell’abbigliatolo, Livia ne udiva il respiro largo, profondo, monotono
nel suo ritmo uniforme.
— E tu dormi, sciocco! — mormorava ella, stizzita. — Così tu hai sempre
dormito. —
Infatti, che cieca fiducia, in quell’uomo! Quante volte non si era ella
trovata sul punto di essere scoperta! Ogni altro si sarebbe insospettito
di meno; egli no. Gran fede! gran fede! Si fonda una religione, colla
fede, non si governa una donna. Ed era stato lui, a tirare in casa il
bel conte; lui a magnificarne ogni atto, ogni parola, ogni gesto; tanto
che, sul principio, ella ne era seccata parecchio, avendo perfino
accolto nell’anima il sospetto che il suo Raimondo, senza volerne aver
l’aria, fosse noiato di lei e chiamasse un aiuto a portar la sua croce.
Ma che cosa aveva di tanto miracoloso, quel conte? Era bello, sì, senza
eccesso; elegante con misura; scarso di parole, che parevano tutte assai
meditate; spesso e volentieri taciturno; sempre in atteggiamento
pensoso. Forse per questo lo dicevano un uomo fatale? La uggivano
maledettamente, gli uomini fatali. Ma intanto, volere o no, poichè egli
era entrato nelle grazie di Raimondo, bisognava studiarlo, ed anche
poteva essere utile studiarlo per indovinare con qual segreta malìa
avesse egli incantato parecchie bellezze, delle quali in ogni ritrovo
più o meno aristocratico si bisbigliavano i nomi. Ahimè, studiare è
principio di amare; e quando la signora Livia ebbe molto studiato, si
ritrovò pazzamente innamorata del conte Aldini. Un amor pazzo non è
sempre, anzi non è quasi mai un amor vero; non è certamente un amore
profondo; nasce dal cervello e non dal cuore; l’imaginazione lo ha
concepito, il sentimento la ha tenuto a battesimo, secondo l’usanza di
tanti padrini, senza calcolar troppo i suoi obblighi. Così travolta
dall’impeto della passione, era stata lei la prima cagione del male onde
ora aveva a dolersi. Il suo amor proprio non le permetteva di
confessarlo; alla peggio, la colpa di tutto andava ascritta a Raimondo.
E certo, quel marito non era stato prudente, nè savio: felice tra due
diversi affetti dei quali sentiva bisogno il suo gran cuore, non aveva
veduto nulla, sospettato di nulla; beatissimo uomo, aveva dormito tra
due guanciali, proprio come in quel momento faceva.
Ma per allora, a buon conto, l’amico doveva risvegliarsi. “Paron Nane„
aveva bussato due volte all’uscio della sua camera, discretamente la
prima, più forte la seconda; finalmente, a rompergli l’alto sonno nella
testa, era entrato, portando il vassoio del caffè, secondo l’ordine
ricevuto.
Livia sentiva dalla sua camera la voce del vecchio servitore che
riscuoteva Raimondo, e tosto quella di lui, che destato in soprassalto
chiedeva:
— È già l’ora?
— Sono le sette, signor padrone; — rispondeva quell’altro. — Non mi ha
ordinato di svegliarla ad ogni costo?
— Sì, sta bene, sta bene; versate il caffè, paron Nane, — replicava
Raimondo. — Ma in verità, dormivo così di gusto! —
Le sette scoccavano infatti all’orologio dell’anticamera. Le sette; e
Livia aveva passata tutta la notte insonne! E il sangue le ribolliva
nelle arterie, pulsando forte, martellando alle tempie.
Già Raimondo era sceso dal letto, ed ella lo sentiva andare e venire
nella fretta del vestirsi, poi richiamare il servitore e ordinargli che
la gondola fosse pronta per le otto alla scalinata del palazzo. Un’ora,
dunque, un’ora appena doveva passare, ed egli sarebbe uscito, sarebbe
corso dove lo chiamava il suo matto desiderio di far la gente felice.
Ella, intanto, era fuori di sè. Tremassero i felici, ai quali Raimondo
dedicava le sue cure amorevoli: ella sentiva una voglia furibonda di
balzare dal letto, di fare un chiasso, di romperla con ogni riguardo,
come con ogni paura. Non ne poteva più, non ne poteva più; o sfogarsi, o
morir soffocata.
Raimondo era entrato nell’abbigliatoio; Raimondo veniva ad aprir l’uscio
della camera di lei; Raimondo appariva sulla soglia.
— Livia, dormi? — chiedeva egli a bassa voce.
— Che! — rispose lei, coll’accento sdegnoso che Raimondo conosceva così
bene, e a cui così bene, se non volentieri, si adattava da un pezzo. —
Ma si può egli sapere dove corri a quest’ora?
— Non corro, come vedi; vengo a darti il buon giorno. Per uscire c’è
tempo ancora; ma volevo esser pronto: il sonnellino d’oro è così
traditore, che guai, a fidarcisi! Debbo trovarmi alla stazione intorno
alle nove. —
Ella ebbe al cuore un sussulto violento. Non si era dunque ingannata;
Raimondo muoveva ad incontrare il Cantelli. Ma volle averne l’intiero da
lui.
— Alla stazione! — ripetè, simulando un alto stupore. — E perchè?
— Sai, arriva questa mattina l’amico Anselmo; — rispose Raimondo.
Non le diceva nulla ch’ella già non sapesse: pure il sentirselo
confermare da lui, le diede una stretta dolorosa.
— Ah! — esclamò con accento sardonico. — Sempre per quel matrimonio!
— Ma sì; — diss’egli, stropicciandosi le mani. — Oramai siamo alle porte
coi sassi.
— Davvero? — ripigliò la bella sdegnosa. — E si contenterà di quattro
sassi sul parmigiano, il babbo dei sette milioni?
— Si è già contentato, mia cara; egli viene soltanto per conoscere il
suo futuro genero. Quanto agli interessi, — concluse Raimondo, — avevamo
già tutto combinato in questi giorni per lettera. —
Livia si morse le labbra a sangue.
— Che scioccheria! — gridò, esasperata. — Ma che ti salta in mente di
far dei felici a loro malgrado?
— A loro malgrado? — ripetè Raimondo. — Spero di no. Si amano tanto! —
Quelle parole, con tanta calma proferite, giunsero aspre al cuore di
Livia, acute, cocenti, come un ferro arroventato. Si era rizzata sulla
vita, puntando una mano sul letto e con voce stridente gridava:
— Si amano, hai detto? Egli ama dunque davvero quella donna? E non la
dote?
— Ma che dote! Ne abbiamo già discorso una volta, e speravo di averti
disingannata su questo proposito. L’ama, ti ripeto; me lo confessava
ancor ieri; l’ama di un amor disperato.
— E sia; — riprese ella, fremente. — Ma il tuo Aldini non può sposar
quella donna.
— Perchè? — domandò Raimondo. — Che vincoli lo potrebbero trattenere?
— Vincoli, o riguardi da buon cavaliere, dovrebbero esser tutt’uno; —
replicò ella concitata.
— Ah, vuoi parlare di antiche fiamme? — disse placidamente Raimondo. —
Storie del vecchio Testamento, mia cara.
— Eh, non tanto vecchio come tu credi. — Raimondo tentennò la testa, in
atto d’uomo che fosse ben sicuro del fatto suo.
— T’inganni, bella mia, t’inganni; — ribadì, più placido che mai. E per
un momento, sappi, m’ero ingannato ancor io. Vedendolo sempre così
incerto, così facile a volere e a disvolere, mi era passato per la mente
quel che tu dici. E gliene domandai, senza tanti preamboli. Figúrati che
a tutta prima voleva dirmi di sì. Ma lo faceva parlare in questo modo
l’eterna paura di sembrare un uomo interessato, quel che tu dici un
cacciatore di doti. Ma io l’ho confessato per bene, sai. Ha dovuto
convenire di esser libero, liberissimo di ogni specie d’impegno; così,
su tutti i punti ho avuto il piacere di vincerlo. —
Livia guardò suo marito negli occhi. Le parve orribile, con la sua
faccia fresca, con la sua asseveranza, con la sua serenità
imperturbabile, e più coi suoi canti di vittoria.
— Dunque, tu credi che non abbia vincoli di cuore?
— Lo credo fermamente.
— Sciocco! — gridò la fiera donna, divorata dalla febbre, divampante di
collera. — Apri quello stipo; c’è ancor la chiave nella toppa. —
A quelle strane parole Raimondo diede un balzo sulla poltrona ov’era
andato a sedersi, presso il letto di sua moglie, fin dal principio del
loro colloquio mattutino.
— Che è ciò? — diss’egli turbato. — Che cosa ho io da vedere là dentro?
— Il tuo disinganno, se credi l’Aldini un fior di cavaliere. Ah, egli si
è fatto ben pregare, per ingannare te, per ingannar la tua Margherita,
per ingannare la signora Eleonora, il banchiere, e tutti quanti. Non ama
la tua puppattola, te lo dico io; non l’ama d’amore. Apri!
— Ma, in nome di Dio, che cosa c’è là? — gridò Raimondo, irritato.
Attraverso i vapori della febbre, un lampo di ragione era passato per la
mente di Livia, rischiarandole il vuoto di un abisso pauroso. Ma ella
non era più in tempo per dare indietro; e del resto, a qual pro? Non era
meglio finirla una volta, e per sempre, anzichè dibattersi vanamente tra
gl’impeti della gelosia furibonda e dell’ira impossente?
— C’è un involtino di lettere; — rispose, con voce mezzo soffocata da un
tuffo di sangue alla gola; — lettere del tuo cavalleresco Aldini.... ad
una signora. —
Una nube si era stesa sugli occhi di Raimondo; ma egli trovò ancora
tanta forza nell’animo per discacciarla da sè.
— E tu, — diss’egli, tentando di dare aspetto di celia ad un modesto
rimprovero, — e tu hai fatto da segretaria?
— Apri e vedrai; — replicò Livia, impaziente.
Raimondo andò barcollante verso lo stipo; girò la chiave, e fece cadere
lo sportello a ribalta, mettendo in mostra parecchi scompartimenti di
cassettini e ripostigli in bella ordinanza disposti a parecchi ripiani,
nei quali il mògano si alternava coll’àcero.
— Dove? — chiese egli, non sapendo in qual punto metter la mano.
— A sinistra, il cassettino più basso; fallo scorrer fuori; troverai un
assicella di legno bianco. Ancora a sinistra, premi col dito; salterà. —
Egli aveva macchinalmente obbedito alle istruzioni di Livia.
L’assicella, premuta appena, scattò, discoprendo il ripostiglio segreto.
In quel ripostiglio giaceva un involtino di carta bianca, legato da una
fettuccia color di rosa.
Le afferrò, ne sciolse il legaccio, spiegò il foglio, e ne trasse fuori
un mazzettino di lettere, che portò nel vano della finestra, sotto la
luce scialba di quel mattino invernale. Non avevano soprascritta; certo
erano state cambiate le buste. Aperse la prima; gittò un’occhiata sui
primi versi dello scritto, e mise un grido; aperse la seconda, lesse
ancora poche parole, e il grido di doloroso stupore si mutò in urlo di
belva ferita. E ancora aveva sperato, poc’anzi; aveva sperato
d’imbattersi in segreti altrui, che poco o punto gli dovesse importar di
conoscere. Avrebbe guardato, per contentare sua moglie, strana donna in
verità, che di altrui debolezze non si sarebbe dovuta occupare; avrebbe
guardato, e non letto. In quella vece.... “Mia Livia„, diceva
incominciando la prima lettera che gli era venuta sott’occhio;
“Adorata„, diceva la seconda; ed anche quella s’intendeva dal contesto
che fosse per lei.
— Ah, per l’anima mia! — ruggì, più che non gridasse, il disgraziato
Zuliani.
E non voleva più veder altro; il demone della gelosia lo mordeva al
cuore; lo torturava l’orgoglio ferito; lo straziava l’amore umiliato. Ma
se non fosse vero niente? Se gli occhi suoi avessero traveduto? E
leggeva ancora, leggeva con rabbia crescente, cercando invano il segno
della innocenza di lei, come della sua propria follìa, e cacciandosi
sempre più profondo il ferro nella piaga. Apriva buste, e le gittava sul
tappeto, scorreva foglietti e cartoncini, che si venivano l’un dopo
l’altro spiegazzando tra le sue dita convulse; ruggiva, intanto, con la
schiuma alla bocca e gli occhi iniettati di sangue. Così trangugiato
sino alla feccia il suo calice di amarezze, stringendo i fogli maledetti
nel pugno, tremando tutto di vergogna e di collera, balbettando parole
sconnesse, si volse e andò minaccioso verso il letto.
Ella era là, poggiata sul gomito, con gli occhi sbarrati, e rideva,
rideva d’un riso spasmodico. Ma tosto gettò un grido, e diede in uno
scoppio di pianto.
— Uccidimi! uccidimi! — mormorò tra i singhiozzi. — Almeno non inganni
più te, nè altri, il miserabile! Uccidimi, Raimondo! Amerò la morte, se
mi viene da te. —
E già Raimondo si scagliava su lei, con gli occhi fiammanti e con le
mani levate.
— Tu.... disgraziata.... — proruppe, ma non potendo dir altro.
Le parole gli gorgogliavano nella strozza; ed anche i pensieri si
agitavano confusi nel suo cervello. Guardò la disgraziata, che ansante e
palpitante, riarsa dalla febbre, con atto disperato protendeva il collo
verso di lui, come implorando la stretta fatale; mise un urlo di fiera,
quasi volesse coll’urlo stimolarsi a vendetta; ma le sue mani levate a
minaccia non si aggravarono su lei: una forza arcana combatteva i suoi
feroci propositi, trascinandolo indietro.
— Tu.... disgraziata, — ripetè allora, in uno sforzo supremo, — vivi
colla tua onta, se puoi. Non macchierò le mie mani nel sangue di una
donna. —
Ella si era precipitata dal letto, avvinghiandosi alle ginocchia di lui.
— Una disgraziata, sì, hai detto bene; — gemeva. — Uccidimi! uccidimi! —
Rispose egli alla preghiera con un gesto sdegnoso; e poco potevano
trattenerlo le braccia di lei. Cacciati in tasca i fogli spiegazzati,
dei quali aveva già fatto nel colmo dell’ira un batuffolo, afferrò i
polsi di lei, premendo così forte, da strapparle un grido d’angoscia, e
da costringerla tosto, sebbene riluttante, ad aprire le palme.
— Va! — disse ancora, respingendola a tutta forza, per modo ch’ella andò
riversa sul pavimento.
Fu quella l’unica violenza usata da Raimondo Zuliani contro la donna che
lo aveva così crudelmente ingannato, e più crudelmente levato d’inganno.
Si rialzò la misera Livia sulle ginocchia, supplicando. Non diede
ascolto Raimondo, e fuggì.


XIV.

È il destino!

Livia era rimasta spossata, fisicamente e moralmente spossata, inerte il
corpo, inerte la mente. Soltanto dopo un tratto di tempo, cedendo alla
sensazione del freddo che la coglieva così discinta com’era,
macchinalmente si trascinò fino alla sponda del suo letto, tante volte
abbandonato nel corso di quella notte dolorosa; ma fu grande fatica per
lei, a ridursi sotto le coltri. Aveva bisogno di riposo; e l’ebbe la
persona, non l’anima, pur troppo; non l’anima, che, ravvivata da un
ritorno di calore alle membra, non poteva egualmente rinfrancarsi in una
serie di quieti pensieri e d’imagini liete.
Dio, che cosa aveva ella mai fatto! Cessate il parossismo della febbre,
sentiva allora, riconosceva finalmente tutto l’orrore dell’atto
dissennato, commesso in una crisi nervosa. Il suo male! “Mia madre è
morta pazza„, aveva ella detto il giorno innanzi a Filippo. E così fosse
morta pur lei, che aveva parlato in un vero accesso di follia, e viveva,
povera carne sofferente, disdegnata in mal punto da chi avrebbe dovuto
farle la carità di una stretta alla gola, che finisse in lei ogni
rimorso, ogni spasimo. Ed ora, quante rovine intorno a lei! e fatte
nella pazzia d’un istante da lei! Così quando un fiume si gonfia,
infuria e straripa; dove già si stendevano campi ubertosi, suscitando
speranze di popolo onestamente operoso, tutte in un subito le speranze
svaniscono; vanno perdute, col terreno sconvolto e colle piante
sradicate, le care promesse di un viver modesto ma sicuro; e i tetri
fantasmi degli anni squallidi, che seguiranno al disastro d’un giorno,
si levano minacciosi su sterili lande, spogliate d’ogni cosa, fuorchè di
rena e di sassi.
Finita in ugual modo la pace signorilmente lieta del palazzo Orseolo;
finite le gaie conversazioni, le fastose comparse ai balli, ai teatri,
alle pubbliche feste, dove la felicità dei trionfi ottenuti luccicava
nel volto, mentre l’invidia doveva esprimersi in sorrisi a fior di
labbro, o consumarsi in sè stessa e tacere. In quella vece, oramai, le
ciarle assassine del mondo elegante, i sogghigni maliziosi del salotto,
gli scherni del crocchio; lei, finalmente, su tutte le bocche, e il suo
caso diventato la favola della città.
Orribile idea! E quell’altro? Ah, solo pensando a quell’altro, ella
s’irrigidiva nel suo amor proprio offeso, nel suo orgoglio ferito, e
poteva sentirsi non del tutto pentita. Quella grande rovina involgeva
anche lui. Certo, dopo il suo triste risveglio, Raimondo Zuliani non
avrebbe più mosso un dito per la felicità di quell’uomo.
Frattanto la casa taceva, come se fosse incantata, o i servitori
temessero tutti di farsi vivi col più lieve rumore. Avevano sentito
qualche cosa del terribile colloquio? Forse sì, forse no: ad ogni modo,
non era quello il momento di darsene pensiero. La gente di servizio è
poi così avvezza a certe scenate padronali, in una casa o nell’altra! Ne
bisbiglia discretamente, e tacitamente conchiude: “i vizi dei signori!„
godendone anche un pochino in cuor suo. Il pane che si mangia servendo,
non può sgradire questi condimenti, che lo rendono più saporito. Ma
infine, che importano i suoi commenti, fossero anche malevoli? La gente
di servizio ha l’obbligo di fare l’ufficio suo e tacere, mostrando negli
atti di non aver nulla sentito. E per intanto non si sentiva di alcuno
nè la voce nè il passo.
Ma infine quel gran silenzio fu rotto da una scampanellata all’uscio di
casa. E poco dopo il Giovanni batteva delle nocche sull’uscio della
camera, chiedendo il permesso di aprir l’uscio a mezzo, per gittar
dentro poche parole. Annunziava una visita. E come una visita a
quell’ora? Ma era il signor Brizzi, che domandava per grazia di veder la
signora.
— Debbo dirgli che è ancora a letto? — chiedeva il vecchio servitore,
quasi precorrendo la risposta.
— No no; — rispose in quella vece la signora Zuliani, — fatelo entrare
nel salottino; mi vesto in fretta, e vengo. —
Ella indossava ancora (e se ne avvide in quel punto) la sua veste da
camera, tutta discinta, ed anche malamente gualcita dai moti incomposti,
dai tramutamenti irrequieti d’una notte febbrile. Ma questo era il
menomo guaio; e pel signor Brizzi, che era quasi della famiglia, poteva
passare anche un po’ di scompiglio nell’assetto mattutino. Raccolta la
veste al seno, gittato uno sciallettino intorno al collo, la signora
Livia si ravviò alla meglio i capelli davanti alla specchiera, e
passando rasente allo stipo, non senza un brivido per l’ossa, ne rialzò
e richiuse lo sportello a ribalta, ch’era rimasto calato; indi
frettolosa si avviò nel salottino, dove il signor Brizzi aspettava.
Il pover uomo era tutto sconvolto, contraffatto nel viso, tanto ch’ella,
al vederlo in quello stato, tremò di qualche nuova disgrazia.
— Signora.... signora.... — balbettò egli, muovendole incontro, — che
cos’è avvenuto stamane? Io veramente, non dovrei farmi lecito.... Ma il
caso è così grave!...
— Grave! — esclamò la signora. — Che cosa è accaduto di grave? Mi dica
Lei, signor Brizzi.
— Il signor Raimondo, — riprese egli allora, — il signor Raimondo....
che doveva andare alla stazione per le nove, non è andato. —
Un sorriso sarcastico sfiorò le pallide labbra di Livia.
— Ah, non è andato! — diss’ella. — Come lo sa?
— Lo so, perchè il signor Raimondo è venuto al banco una mezz’ora fa,
proprio quando avrebbe dovuto prendere la via della stazione. Ella sa
che il banco non si apre mai prima delle dieci. Ma io, questa mattina,
c’ero andato per tempo, volendo spacciare con più calma un lavoro
urgente. Stavo scrivendo, quando sentii cacciare una chiave nella toppa
e subito aprirsi l’uscio. Mi alzai, corsi a guardare in sala; era il
principale. Molto alterato in faccia, si avvide appena della mia
presenza: lo salutai, mi rispose a stento. Notavo frattanto che con
questo freddo egli era vestito alla leggera, in soprabito. Gliene dissi;
mi fece una spallata, rispondendo: “ho caldo, molto caldo„. Feci qualche
domanda, parendomi che non dovesse star bene; ma egli ripigliò
spazientito: “Brizzi, lasciatemi stare, debbo scrivere una lettera„. Non
fiatai più, e mi trassi indietro, ma senza uscir dalla stanza, non
perdendolo d’occhio. Appena seduto, aveva incominciato a scrivere, ma
senza venire a capo di nulla, gettando foglietti nel cestino, l’un dopo
l’altro, appena incominciato a vergarne una o due righe. È in collera
con qualcheduno, pensai; si scrive male, quando si è agitati: Veduto che
uno di quei foglietti, gittato via con atto d’impazienza, era volato
fuor della bocca del cestino sul pavimento, mi chinai a raccoglierlo per
collocarlo al suo posto. Avrò fatto male, signora; ma gli occhi mi
corsero allo scritto, che incominciava così: “Signor Conte„. —
La signora Zuliani aveva inarcate le ciglie; un tremito la prese al
cuore, diffondendosi tosto per tutte le membra. Nondimeno, ella si
contenne ancora.
— E nient’altro? — domandò.
— Nient’altro; — rispose il signor Brizzi. — Forse in qualche altro
foglio ci sarà stato di più. Dopo alcuni minuti di quel vano lavoro,
osai interromperlo, e riparlargli del suo abito troppo leggero,
offrendogli di mandare a prendere il suo pastrano. “Sì, mi disse,
mandate a casa il fattorino. E lasciatemi stare, ho da scrivere questa
lettera.... parecchie lettere; se voi mi state qui sempre alle costole,
non riesco a far nulla; non vedete che ho il cervello in fiamme?„ Chiesi
umilmente scusa, e per quella volta mi ritirai davvero. Il fattorino del
banco non era ancora arrivato; così mi sono arrischiato a venir io,
anche per chiedere a Lei che cosa può essere accaduto, da metterlo in
questo scompiglio.
— Signor Brizzi, Ella è un amico.... — disse la signora.
— E come! Ella lo sa; vecchio, sincero e fidato.
— Bene! Ad ogni modo, o prima o poi, dovrebbe sapere ogni cosa. Son
certa anzi che Raimondo si confiderà a Lei prima che ad altri. Sappia
dunque che c’è stato tra lui e me un gravissimo alterco. Finiremo, ne
son certa, con una separazione. Ma Ella, prego, non ne fiati con anima
viva.
— Si figuri! — gridò il signor Brizzi. — I segreti di casa Zuliani mi
son più sacri dei miei. Ma speriamo che non sia il caso, per un semplice
alterco, di giungere a quella estremità. —
Oramai il signor Brizzi aveva capito ogni cosa. L’alterco gravissimo
colla moglie, onde il suo povero principale era uscito così stravolto
dall’ira; la lettera al “signor conte„ ch’egli non poteva tirare
innanzi, tanto era agitato; erano quelli i due capi di una catena, che
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