Il ponte del paradiso: racconto - 03

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scandalizzarsene troppo, cedeva all’autorità della massima volgare, che
un nobile, barone o conte, marchese o duca che sia, non è tagliato pel
lavoro fruttifero. Va bene che il lavoro nobilita; ma ciò significa che
il lavoro è fatto per chi non è nobile ancora, potendo per contro levare
la nobiltà, o per lo meno offuscarla, a chi già la possiede;
ragionamento che va, o par che vada, a filo di logica, e non fa neanche
una grinza.
Un’altra considerazione più seria aveva persuaso Raimondo, chetati i
suoi dubbi, i suoi timori di fratello maggiore. Solo al mondo, e modesto
nelle sue abitudini, con quelle seimila lire nette all’anno, l’amico suo
poteva vivere e fare in società una discreta figura. Non giocasse; era
il punto essenziale. Ma l’amico suo aveva in orrore le carte. Così il
fratello maggiore uscì d’apprensione, e non pensò più alla utilità d’un
proficuo lavoro; egli intanto mulinava altri disegni. Con quella
gioventù, con quella bella presenza, con quel titolo, poi, con quel
titolo, destinato ad avere il suo valore, specie se titolo autentico,
non derivato dal _motu proprio_ di chi ne fa pompa, non c’era caso che
Filippo Aldini facesse un bel matrimonio, un matrimonio brillante? Il
matrimonio brillante è quello in cui da una delle due parti entrano
molti quattrini, a fortificare l’alleanza dei cuori. Raimondo Zuliani,
che per sè non aveva preso un soldo di dote, ragionava così per una
volta tanto, seguendo l’opinione dei più. Finalmente, si trattava della
felicità di Filippo, del suo inseparabile amico, del suo fratello
minore; senza contare poi questo, che, felice egli stesso nel
matrimonio, avrebbe ammogliato l’universo mondo.
Ma dov’era la ricca erede da gittar nelle braccia del suo carissimo
Aldini? Non la trovava lì per lì da nessuna parte, e molto meno a
Venezia. Qualche grosso patrimonio esisteva ancora sulle Lagune, specie
nel ceto patrizio, e le ragazze con una dote vistosa, o con vistose
speranze, non ci mancavano davvero. Ma c’era un guaio, che alla
perspicacia di Raimondo non doveva sfuggire. Si poteva egli credere che
le famiglie patrizie, dai nomi illustri, risalenti alla “Serrata del
Gran Consiglio„, sentissero il gusto di rinunziare alle alleanze tra
loro, e il bisogno di accettare un “conte di terraferma„ con seimila
lire d’entrata? Non di là, dunque, non di là, bisognava orientarsi, e
molto saviamente Raimondo ne aveva smessa l’idea.
La sposa, per quel conte, doveva venir di lontano alla sua immaginazione
sempre sveglia; e doveva venire dopo due anni d’attesa, due anni che
infine gli erano serviti per conoscer meglio l’Aldini e per stimarlo di
più; tanto in quei due anni l’amico suo aveva guadagnato ancora in
serietà, rompendola asciuttamente con certe galanterie da vagheggino, e
a grado a grado liberandosi da tanti perditempi del suo primo anno di
vita veneziana. Ah, quella figliuola del suo collega di Milano; altro
che dote patrizia! E dote e spillatico, e grandi speranze in vista; ci
aveva da esser tutto senza risparmio. Il banchiere Anselmo era uomo da
milioni; poteva guadagnarne ancora, sebbene avesse ristretta di molto la
sua cerchia d’affari; ma appunto perchè l’aveva ristretta, non c’era da
temere che ne perdesse. E infine, soltanto tra due figliuoli, Federigo e
Margherita, andava spartito il suo patrimonio.
Ed era bella, Margherita, il che non doveva guastare; e dotata di un
carattere d’oro, senza ombra di vanità, nè d’orgoglio per la bellezza
sua, o per le ricchezze della sua casa. Se si fosse potuto combinare! E
perchè no? Il banchiere Anselmo era venuto su quasi dal nulla; sua
moglie del pari; e formavano una coppia virtuosa, a cui la ricchezza era
stata una giusta ricompensa, ma non aveva offuscato il sentimento delle
sue modeste origini. Se nutrivano ambizioni, queste potevano risguardare
soltanto i loro figliuoli; e già se ne scorgeva un indizio nella
carriera scelta da essi per Federigo. E per Margherita? Un titolo, senza
dubbio, sarebbe andato benissimo, accompagnato a quel fiore di bellezza
e di grazia. E il giovane che portava quel titolo, apparteneva ad una
nobiltà di vecchia data; non era neanche un pezzente; non era un
vizioso, ma un gentiluomo e un galantuomo a tutta prova. Come avrebbe
detto di no il signor Anselmo, trovando un partito sotto ogni aspetto
così conveniente? e soprattutto quando la signorina Margherita vedesse
di buon occhio il conte Aldini? Ora, di questo il signor Raimondo non
dubitava neanche. Gli dava noia piuttosto di non aver pensato prima a
quella stupenda occasione, col rischio di lasciarsela sfuggire di mano.
Ma a farlo a posta, non che sfuggirgli, l’occasione era venuta incontro
al suo desiderio. Bisognava agguantarla pel ciuffo; e Raimondo era stato
pronto ad allungare la mano.
Così, senza dir nulla ad alcuno, lasciando che ogni cosa andasse da sè,
come l’acqua per la sua china, Raimondo aveva condotto all’albergo
Danieli il conte Filippo Aldini, presentandolo come il suo migliore,
anzi l’unico amico, quasi un altro sè stesso, alle signore Cantelli. Il
giovinotto era stato ricevuto benissimo, con un fare alquanto
impacciato, ma con evidente bontà, dalla signora Eleonora; con grazia
semplice e schietta dalla signorina Margherita. Il discorso,
naturalmente, era caduto sul gran numero di belle cose che c’erano da
vedere a Venezia. E perchè la signora Eleonora aveva accennato ad una
fermata piuttosto lunga, più che giustificata dal desiderio di
trattenersi quanto più potesse col suo Federigo, il quale tra non molto
doveva imbarcarsi per un viaggio assai lungo, il conte Aldini si prese
amabilmente la briga di stendere a voce una specie di elenco,
distribuito per settimane, delle gite che la signorina Margherita
avrebbe potuto fare, osservando, senza troppo stancare la mamma, tutto
ciò che offriva Venezia allo studio di una viaggiatrice tanto
intelligente, e capace di gustare ogni cosa notevole nella storia,
nell’arte, ed altresì nell’industria paesana. Questa, infatti, non
andava trascurata, poichè l’industria era in Venezia una cosa tutta
particolare, ed artistica al sommo.
E l’aveva tenuta a lungo sospesa alle sue enumerazioni, inframmezzate di
giuste considerazioni, di sentenze argute o profonde, passando
dall’industria antica alla moderna, che rinnovellava le bellezze
dell’antica, ai musaici del Salviati, ai vetri filati di Murano, ai
merletti policromi dello Jesurum. Raimondo, nell’atto di discorrere
colla signora Eleonora, gongolava in cuor suo di sentire i due giovani
chiacchierare con tanta animazione, come se già si conoscessero da un
anno.
— Ed ora, — pensò egli, — il giovinotto farà la sua corte. Già, la
paglia, messa accanto al fuoco, non può far che non bruci. —
In quella prima visita si era subito combinata una doppia gita insulare,
a Murano ed al Lido; onde la necessità per Filippo Aldini di ritornare
la mattina seguente al Danieli, per accompagnar le signore. Aveva fatto
da cicerone artista a Murano, da cicerone paesista al Lido, trovando
anche il tempo da far da cicerone erudito nell’isolotto di San Lazzaro,
in quel celebre convento dei padri Mechitaristi e nella loro famosa
biblioteca orientale. Due giorni dopo, faceva la sua terza visita, per
condur le signore a vedere qualche palazzo sul Canal Grande; ma a questo
giro storico ed artistico bisognava rinunziare, essendo la signora
Eleonora leggermente infreddata e costretta perciò a star riguardata
nella sua camera.
Filippo non ebbe dunque altro da fare che quattro ciarle di passata
colla signorina Margherita. Voleva infatti congedarsi presto; ma non ne
fece nulla, tanto la conversazione si era animata tra loro. Il discorso
era caduto su Parma, dove Filippo era nato, e dove la signorina
Margherita aveva passato alcuni giorni in quell’anno medesimo. Che bella
città! Quante cose anche laggiù da ammirare! Margherita ricordava quel
campanile alto alto, di fianco alla facciata del Duomo, quel campanile
che si muoveva, oscillando visibilmente sulla sua base ad ogni rintocco
della campana maggiore: poi quel battistero lì presso, così strano coi
suoi fregi di marmo, tutti a rilievi di animali simbolici; e il ricco
museo, coi bronzi di Velleia, e la biblioteca ricchissima, col Virgilio
manoscritto, tutto di pugno del Petrarca, e la pinacoteca maravigliosa,
coi capolavori del Correggio. Margherita possedeva un senso
squisitissimo d’arte, tale da piacer sommamente a Filippo, che era mezzo
pittore; e gli aveva notato, per esempio, nella Madonna detta di San
Gerolamo, quella guancia della Maddalena, veduta in iscorcio, resa con
tanta delicatezza di tocco, che nessuno, copiando, aveva potuto
esprimere fedelmente, nè col pennello, nè col bulino, mai più.
Finalmente, passando ad altro, gli aveva toccato della storia di Parma,
della famiglia di lui, che vi era stata in grande onore nei secoli
andati.
Ma come sapeva ella mai tante cose? La signorina Margherita appagò
facilmente la curiosità di Filippo. Al babbo avevano proposta la compera
di una tenuta sul territorio parmense, verso Montechiarugolo; ed egli,
per andarla a vedere e risolversi, aveva condotta con sè la figliuola.
Così ella aveva veduto, osservato, studiato tante cose; così del resto
ella faceva, dovunque il babbo o la mamma la conducessero. Perciò aveva
notato anche il palazzo Aldini, il quale del resto attirava facilmente
gli sguardi, con quei due Telamoni di pietra che fiancheggiavano
l’ingresso, sostenendo il terrazzino del primo piano.
— Ahimè! — sospirò Filippo, — il palazzo da gran tempo ha mutato
padrone. Quel che possiedo ancora a Parma è in campagna.
— Lo riscatti; — disse Margherita. — È tanto caratteristico! e in una
bella strada, presso Santa Lucia. —
Filippo non rispondeva altrimenti che con un mezzo sorriso.
— Ma sì, — incalzò la fanciulla. — Deve riscattarlo. La casa degli
antichi è sacra; se per qualche cagione si è perduta, bisogna riaverla!
E per riaverla non c’è che una cosa, volere.
— Crede Ella che basti?
— Per cominciare, sì; — rispose Margherita; — e “chi ben comincia è alla
metà dell’opra„. Le cito un verso, che non so di chi sia; ma è tanto
vero! Lo ripete spesso il mio babbo.
— Vedrò di volere; — conchiuse Filippo. — Ella mi fa riprendere amore al
mio nido. —
E pensava frattanto con grata meraviglia alle rare doti di quella
ragazza, alla sua serietà di carattere, alle sue cognizioni, alla
grazia, alla nobiltà del suo spirito, veramente notevoli. Se alla prima
visita egli aveva incantata coi suoi ragionamenti la signorina
Margherita, alla terza ella incantava lui. Ma più incantato di tutt’e
due sarebbe rimasto Raimondo Zuliani, se fosse stato là, dietro un
uscio, a sentirli. — Si va a gonfie vele — avrebbe egli detto tra sè,
non senza stropicciarsi le mani.
Ma non c’era; e quel giorno, sul tardi, quando Filippo Aldini si recò al
palazzo Orseolo per fare la sua visita settimanale ai coniugi Zuliani
dopo l’ora del pranzo, Raimondo non ebbe a saper nulla di quel
colloquio, che a lui sarebbe riuscito così importante e piacevole. Egli
dovette contentarsi di chiedere all’amico dove avesse quella mattina
accompagnate le signore Cantelli.
— In nessun luogo; — rispose Filippo. — La signora Eleonora era
infreddata, ed io mi sono ritirato in buon ordine. —
Era poco, era niente; ma Raimondo non aveva ragioni per desiderare di
più.
— Ebbene, — entrò a chiedere la signora Zuliani, — che impressione le ha
fatto la signorina Cantelli?
— Impressione! — ripetè Filippo, sconcertato.
— Sì, voglio dire come Le è parsa?
— Eh, non c’è male. —
Ma qui Raimondo aveva dato un balzo sulla scranna.
— Non c’è male! Non c’è male! Così te ne sbrighi, assassino? La
signorina Margherita è un angelo. —
Filippo si strinse nelle spalle, non avendo da dire nè di sì, nè di no.
La signora Livia, dal canto suo, si era creduta in obbligo di mettere un
sordino alle volate del consorte.
— Per sua norma, signor conte, — diss’ella, — mio marito trova angeli
dappertutto.
— Non dappertutto, — replicò Raimondo, — ma dove sono. E che io me ne
intenda è già dimostrato, non ti pare?
— Questo vorrebb’essere un complimento.
— No, ma una verità sacrosanta. —
Così dicendo, il felice Zuliani batteva delicatamente della palma sulla
candida mano di sua moglie. N’ebbe un sorriso, il meno che gli si
potesse dare in premio della sua galanteria. L’idilio coniugale non
giungeva certamente nuovo a Filippo Aldini, che garbatamente levò gli
occhi in alto, pensando. Aveva ancor egli il suo piccolo idilio
nell’anima; poteva dentro di sè vagheggiarlo. È questo il segreto di
molti silenzi, e di molte distrazioni, nell’uomo.
Margherita era un angelo davvero, un angelo di bellezza e di bontà.
Serena senza sforzo, modesta senza ostentazione come senza scioccheria,
sapeva molto e non ne faceva pompa, neanche quando l’occasione potesse
giustificare una certa solennità di discorso. Con tanta grazia
penetrante, unita ad una così sfolgorante bellezza, colpiva al primo
incontro, e colpiva in pieno; bisognava amarla senz’altro. Filippo aveva
preso fuoco, necessariamente; ma si era anche saputo dominare, lì per
lì, proprio in quel punto, e per le istesse ragioni che lo avevano fatto
ardere, alle evocazioni gentili della sua città natale, della sua gente,
del suo palazzo, che bisognava riscattare, fortemente volendo. Quel
fuoco, a mala pena divampato, si era chiuso nel cuore di lui, per
isforzo violento della sua volontà; doveva restar lì, vivo ma cheto,
come quello che cova sotto la cenere. E cenere; ahimè, non ne mancava in
quel cuore.
Fu ancora uno sforzo di volontà la sua risoluzione di non ritornare una
quarta volta dalle signore Cantelli? Una simile risoluzione parrà
strana, o non parrà, secondo che si consideri il caso di Filippo Aldini.
Certo, quando s’incontrano donne come quella, che pareva un angelo a lui
non meno che all’amico Zuliani, bisogna amarle senza misura, senza
ritegno, da pazzi; e la cosa è chiarissima, perchè di quelle donne non
se ne incontrano due nella vita. Ma ancora bisogna fuggirle; e questo
non è meno evidente, chi si trovi nelle condizioni di Filippo Aldini.
Buon sire Iddio! Se quella angelica creatura è ricca, troppo ricca per
noi, non si potrebbe egli credere, nel mondo sciocco e cattivo, che si
volesse fare un matrimonio d’interesse, il matrimonio brillante, che
sorrideva, per utilità di Filippo, alla ferace fantasia di Raimondo
Zuliani?
Il conte Aldini non ritornò dunque per la quarta volta al Danieli. O,
per dire più esattamente, ci ritornò, colla ferma intenzione di non
salire le scale, ma di chieder notizie della signora Eleonora, e
lasciare un biglietto da visita, a prova della sua sollecitudine per la
salute di lei. La signora, per fortuna, era ristabilita del tutto, e
fuori, per l’appunto, in compagnia della figliuola; ottima occasione per
lasciare quel biglietto di visita, a testimonianza di un dovere
compiuto, e non soltanto del desiderio di chieder notizie. Dopo quel
giorno, se s’imbatteva per via nelle signore Cantelli, faceva un gran
saluto, e magari una fermatina di convenienza, per barattar quattro
parole, non osando accompagnarle, nè offrirsi in nulla al loro servizio.
Naturalmente, la signora Eleonora non gli chiedeva: “perchè non vediamo
più il nostro cicerone, così garbato e così utile nei primi giorni che
l’abbiamo conosciuto?„ Nè questo, nè altro di simile, si poteva dir mai;
che sarebbe stato sconveniente, come se davvero le signore avessero
creduto di prendere ipoteca su lui; e d’altra parte, come sappiamo, la
signora Eleonora stava sempre un pochino in sussiego, facendo meno
parole che le fosse possibile. Pareva orgogliosa, con quella sua aria e
con quella sua andatura intirizzita. Nel fatto era una creatura di
mediocre istruzione, ma di grande buon senso; e taceva molto, temendo
sempre di dir qualche cosa che non fosse a punto e virgola. Donna rara!
Occupatissimo al suo banco in quella fin d’anno, Raimondo Zuliani non
aveva chiesto, nelle sue rare e brevi apparizioni al Danieli, se l’amico
Aldini fosse assiduo al suo ufficio di cicerone. Si meravigliò forte
quando sentì finalmente che non si lasciava veder troppo. Oh, ma ci
avrebbe messo buon ordine lui. Perciò quell’alzata d’ingegno del
brindisi; e l’aveva rinfrancata con altri argomenti, scendendo le scale
del palazzo Orseolo, per accompagnar le signore Cantelli fino
all’imbarco. Là, alla svolta d’un pianerottolo, prendendo pel braccio il
suo Pilade, gli aveva bisbigliato all’orecchio:
— Senti, o la sposi, o non ti conosco più per amico. —


IV.

Batti il ferro mentre è caldo.

Alla signora Zuliani accadde di respirare più liberamente, quando
l’ultimo de’ suoi convitati ebbe preso congedo. Anche quella noia era
dunque passata, e bisognava renderne grazie al cielo. Le restava, nel
ritirarsi ai dolci riposi, una piccola curiosità, tutta femminile;
sapere che cosa mulinasse Raimondo, con quelle sue tenerezze per le
signore Cantelli. Aveva egli bisogno di entrar maggiormente in grazia al
collega di Milano, per agevolarsi qualche grossa operazione bancaria con
lui? Non era da crederlo. Raimondo si sentiva forte abbastanza da
spiccare ogni volo più ardito; non era più nella condizione di cinque o
sei anni addietro, quando aveva passato quel brutto quarto d’ora a cui
per l’appunto egli si riferiva due giorni prima discorrendo con lei. Si
trattava dunque d’un sentimento di gratitudine? Forse sì, quantunque
paresse un po’ spinto; fors’anche era da vederci il proposito di
compensare la freddezza di sua moglie verso quelle care viaggiatrici,
che volevano metter le barbe a Venezia. Altro, del resto, non c’era, non
ci poteva essere; e se fosse stato, bisognava riderne, come d’un sogno
ad occhi aperti. Quel brindisi, veramente, avrebbe potuto dar da
pensare. Ma infine, la curiosa manìa di ammogliare l’universo mondo era
antica nel suo signore e padrone: quante volte, infatti, non gli era
accaduto di prodigar consigli ed esortazioni di quel genere a chi
mostrava di non volerne approfittare? Quella notte la esortazione era
stata più calda; ma che cosa non fa un bicchiere di più, tracannato in
allegra compagnia? e in particolar modo di Sciampagna, che è vino
tenero, se altro fu mai, e singolarmente propizio alle effusioni
dell’anima?
Quanto a Raimondo, egli sapeva bene una cosa; che la sua Livia non
poteva soffrir le Cantelli.
Ma perchè? Non riusciva ad intenderlo. Margherita era una così buona e
cara fanciulla! Che ci fosse per avventura da vedere un pochino di
quella gelosia naturale, irriflessiva, involontaria, che nasce così
spesso tra donne? Ma la sua Livia avrebbe avuto un gran torto a provarne
la più lieve puntura; lei così bella, e d’un altro genere di bellezza,
fine, delicata, aristocratica al sommo. Quando ella appariva nel suo
palchetto alla Fenice, o nella sala dei concerti al Liceo Marcello,
l’accoglieva sempre quel fremito d’ammirazione che dice ad una bella
assai più di cento sonetti e di mille madrigali. Ma che gelosia
d’Egitto! Non era da pensarci neanche. Piuttosto l’antipatia per la
vecchia? Ma quella era una povera donna, contegnosa senza saperlo,
intirizzita senza volerlo. E poi, che noia le davano, alla sua Livia,
due visitine a tempo e luogo, con qualche invito a pranzo, o a teatro?
Non dovevano poi far vita insieme. Così l’aveva sopportata il marito, e
per un quarto di secolo oramai, quella contegnosa e taciturna signora:
non poteva sopportarla lei per uno o due mesi?
Comunque fosse, dopo averci pensato più lungamente che non portasse il
bisogno, Raimondo scosse il capo e le spalle; segno che voleva gittare
un carico importuno ed inutile. E tacque delle signore Cantelli a
colazione, e ne tacque a pranzo; tacque soprattutto, poichè l’argomento
non sarebbe piaciuto, tacque di essere stato poco prima al Danieli per
ringraziar le signore una volta ancora, e di aver fatto, contro l’uso
suo, una visita lunga.
Venne la sera, e Raimondo offerse alla sua Livia di accompagnarla a
teatro. Ma ella si sentiva ancora un po’ stanca della notte perduta;
cinque ore di sonno in giornata non erano state riparatrici abbastanza;
lo specchio, poi debitamente interrogato, le aveva fatto scorgere un po’
di livido intorno ai begli occhi glauchi, e tra gli occhi e le guance
due pieghettine, due cose da nulla, ma ad ogni modo, e comunque
attenuate da cortesi eufemismi, due borse. Piccolo guaio delle bionde,
che sogliono avere la pelle più tenera. Si vedrà? Non si vedrà? Nel
dubbio, la bella bionda si astiene.
Raimondo uscì, per far quattro passi: un’ora dopo era già di ritorno,
con un fascio di giornali, che prese a leggere, facendone parte di tanto
in tanto a sua moglie; per le notizie d’arte e di cronaca, s’intende,
che la politica non era nelle grazie della bella signora.
— Strano! — diss’ella in un momento di sosta del suo cortese lettore. —
Il tuo signor Filippo non si lascia vedere da noi, nel primo giorno
dell’anno nuovo.
— O come? — esclamò Raimondo. — Non c’era stamane, avendo cominciato
l’anno da noi? Del resto, ricordo di aver ricevuto un suo biglietto di
scusa, e di scusa legittima. —
Così dicendo, trasse di tasca una lettera e la pose sulla tavola,
davanti a sua moglie. Livia la prese, dopo alcuni minuti secondi;
l’aperse con atto lento e svogliato; finalmente la lesse. Erano pochi
versi di scritto e dicevano così:
“_Caro Raimondo_.
“Vorrei venire oggi al tuo banco, per darti ancora un saluto; ma
ho un gran sonno, un gran sonno. Chiederai perchè io non abbia
dormito stamane appena arrivato a casa. La rea cagione è questa,
che ho trovato a casa un telegramma da Verona, un telegramma di
due vecchi amici, di due commilitoni, che mi annunziavano la
loro venuta, e per l’appunto in giornata, volendo passare a
Venezia tre o quattro giorni della loro licenza. Li ho sulle
braccia, e mi è toccato dar ordini per preparar loro l’alloggio
nel mio modesto quartierino. Stasera debbo andarli ad aspettare
alla stazione; per intanto vo a letto, che l’ho ben guadagnato.
Di tutto cuore, addio; ossequj ed augurj senza fine alla tua
Signora.
_Filippo_.„
Il biglietto dell’Aldini, così innocente nella sua semplicità, aveva già
seccato non poco Raimondo Zuliani. Quei due amici, e vecchi commilitoni,
proprio non ci volevano; guastavano infatti, o potevano guastare tutti i
disegni ch’egli aveva formati in quei giorni. Con due vecchi commilitoni
sulle braccia, ed ospiti per giunta, come sarebbe riuscito Filippo a far
la sua corte? Ed era urgente di farla; bisognava battere il ferro mentre
era caldo. A farlo a posta, quel caro Filippo era un così strano
ragazzo! Aveva preso fuoco e levata come si suol dire la fiamma; poi giù
tutto ad un tratto, come se fosse stato un fuoco di paglia. Strano
ragazzo! Ma occorreva avere senno per lui.
— E così, vedi, non ha potuto venire; — disse Raimondo, poi che sua
moglie ebbe deposta la lettera. — Ci ha ospiti.
— Peccato! — esclamò la signora. — Appunto per questa sera gli si
sarebbe potuta dare la chiave del palco, per poterli condurre alla
Fenice.
— Un palco di seconda fila, per uomini, eh, via! — osservò Raimondo. —
Non l’hai voluto mai cedere per le signore Cantelli!...
— Oh, quelle son ricche, e possono provvedersi.
— Pazzerella! Quando hai qualcheduno in uggia!...
— Ma che! ora tu esageri, secondo l’uso; — notò la signora. — Di’
piuttosto che non sento il bisogno di buttarmi nelle loro braccia. La
signora Eleonora, con quella sua mutria, per esempio, non è proprio
fatta per attirarmici. —
Raimondo sorrise a sua moglie, e un pochettino anche a sè.
— Dicevo bene, — pensò egli, — che non era per la figliuola. Ma quella
povera signora Eleonora, com’è mal giudicata da mia moglie! Con tutto il
suo sussiego apparente, è la miglior pasta di donna che si possa
immaginare. E se Livia sapesse ancora.... Ma acqua in bocca per ora, ed
ogni cosa al suo tempo. —
Quella sera la signora Livia si ritirò presto nelle sue stanze. Il
ricamo turco, che aveva tentato di ripigliare, le dava noia; ed anche le
occorreva pensare ai suoi poveri occhi, che volevano il giorno dopo
essere in ordine, freschi come rose. Raimondo stette ancora un pezzo
alzato, e passò il resto della lunga serata casalinga, in parte
ripassando conti, in parte scrivendo minute di lettere d’affari, da
trasmettere la mattina seguente al signor Brizzi. E tenne i suoi bravi
segreti in corpo, diventando un miracolo di prudenza diplomatica ai suoi
occhi medesimi. Così, grandemente soddisfatto di sè, dormì quella notte
veramente di gusto, sognando di aver tutti dalla sua, la signora
Eleonora e il banchiere Anselmo, e di unire in matrimonio quell’angelo
della signorina Margherita col suo caro Filippo, col suo dolce pupillo,
col suo fratello minore.
Lo incontrò il giorno dopo, tra il tocco e le due, presso la Torre
dell’orologio, mentre egli, ritornato da far colazione, rientrava al suo
banco. Filippo Aldini era solo.
— Oh, bravo! — gli disse. — Ho il piacere di combinarti. E i tuoi amici
di Verona?
— Li ho lasciati poc’anzi; — rispose Filippo. — Sono andati a fare il
giro del Canale, che iersera arrivando non hanno potuto godere. Quanto a
me, capirai, dopo tanti anni di barchettate....
— Hai l’acqua fino alla gola, t’intendo; e li hai lasciati andar soli,
per rivederli più tardi?
— Sì, abbiamo preso appuntamento per le quattro; — disse Filippo.
— Se credi, — ripigliò Raimondo, — puoi condurli questa sera da noi. I
tuoi amici sono i nostri.
— Grazie, no, grazie; — rispose prontamente Filippo. — Per dirti il
vero, sono un po’ orsi.
— Ufficiali di cavalleria, — notò Raimondo stupito, — commilitoni tuoi,
e tanto diversi da te? Basta, non insisterò; tu devi sapere ciò che è
più conveniente. Parliamo di ciò che importa. Sei libero?
— Sì, fino alle quattro, ti ho detto.
— Bene; allora accompagnami al banco. Si discorre male, per via. —
L’Aldini capì benissimo dove Raimondo volesse andare a parare, e si
adattò a seguirlo. Del resto col suo prepotente amico non si poteva fare
altrimenti.
Come furono al banco Zuliani, e ben chiusi nello studio di Raimondo,
questi incominciò allungando la mano sulla scrivania, e facendo
scivolare verso l’Aldini una scatola di lacca giapponese, aperta, e
piena di spagnolette. La seduta voleva esser lunga.
— Siedi, mio caro; — disse Raimondo. — Qui sono Tokos, Giubbeck, Delizie
del Serraglio, ecc., ecc. “Scegli qual più t’aggrada„.
— No, grazie, non fumo; — rispose Filippo. — Ma tu hai da dirmi....
— Oh, tante cose. E prima di tutto ho da chiederne una a te. Come sei
rimasto contento ieri mattina del tuo ufficio di accompagnatore?
— Contento? di un dovere compiuto? — disse Filippo. — È così semplice,
poi. In gondola, quattro chiacchiere senza costrutto, molti elogi alla
tua cena sontuosa; e finalmente, alla Riva degli Schiavoni, ossequj e
riverenze.
— Nient’altro?
— Nient’altro.
— Male; — conchiuse Raimondo. — Avevi da promettere una visita,
chiedendo se le signore avevano bisogno di te, per qualche gita qua e
là, che tu saresti stato felicissimo di metterti a loro disposizione. Ma
che razza di cavaliere mi sei tu diventato?
— Hai ragione, dovevo pensarci. Ma che vuoi? Questo costume di buttarmi
avanti, io non l’ho avuto e non l’avrò mai; colle signore Cantelli, poi,
meno che mai.
— E perchè, di grazia, perchè con esse meno che con altre? Avevi pur
cominciato, se non a buttarti avanti, come tu dici, a fare almeno
qualche atto di servitù!
— Vero; — disse Filippo. — Eri tu che mi avevi messo dentro; ed io mi
sono trovato al laccio senza volerlo; ma poi ho pensato.... ho pensato
che non dovevo continuare, che non potevo restare in quell’ufficio di
accompagnatore eterno, senza lasciar credere alla gente, e prima di
tutto alle signore Cantelli, di averci le mie ragioni particolari....
M’intenderai, senza che io te ne dica di più.
— È un buon sentimento; — concesse Raimondo. — Ma non bisogna
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