Il ponte del paradiso: racconto - 06

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suo modo di pensare, il suo cuore, la sua istruzione, non puoi, come non
posso io. Dire di no, può parere orgoglioso; ma come si fa a dire di
sì? —
E si rideva. Il signor Anselmo finiva sempre col dar ragione a sua
figlia. In fondo, non gli dispiaceva di tenersi in casa quella cara
fanciulla, che intanto era giunta ai ventiquattro anni, non accennando
punto di voler così presto sfiorire, e che del resto non sentiva il
desiderio di far mutamenti nel suo stato civile. In questo modo, ricusa
oggi, ricusa domani, si dava materia d’almanacchi a chi aveva voglia e
costume di farne. E il signor Anselmo, poi, dopo aver dato ragione a sua
figlia, muoveva abitualmente dai particolari agli universali,
sentenziando a un dipresso così:
— Perseverate, bambine, e state volentieri coi vostri parenti. A
rompervi il collo ci sarà sempre tempo; mentre una vita come quella che
fate in casa vostra, senza pensieri, senza cure, senza affanni, senza
rimpianti, non la farete mai più. —
Pensava veramente così anche la signorina Margherita? Certo; se no, lo
avrebbe detto, o lasciato capire; perchè simulazione e dissimulazione
non erano il fatto suo. La vita era per lei tanto bella! Amava i suoi
studi e non isfuggiva i divertimenti: il babbo, quante volte aveva
ragione di muoversi, la conduceva con sè. Era stata in giro per quasi
tutta l’Italia; aveva anche veduto Parigi e Londra, osservando
dappertutto e studiando a suo modo, con quel babbo compiacente, che
prendeva gusto a tutto quanto occupasse la mente o attirasse la
curiosità di sua figlia. Sarebbe stato lo stesso con un altro uomo, più
o meno innamorato, in quella vagabonda luna di miele, che dura poi come
tutte le lune, ventinove giorni, dodici ore, quarantaquattro minuti, e,
crepi l’avarizia, tre secondi e undici terzi? Aggiungete che quella
dolce luna, come tutte le altre, è per gran parte scema. A queste cose,
del resto, Margherita non aveva mai pensato, nè troppo, nè poco. Si
contentava di non gradire i matrimonii combinati come contratti; degli
altri non sapeva, nè avrebbe voluto figurarseli con uno sforzo
d’immaginazione, e col rischio di non indovinarci. Venisse il giorno e
l’uomo; l’avrebbe trovata. Ma certo bisognava toccarle il cuore, perchè
ella rinunziasse alla sua libertà invidiabile, e a quella bella
spensieratezza che ne era la conseguenza legittima.
Pensierosa, per altro, e per la prima volta, appariva nell’uscire dal
museo Correr. Pensierosa, è forse un dir troppo; mettiamo pensosa,
mettiamo raccolta in sè stessa, senza mostrar più quel desiderio di
ridere, di voltarsi qua e là, prendendo gusto al chiacchierìo della
strada. Quel raccoglimento era forse il frutto d’un po’ di stanchezza
dello spirito, per tante cose osservate. Comunque fosse, appariva
egualmente bella, forse più bella dell’usato, venendo via con quell’aria
composta e tranquilla, accanto alla mamma ed al conte Aldini; il quale
era tutto attenzioni e riguardi per la signora Eleonora, e poc’anzi le
aveva premurosamente aggiustata la pelliccia sulle spalle.
— Ora poi la godrà; — le aveva detto egli. — L’aria incomincia a farsi
frizzante. —
La signora Eleonora lasciava fare, sorridendo amabilmente alle cortesie
del suo cavaliere. Intanto, si spegneva la luce del giorno, si
accendevano i lampioni, e la buona signora pensava con un senso d’intima
allegrezza al pranzo che l’aspettava al Danieli.
— Senta — diss’ella tutto ad un tratto, — dovrebbe quest’oggi venire a
far penitenza con noi.
— Con che piacere, signora! — esclamò Filippo, reprimendo un moto
violento del cuore. — Ma ho gente sulle braccia, due vecchi amici, che
mi son capitati l’altro giorno da Verona....
— E li ha lasciati per noi! Mi rincresce....
— Oh, non si dia pensiero di questo. Sono uomini, e non hanno bisogno di
guida. Ma la sera, capirà, debbo lasciarmi vedere; tanto più che sono ad
alloggio da me.
— Non vorranno poi fare la visita di santa Elisabetta; — notò
Margherita. — E l’avremo un altro giorno, non è vero?
— Certo; sarò ben onorato; — disse Filippo, che per la prima volta si
sentiva la lingua impacciata. — I miei vecchi compagni d’armi rimarranno
pochi giorni ancora. —
In questi discorsi erano venuti oltre il ponte di Rialto, e per la Riva
del Carbone entravano in Merceria. Qui avvenne a Filippo Aldini di fare
un gesto, come d’ingrata maraviglia; un gesto che non isfuggì
all’attenzione della signorina Margherita.
— Che cosa ha visto? — chiese ella.
— Io? nulla; — rispose Filippo.
— Ha fatto un gesto, — ripigliò Margherita, — un gesto di persona molto
seccata.
— Davvero? — esclamò egli, padroneggiandosi, e correndo col pensiero
alle scuse. — Non me ne sono avveduto. Ma chi sa? Passano alle volte pel
capo certi brandelli d’idee.... Un moto della fantasia li fa scorrere
davanti agli occhi dell’anima, ed è naturale che ci secchino, come può
seccarci una nuvola che passi in aria e c’impedisca di vedere il sole,
senza che per questo avvertiamo la presenza della nuvola. Infatti, io
non avevo avvertito nulla. Moti istintivi, signorina, moti macchinali;
non è da farne caso. —
E rideva, così dicendo, e gesticolava, come non aveva mai fatto, sempre
per darsi un’aria disinvolta e serena.
Quello che gli aveva dato noia, facendogli fare quel gesto di persona
seccata, era ancora lontano, nascosto alle sue compagne di passeggiata
da un piccolo crocchio di persone, che proprio in quella stretta avevano
creduto opportuno di fermarsi a discorrere. Ma l’oggetto della noia si
fece più innanzi, e tagliando la strada in isbieco dietro all’ostacolo,
si affacciò finalmente alla vista delle signore Cantelli. Oh, il felice
incontro! La contessa Galier di San Polo! E lì una buona fermatina, con
un mondo di garbatissime chiacchiere, e di complimenti alla signorina
Margherita, sempre più bella, sempre più cara. Nè al conte Aldini mancò
la sua parte.
— Hanno un gentil cavaliere e un cicerone prodigioso; — diceva la
contessa Galier. — Sa tutto, ha veduto tutto. Oh, non dico per adularvi,
Aldini, ma per rendere omaggio alla verità. Sappiano, signore mie, che
tanti e tanti tesori d’arte in Venezia, ignoti a molti di noi veneziani
il conte Aldini li conosce come la palma della sua mano.
— Infatti, — disse Margherita, — al museo Correr ne abbiamo avuto oggi
la prova.
— Vengono di là?
— Sì, e grazie al nostro cavaliere ci abbiam passato quattr’ore
deliziose.
— Ah, bene! Venezia ascrive ad onor suo, di poter dare simili gioie a
visitatrici così intelligenti e così care. Ora, immagino, ritorneranno
all’albergo. Ed io a casa. Son proprio felice di averle incontrate. —
Qui venne il ricambio degli ultimi saluti; dopo di che la contessa
Galier si avviò per Rialto verso i Santi Apostoli e il corso Vittorio
Emanuele, mentre le signore Cantelli riprendevano il loro cammino verso
San Marco e la riva degli Schiavoni.
— Cara signora! — disse Margherita all’Aldini. — Dev’essere molto
buona. —
Filippo acconsentì col doppio moto del capo e del labbro. Ma dentro di
sè l’avrebbe mandata volentieri a quel paese, quella cara Galier. Non
già perchè l’odiasse, povera donna; ma perchè gli veniva in mal punto a
ricordare tutto ciò che per un giorno egli aveva dimenticato così bene.
E veniva innanzi turbato nel profondo del cuore, ma sforzandosi di parer
tranquillo all’aspetto; senza parole, nondimeno, e sperando che della
sua taciturnità lo scusasse abbastanza il doversi ad ogni tratto cansare
tra la gente che correva per un verso o per l’altro. Ma riusciti che
furono davanti a San Marco, e di là in Piazzetta, dove era più scarso il
numero dei viandanti, il silenzio di Filippo doveva essere notato.
— È pensieroso; — gli disse Margherita.
— No; — rispose egli, con accento di viva sollecitudine.
— Sì; — replicò la fanciulla, con accento di viva insistenza.
— Ebbene, sì; — conchiuse egli, cedendo. — Penso infatti, che questa
buona giornata è troppo presto finita.
— Se è così — ripigliò Margherita, — se ne procuri.... ce ne procuri
un’altra. Mediti lei, trovi lei il punto che dovremo visitare, e poichè
i suoi amici di Verona non hanno bisogno di guida come noi, venga a
dircelo; ci troverà pronte a muoverci. Non è vero, mamma?
— Eh, non bisognerebbe poi abusare! — osservò la signora Eleonora.
— Ma che? ma che? Io son fatta così. Se il signor conte gradisce di
farci gli onori di casa, noi, che non vogliamo essere ipocrite, gli
confessiamo di gradir molto la sua cortesia. Ma badi, — soggiunse con un
risolino malizioso quella cara fanciulla, — ho detto onori di casa per
modo di dire, poichè ora siamo a Venezia. Ma la casa non è qui, ci
pensi, non è qui.
— Sì, sì, ci penso, non dubiti; non penserò più ad altro; — rispose
Filippo animandosi.
— Che cos’è questa distinzione? — domandò la signora Eleonora.
— Ah, mamma, tu non sai; tu non hai visto, come ho visto io, a Parma, il
palazzo degli Aldini. Una bellezza! Ho raccomandato al signor conte di
ricomprarselo, il palazzo dei suoi maggiori. Me lo ha promesso; parola
di gentiluomo non può mentire.
— Pazzerella! E se i proprietarii presenti non volessero vendere?
— Oh, vorranno, vorranno. L’ho già capito dal modo come tengono quello
stabile, non facendovi mai un ristoro. Siamo dunque intesi? — proseguì
Margherita, volgendosi a Filippo, sull’uscio dell’albergo. — _Digne_....
— _Et in æternum_; — rispose Filippo con un filo di voce, ma mettendo in
quel filo di voce il meglio dell’anima sua.


VII.

Alzata d’ingegno.

Esistessero o no i due amici di Verona, erano stati annunziati come
ospiti di pochi giorni, non potendo essi restare a Venezia oltre il
termine di una breve licenza. Dovettero dunque ripartire, e il conte
Aldini si ritrovò quello di prima, libero del suo tempo, e padronissimo
di ritornare alle sue consuetudini. Ma non senza aver fatto ancora
quella passeggiata artistica, ch’egli stesso doveva immaginare e
proporre. Ed era stata proprio una passeggiata all’aperto, per vedere
qua e là tante di quelle piccole cose, che i viaggiatori non trovano
indicate nelle guide, e che sfuggono perciò alla loro ammirazione
forzata: per esempio quelle scale scoperte nei cortili di parecchie
abitazioni private, come nel palazzo Soranzo in campo San Polo, nel
palazzo Sanudo a Santa Maria dei Miracoli, nella casa abitata da Carlo
Goldoni a San Tomà, e originale su tutte la scala dei Bembo alla
Celestia in calle Magno. E non dimentichiamo, poichè piacque
singolarmente a Margherita, il bel motivo architettonico foggiato ad
arco trionfale su d’un calle angusto, in capo al ponte del Paradiso,
presso Santa Maria Formosa.
Il ponte, per verità, era piuttosto un voltino di gora, accavalciato
sopra un rio non più largo di cinque passi; l’arco trionfale si riduceva
ad uno stipite, poggiato su due pietre sporgenti dagli angoli di due
case, onde l’entrata del calle si restringeva alle forme di un uscio. Ma
su quello stipite si girava un lunetto ad arco acuto, con entro una
Madonna rozzamente scolpita, mantellata e coronata, in atto di far
grazia a due divoti personaggi, forse due santi, inginocchiati intorno a
lei; ma su quel lunetto si alzava, andando su su, una cuspide di marmo,
elegantissima, incorniciata di fregi di leggiadra fattura, chiudente nel
suo mezzo un disco egualmente fregiato, e nel disco un’apertura
quadrilobata, che a Margherita parve il trifoglio di quattro foglie,
tanto ricercato dalle fanciulle nei prati autunnali, come certo
promettitore di desiderate fortune. Suprema eleganza di linee, grazia
veramente divina di forme! E accanto alla costruzione fantastica, sul
lembo d’una casa contigua, una finestrina lunga lunga, fiancheggiata da
svelte colonne, reggenti un cappello di pietra ad arco acuto, ma acuto a
modo suo, tondeggiante sui fianchi, assottigliato nel vertice, come un
asso di picche, alla maniera degli Arabi. Che eleganza, che grazia,
anche lì! E come era bello, in luoghi così umili, così poco osservati,
quasi schivi di attirare la curiosità del viandante, imbattersi in
quelle piccole maraviglie, vera fioritura dell’arte d’un popolo che apre
gli occhi alla vita dello spirito, e pensa, indaga e crea, nella
giovinezza esuberante della sua immaginazione!
Cose piccole, cose piccole, spesso da anteporsi alle grandi! Ed anche
nelle grandi, dopo averle contemplate nella loro maestà, sono da
osservare più attentamente le piccole. Quante ce n’erano, di queste, che
Margherita non aveva nemmeno guardate, nei capitelli svariati delle
colonne sorreggenti la facciata del palazzo Ducale, nelle finestre di
San Marco, nelle absidi esterne dei Servi e dei Frari, nei balconi della
Ca d’Oro o del palazzo Cavalli, tutte eleganze fiorite in cui per
l’appunto è dato di cogliere la prima impronta di un nuovo stile
nell’arte! In quella serie d’osservazioni, minute e non faticose,
Margherita vide nascere il sesto acuto in Venezia e svolgersi con
ispontaneità tutta italiana un modo di architettura che gli Arabi
avevano elaborato, mescolando elementi bisantini e persiani. Quell’arte
era venuta dall’emporio prediletto dei Veneziani intorno al Mille;
venuta dall’Egitto, come le istesse reliquie del benedetto san Marco. E
la signorina Cantelli fu piacevolmente maravigliata di saper tante cose
nuove ad un tratto, guardando, paragonando, ascoltando; maravigliata
ancora di conoscere, contro l’asserzione di tutte le guide, che le due
fronti del palazzo dei Dogi, verso la piazzetta e verso la Laguna, non
erano opera di Filippo Calendario, il famoso architetto e scultore,
involto nella congiura del doge Marin Faliero, e perciò giustiziato nel
1354, settant’anni prima che il Senato deliberasse di atterrare le due
fronti della fabbrica antica, edificata da Pietro Orseolo nel principio
del dodicesimo secolo.
Infine, la cara Margherita imparava in breve ora tante belle cose, che
accrescevano maravigliosamente la sua stima per Filippo Aldini; e beveva
frattanto a stilla a stilla, assaporandolo, il più dolce tra tutti i
veleni. Aveva ella dunque trovato l’uomo ideale, il primo e l’unico, per
cui non avrebbe detto di no? Un po’ triste di umore, veramente; spesso
pensieroso, e qualche volta, richiamato da qualche domanda, aveva l’aria
di cascar dalle nuvole. Ma queste erano inezie, e non guastavano
affatto.
Egli era poi così intento a lei, così pieno di riguardi per la mamma! E
certo, per esser tanto malinconico, il signor Filippo aveva le sue buone
ragioni; lei ricca, e fors’anco creduta più ricca del vero; egli non
tanto, da poter aspirare a lei. Margherita aveva ben capito, da certi
discorsi, che il conte Aldini aveva appena del suo tanto per vivere
signorilmente da scapolo. E ciò bastava, se era invaghito di lei, per
giustificare tutte le malinconie, tutte le tristezze ch’ella veniva
osservando. Oh, ma ci avrebbe pensato lei; ne aveva il diritto, ne aveva
l’obbligo, oramai. Non gli si leggeva il suo pensiero da più giorni
negli occhi? E infine, ad un _digne_ da lei proferito a fior di labbro,
non aveva egli con un filo di voce, ma con accento di vera passione,
risposto _in æternum_?
Finita la sosta degli amici di Verona, il conte Aldini aveva dunque
ripigliate le sue consuetudini, e per conseguenza la serie delle sue
visite ai vecchi amici di Venezia. Ai signori Zuliani, per esempio; ma a
questi per la prima volta in palco, al teatro della Fenice. Naturalmente
c’era da godersi la sfilata del cavalier Lunardi, del signor Telemaco,
del signor Ruggeri, del signor Gregoretti, del maestro di musica;
obbligato in chiave, quest’ultimo, poichè si trattava di musica, per
l’appunto. E più obbligata ancora la contessa Galier di San Polo, che la
signora Livia voleva aver sempre ai fianchi, dando ai maligni buon
argomento a rinfrescare il paragone della luce e dell’ombra, con la
debita chiosa dell’ombra che serve stupendamente per dare maggior
risalto alla luce. Ma dopo tutto, quell’ombra sempre attaccata ai panni
della luminosa Zuliani, era una signora vera ed autentica, non ricca, ma
d’una nobiltà anteriore alla “Serrata del Gran Consiglio„, e faceva buon
effetto nel quadro, intonandolo: allegra, poi, salda alla celia,
chiacchierina a quel dio, era fatta a posta per tener viva la
conversazione, colmandone le lacune, smorzandone le asprezze.
Filippo Aldini, entrato nel palco per riverire la signora Livia, pensò
che la Galier non avrebbe tralasciato di parlargli dell’incontro di tre
giorni prima in capo alla contrada di Merceria. Ma c’erano altri
discorsi avviati, e la contessa non ebbe occasione di venire sul tema;
fors’anche le era passato di mente. Le cose andavano; erano tutti di
buon umore, quella sera, nel palco Zuliani, perfino la signora del
luogo; e quando l’Aldini prese congedo, un altro giorno era felicemente
sbarcato.
Ma bisognava anche fare una visita in casa; ed egli ci andò la sera
appresso, dopo l’ora del pranzo, come soleva, quando non c’era teatro.
Raimondo lo accolse a braccia aperte; la signora Livia, per contro, non
era di buon umore; parole poche, e muso lungo un palmo. Raimondo
fortunatamente parlava per due e rideva per quattro. Aveva ragione di
essere allegro; la mesata prometteva bene; la condizione delle borse era
eccellente in tutto il mondo civile; nessuna nube appariva
sull’orizzonte europeo. Di qui, prendendo le mosse, Raimondo scivolò
presto nella politica, che era il suo forte, o il suo debole, e passò in
rassegna tutti gli stati, continentali o insulari che fossero, dell’orbe
terracqueo. Filippo ascoltava, approvava, e secondava il ragionamento
dell’amico, mettendo qualche parola nei luoghi opportuni, perchè l’altro
avesse gusto a continuare. E non faceva niente di nuovo, poichè,
discorrendo coll’amico Zuliani, era sempre stato suo costume accomodarsi
alle battute. Ma quella eterna politica doveva annoiare maledettamente
la signora, che più d’una volta si alzò dal suo canapé, andando or di
qua or di là per la casa a dar ordini, a prender libri, o giornali di
mode, che distrattamente sfogliava.
— Non badare, sai, all’umore di mia moglie; — bisbigliò Raimondo
all’amico, appena ebbe il modo di dirgliene. — Tu la conosci. È un
angelo; ma quando ci ha i suoi nervi, poveretta, bisogna compatirla.
Giornate di scirocco, dice lei; il medico mi dà una zuppa di parole
greche da accapponare la pelle; ma poi, se Dio vuole, conchiude che son
cose da nulla. —
Filippo Aldini conosceva benissimo la signora Zuliani; non c’era bisogno
di dirgliene altro, nè di scusarla con lui. Ma fu molto felice quando
venne l’ora di andarsene. Raimondo, sempre ilare e verboso, lo
accompagnò fino in anticamera.
— Sai? — gli disse, quando furono là. — Viene il babbo.
— Il babbo! — ripetè Filippo. — Che babbo?
— Il signor Anselmo, perbacco. Che uomo mi sei divenuto, da non capire
alla prima? —
Filippo sorrise, e tentennò un pochino la testa.
— Tu pensi sempre al tuo sogno, Raimondo!
— Ma sì, e più che mai; tanto più che non è un sogno. Felice mortale, tu
sei nato vestito. Ti amano tutti; perfino la signora Eleonora, non sa
parlarmi più d’altro che di te. Quasi quasi è più innamorata lei di sua
figlia.
— Che cosa dici ora? Sua figlia....
— Eh, dico quel che si vede. La bella Margherita ti rende giustizia, e
la lodo.
— Ma che giustizia ha da rendermi?
— Sappiamo tutto, felice mortale, sappiamo tutto; anche la visita di
quattr’ore buone al Correr. —
Con queste parole Raimondo accomiatò finalmente l’amico.
— Ah! — pensava Filippo scendendo la scala del palazzo Orseolo. — La
gallina ha cantato. Ma infine, chi mi ha ficcato in questo ginepraio, se
non lui? Potevo io più liberarmene? —
Intanto una cosa lo maravigliava. Se la gallina aveva cantato, perchè
non era entrata la signora Livia a discorrergli delle sue visite
artistiche? E perchè non gliene aveva parlato in salotto l’amico, che
aspettava a dirgliene sull’uscio di casa? Questo, poi, gli pareva di
capirlo. La signora Livia non poteva soffrire le Cantelli; le aveva
invitate alla cena del capo d’anno, ma solamente per obbedienza al suo
signore e padrone. E questi, per compenso, le nominava il meno che
potesse davanti a sua moglie. Amabil ricambio di gentilezze coniugali! E
tanto meglio, del resto. Ma possibile che Raimondo, espansivo com’era,
non si fosse aperto con lei del disegno che si era messo in capo?
possibile che di punto in bianco fosse diventato un diplomatico di
quella forza? Se così era, come infatti appariva, non più Raimondo
bisognava chiamarlo, ma Guglielmo, Guglielmo il Taciturno.
Con queste “conclusioni estreme„ Filippo Aldini se ne andò in gondola
verso il rio di San Felice, nelle cui vicinanze abitava. Un po’ fuori di
mano, veramente, ma non troppo lontano dal corso Vittorio Emanuele;
tanto che quella cara matta della contessa Galier aveva detto una volta:
— Il conte Aldini ha scelto quel luogo remoto per farmi la corte;
perseveri! —
Sul corso Vittorio Emanuele si avviava il giorno appresso, tra il tocco
e le due, la signora Livia Zuliani. Era dunque guarita de’ suoi nervi?
Ma sì, lo aveva ben detto il medico; che erano disturbi passeggieri. Più
che nervi, del resto, potevano chiamarsi vapori; ed era certamente
effetto d’un residuo di vapori la voltata improvvisa della bionda
signora, che, invece di salire dalla contessa Galier, con mutato
consiglio ritornò sui proprii passi, e discesa al primo traghetto di
fianco al palazzo Sagredo, entrò in una gondola, dicendo al gondoliere:
— Riva degli Schiavoni, davanti all’albergo Danieli. — Che novità era
quella? Guarita di nervi, la signora Livia si sentiva anche guarita
della sua vecchia antipatia per le signore Cantelli? Buon cambiamento a
vista, e spontaneo, che avrebbe reso felice il suo Raimondo, se fosse
stato presente! Ed era proprio una cosa strana, da segnarla col carbon
bianco. Dacchè le signore Cantelli erano capitate a Venezia, la signora
Livia non aveva fatto se non una visita, in principio, e per obbligo di
convenienza. Ma certo ella sentiva ora, che alla loro cortesia di avere
accettato l’invito alla cena del capo d’anno dovesse seguire una visita
di ringraziamento.
Le signore Cantelli erano in casa, e l’accolsero a festa. La bionda
signora si ritrovava in uno dei suoi giorni di bellezza, vividi gli
occhi, di bel colore la carnagione; ed ella potè sentirsi abbastanza
soddisfatta di sè medesima, passando nell’anticamera davanti ad un’alta
specchiera, e non di quelle, Dio le confonda, che vi fanno la testa più
lunga o più larga del vero, e la faccia, poi, verde come la buccia d’un
cocomero.
Era già nel salotto qualcheduno in visita; Filippo Aldini, a farlo a
posta. Filippo Aldini, che seduto ad un tavolino nel vano di una
finestra, disegnava a memoria il ponte del Paradiso colla sua viottola
stretta nel fondo, e, gittata sovr’essa, in traverso, la bella cuspide
triangolare di marmo. La signorina Margherita si era tanto invaghita di
quel motivo architettonico, ci ritornava così spesso col pensiero e col
discorso, che il conte Aldini aveva creduto obbligo suo di fargliene un
piccolo disegno a matita, da restare come un ricordo della loro
passeggiata artistica per i calli di Venezia. La signora Eleonora non si
sentiva disposta ad uscire, quel giorno; tra perchè era un po’ stanca di
tante gite pedestri, e perchè aspettava il suo Federigo, che alle tre
dopo mezzogiorno era libero. Così avvenne che il conte Aldini, venuto ad
offrirsi per un’altra passeggiata, restasse all’albergo in dolce
prigionia, consolandone gli ozi, o giustificando una fermata che voleva
esser lunga, col lavorar di matita, sotto gli sguardi attenti della
signorina Cantelli. Margherita, che stava per l’appunto seduta accanto
al tavolino del disegnatore, fu la prima ad alzarsi per muovere incontro
alla signora Zuliani, che la ringraziò col più amabile sorriso e la
baciò sulle guance. Ugual sorte toccò naturalmente alla signora
Eleonora; dopo di che la bionda visitatrice si volse al conte Aldini,
che si era alzato a sua volta, facendo un rispettosissimo inchino.
— Ah, bene, casco tra amici! — esclamò la signora Livia, tutta ridente,
nell’atto di porgere a Filippo la bella mano inguantata.
Poi, volle vedere il disegno. Le era parso a tutta prima che il conte
Aldini lavorasse a fare il ritratto della signorina Cantelli, e la sua
curiosità non doveva esser poca, ignorando ella che l’Aldini, da lei
conosciuto come dilettante paesista, trattasse anche la figura in
grande. Ma no, niente ritratto; il disegno raffigurava un ponticello,
uno dei tanti che cavalcano i piccoli canali della città, con due
spigoli di case, e qualche saggio di scultura medievale; anticaglie,
vecchiumi, e mezzo anneriti dall’umidità, dalla mancanza di luce,
ch’ella non riusciva ad intendere come piacessero tanto agli artisti. I
palazzi sul Canal Grande, alla buon’ora!
— Grazioso! — diss’ella nondimeno, dopo aver osservato coll’occhialino
il disegno. — Grazioso tanto! E colle sue figurine alte un centimetro! —
Infatti, il disegnatore aveva animata la scena, mettendo sul ponte tre
figurine, accennate con pochi tratti di matita. Minuscole com’erano,
corrispondevano ai contorni di tre persone vere, le quali, essendo
passate per l’appunto di là alcuni giorni prima, ci si potevano ben
riconoscere. Ma forse non le poteva riconoscere ugualmente la signora
Livia, tuttochè s’aiutasse coll’occhialino; comunque fosse, non si fermò
a sminuzzolare un esame critico, che doveva esser breve e leggero.
— Continui il suo lavoro, prego; — diss’ella finalmente; — non voglio
interrompere.... —
E senza finire la frase, si allontanò, andando a sedersi presso la
signora Eleonora sul gran sofà che era accanto al camino. Laggiù tra le
due svisceratissime amiche (si vedevano infatti per la terza volta)
incominciò un lungo discorso, tessuto di tutte le cose vane che sanno
dirsi le donne, e con aria di prenderci un gusto matto. L’unica cosa
importante, per verità, fu l’accenno della signora Eleonora al suo
Federigo, che presto si sarebbe imbarcato per un viaggio intorno al
globo; dopo di che le signore Cantelli avrebbero levate le tende. Qui da
una parte la conclusione naturalissima che il soggiorno sulla Laguna era
stato un po’ lungo, e dall’altra la dichiarazione obbligata della
felicità che n’era toccata a Venezia. La regina dell’Adria parlava molto
amabilmente per le labbra della signora Zuliani. E batti tu che batto
io, alla maniera dei fabbri, le due signore si diedero l’illusione di
una gran tenerezza. Ah, se Raimondo fosse stato là in un angolo, o
dietro un uscio a sentirle!
Filippo Aldini stette ancora pochi minuti, per convenienza; poi, sempre
per convenienza, prese congedo.
— Lascio le signore ai loro discorsi; — diss’egli. — Noi uomini ci siam
sempre di troppo. —
Era seccato di quella visita, ma non voleva parere. Margherita capì
facilmente che con quella visita sopravvenuta, un uomo di garbo non
poteva star sempre là, e per quanto le dispiacesse la partenza di lui,
lo lasciò andare senza chiedergli se fosse davvero finito un disegno,
che in altre circostanze avrebbe potuto durare fino all’ora del pranzo.
Quanto alla signora Eleonora, la condizione sua e l’età le permettevano
di dar commiato all’Aldini con qualche parola cortese.
— La rivedremo presto, signor conte? — domandò ella a Filippo, nell’atto
di porgergli la mano.
— Sì, sarà mio dovere; — rispose egli, inchinandosi. —
E via, dopo lo _shake-hand_ indispensabile, che non è sempre una stretta
di mano.
— Un ottimo signore, e tanto garbato; — disse la signora Eleonora,
quando egli si fu allontanato.
— Sì, — concesse la signora Zuliani, — ha belle maniere. Ma già, —
soggiunse con un risolino malizioso, — i giovinotti del giorno d’oggi
son sempre così colle dame.
— Non sarebbe dunque sincero? — chiese Eleonora.
— Che dirle? Non saprei bene; — rispose la signora Zuliani. — Si parla
sui generali. Quanto a me, li ho tutti per gentilissimi.
— Ma qualche differenza si può far sempre, e alle volte si deve; — notò
la signora Eleonora. — Lo conosce bene, Lei, il conte Aldini; e da
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