Il ponte del paradiso: racconto - 10

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fatto qualche colpo di testa con le signore Cantelli? Ma in che modo? e
perchè? La signora Zuliani, egli l’aveva ben veduta la sera antecedente,
guarita affatto della sua emicrania, tutta gaia, felice, raggiante e
scintillante, tutta fiori e baccelli col suo Raimondo più caro che mai.
Ah, restasse ella sempre così! Anzi, fosse restata sempre così! Perchè
infine, considerando i suoi falli, Filippo Aldini poteva confessare a sè
stesso che erano gravi, ma non suoi. Si era trovato involto senza
pensarci, travolto nell’abisso, prima di vedere il pericolo. Ne scampava
ora, dopo tanti vani ma onesti tentativi? Lode al cielo, e dal profondo
dell’anima. Solo dalla sera antecedente, tra diademi sfavillanti e
duetti maritali, il povero Aldini incominciava a ricogliere il fiato.
E intanto, gli premeva di aver notizie più chiare intorno alla salute di
Margherita. Ne sentiva il bisogno, insieme con l’obbligo; cortesia
voleva ch’egli andasse, per chieder di lei, foss’anche ogni giorno, al
Danieli. Andando di mattina, e perciò senza mostrar desiderio di
fermarsi, non correva pericolo di dar noia, oltre quella che è comandata
dalle buone creanze, e che perciò gli uni debbono dare, come gli altri
accettare. A che ora, la visita? Non troppo presto, certamente; ma
neanche troppo tardi. Alle dieci? Sì, e forse alcuni minuti dopo.
Dunque, alle dieci sarebbe partito da casa, aspettando per l’appunto nel
suo studio che le dieci scoccassero. Era già vestito di tutto punto per
uscire, col cappello e la mazza tra mani, ad ogni tanto guardando le
lancette dell’orologio sospeso alla parete, davanti alla sua scrivania.
Ma ecco, che è, che non è, un improvviso rumore, come di chiave che giri
in una serratura, di là da un uscio a vetri opachi, nel fondo della
parete a sinistra. Il quartierino di Filippo aveva due ingressi; il
nobile e da tutti conosciuto come quello di casa sua, e un altro di
minor conto, quasi uscio per la gente di servizio, che metteva ad una
scaletta, la quale riusciva al cortile di un vicino edifizio. Da quel
cortile, per una scala a collo, cioè fiancheggiata per una parte sola da
un muro, per l’altra da una balaustrata interrotta qua e là da colonne,
e tutta sormontata da una tettoia risalente, si ascendeva all’abitazione
della contessa Galier di San Polo. Si è già detto che la contessa e
l’Aldini erano vicini di casa, abitando in due palazzi contigui da
tergo.
Lo scricchiolio dell’uscio segreto fece sobbalzare Filippo Aldini sulla
scranna. Tutto poteva egli aspettarsi quel giorno, fuorchè la visita che
quel rumore annunziava. Avrebbe voluto essere in tempo a sbiettare di
là, riuscire in anticamera e trafugarsi per lo scalone, come uno che non
s’aspettasse di aver gente dalla scaletta. Ma non era più in tempo.
L’uscio di servizio, per chiamarlo una volta così, appena aperto si era
richiuso; si apriva in quella vece la vetrata che metteva allo studio
dell’Aldini, e nel vano appariva la testa di Medusa, anzi tutta la
persona di lei. Che se quella non era proprio la Gòrgone antica, dai bei
capelli d’oro tramutati per l’ira di Minerva in orribili serpenti,
pareva essere ancora investita del triste privilegio di tramutare in
pietra chiunque si fosse trovato sotto il sinistro baleno de’ suoi occhi
scorrucciati.
Ed era rimasto come impietrato, l’Aldini, in quella che Medusa
s’inoltrava nella stanza, lenta nel passo e quasi noncurante in vista,
ma torbido lo sguardo e pieno di oscure minaccie, bianca nel viso come
una persona morta, resa tanto più bianca all’aspetto, per il nero della
gonna e della mantellina, come per il nero del cappellino di velluto e
dei larghi nastri, che scendevano lungo le guance, per unirsi a cappio
sotto il mento, nascondendole il collo.
— Livia! — mormorò l’Aldini, allibito.
— Sì, Livia. Miracolo! Sapete ancora il mio nome? — diss’ella, nell’atto
che si slacciava il cappellino, per gittarlo sopra uno scaffale.
— Che follia! — riprese egli. — Se vi hanno veduta....
— Non sarà stata la prima volta; — riprese ella, accostandosi. — Tu eri
per uscire, non è vero? Deponi il tuo cappello, e ragioniamo. A
proposito di follie, che cosa diremo della tua, che da due settimane mi
annoia? Spero bene che sarà stato uno scherzo. Brutto scherzo, per
altro; e sono venuta a dirti che è tempo di finirlo. —
Filippo era stato lì a capo chino, come, in un’ ora di temporale, il
viandante che aspetta il passar d’una raffica.
— Raimondo, — si provò allora a rispondere, — vi avrà pur detto....
Ma la signora non gli lasciò terminare la frase.
— Raimondo, — sentenziò ella, — è uno sciocco.
— Dite un uomo di cuore. Sì, vi ripeto, un uomo di cuore; e non lo
riconosco tale da oggi. Quante volte, e da anni, non ve l’ho io
ripetuto?
— Sì, — rispose ella, con un risolino sardonico, — molte volte,
moltissime volte, seguitando a tradire la sua cieca fede nella tua
amicizia. —
A questo ragionamento si potevano rispondere assai cose. Ma erano di
quelle che un uomo, se è cavaliere, non rinfaccia mai ad una donna.
— E n’ebbi sempre rimorso; — replicò in quella vece, umiliato. — L’ho
sempre sentito acutissimo, e voi lo sapete. Noi ci perdiamo, vi dicevo
ancora, vi ricordate?
— E siamo sempre qui sani e salvi; — conchiuse la signora, sviando quel
molesto discorso, più che con la parola, col gesto. — Ma tu non farai
questo matrimonio; tu gli dirai che è impossibile.
— Impossibile! Ora? Ma se egli ha tutto ideato, tutto predisposto e
concertato a suo modo! Chi mi ha presentato, senza chiedermi se la cosa
mi fosse gradita? Chi mi ha cacciato avanti, accompagnatore in servizio,
come un altro signor Brizzi, a disposizione delle dame? E potevo io
credere, rassegnandomi all’ufficio, che ciò mi dovesse condurre a questo
punto? C’è stato, vedete, c’è stato un momento che io ho avuto un
sospetto; il sospetto che egli dubitasse di me, e mi volesse imporre un
vincolo, per la sua quiete. Sì, l’ho creduto accorto a tal segno, nella
notte del capo d’anno, quando egli mi stringeva a quel modo col suo
brindisi, e voi, anche voi, vi siete messa dalla sua parte. Forse, dissi
allora tra me, anch’ella ha capito; ha capito ciò che assai prima era
ben naturale di capire, di prevedere; ed ella mi dà il buon consiglio.
Ora egli incalza più che mai; non ho più difesa possibile. Non so, Dio
mio.... non so che fare; la mia testa si perde. Domandatemi ogni cosa,
fuorchè d’oppormi alla volontà di Raimondo; io non ho questo coraggio. —
La signora Livia era stata ad ascoltare quella lunga difesa, tentennando
il capo, battendo le labbra, e sorridendo sarcasticamente al povero
argomento che Filippo attingeva da lei, da una sua vana parola.
— E sei tu, tu, che ho creduto un uomo? — ribattè, com’egli ebbe finito.
— A voi dovrebbe esser proibito di amare, e di pretendere che si
credesse alle vostre parole. Voi siete mediocri. Bastate a formare la
felicità di una fanciulla, o ad appagare la sua curiosità, per quel
breve spazio di tempo, che può essere un anno, come un giorno. Poi
sopravviene da una parte e dall’altra la noia. Voi agli affari, essa
alle galanterie. Questo avverrà anche per te, Filippo Aldini, te lo
pronostico io, io che non ho amato così. —
Anche qui le si poteva rispondere di trionfo: e voi, bella, che vi
vantate di amare altrimenti, che cosa avete fatto poi di diverso? Ma non
era Filippo Aldini, l’uomo che potesse rispondere a quel modo.
— Tutto è possibile! — diss’egli, pacato; — ed io, uomo mediocre, non
meriterò altro, davvero. Ma la nostra questione non è in ciò che io
possa meritare; è in ciò ch’io non posso fare per compiacervi.
Pensateci, Livia, siate buona, ed ascoltate le mie ragioni, vi
supplico.... —
Ma ella non era disposta ad ascoltar nulla di nulla. Aveva presa dal
piano della scrivania una lunga stecca d’avorio, e batteva con
quell’arnese a gran colpi sull’orlo del mobile, davanti al quale Filippo
era rimasto seduto.
— Oh, a proposito, — gridò ella, mozzandogli in bocca le parole
supplichevoli, — perchè non mi dai del tu? —
Non era la risposta ch’egli s’aspettava da lei, pregandola con tanta
effusione di cuore. Ma bisognava adattarsi al suo modo di ragionare,
seguirla ne’ suoi voli capricciosi.
— Perchè è male; — riprese. — Debbo io ricordarvi sempre il passato? Una
volta, davanti a lui, vi accadde di dirmi: sai!
— È vero; e ne fui tanto felice!
— Egli poteva sentirvi.
— Mi avesse pure sentita! E mi sentisse ancora!
— Egli vi ama; lo avete veduto iersera. Ed io che già speravo, nel
vedervi così buona con lui!
— Ah sì? — gridò ella con accento impresso di profonda ironia. — E ti
piaceva molto? E tornando a casa col cuore sollevato da un peso enorme,
ti sei addormentato in una gran sicurezza? —
Colpiva giusto, fors’anche senza saperlo. Filippo evitò di rispondere.
— Infine, — ripigliò, — è bene ch’egli vi ami sempre così.
— E mi pesa, capisci? — ribattè ella, sdegnosa, esaltandosi a grado a
grado delle sue stesse parole. — Mi pesa, col suo amore così cieco; mi
pesa, colla sua serenità così sciocca. Alle volte io dico tra me: se
indovinasse il vero, mio Dio! se mi uccidesse, in un impeto di rabbia
feroce, quanto meglio farebbe per sè, come per tutti! Ma tu non sposerai
quella puppattola. Le parlerò io, se è ciò che ti turba.
— Oh, voi non farete ciò! Che colpa ci ha lei? — gridò Filippo,
atterrito.
— Che colpa? Quella di crederti, essa, che non ha neanche le tue
ragioni, i tuoi pretesti di uomo mediocre. Del resto, ho già
incominciato. Sì, a sua madre, senza tanti riguardi, a faccia a faccia,
e a lei che ascoltava dietro un uscio, quella cara puppattola, ho detto
chiaro e tondo che cosa siano e che cosa valgano certi vagheggini dei
nostri giorni. —
Era ciò che Filippo aveva sospettato. Ma poichè il male era fatto, egli
trovò ancora la forza di padroneggiarsi, nascondendo il suo turbamento.
— Non vorrò dolermene io, per me stesso; — notò, dopo un istante di
pausa. — Ma se egli viene a saperlo?
— Tu hai paura di lui?
— Rimorso, ve l’ho già detto.
— E dovevi dirlo prima, assai prima, cacciandomi da te, bel conte
avvezzo ai trionfi, quando quest’altra vittima ti cadeva nelle braccia.
Vorresti dirmi, — soggiunse ella, cogliendo e interpetrando a suo modo
un gesto di Filippo, — vorresti dirmi che lo avevi tentato più volte; e
non l’osi. Sei anche vile con me. Ma te lo confesserò io, bel conte
delle vittorie, io che avrò tutto il coraggio che ti manca. Eppure,
anche allora l’hai difesa male, la tua virtù cavalleresca. Ed ora, forte
guerriero, ed ora, impavido cavaliere, temi allo stormir di ogni foglia;
hai paura; hai paura di lui. —
Filippo Aldini torse la bocca, levando la testa con atto sdegnoso, e fu
l’unica risposta che diede. Ma ella ripigliò, incalzando più forte.
— Se non hai paura di lui, crederò di te quello che non avrei creduto
mai; che tu ami quella donna. —
Filippo era sul punto di rispondere un sì tanto fatto; e succedesse un
po’ quel che voleva succedere. Ma pensò ancora, da cavaliere, e si
trattenne. Se ci son cose che non si rinfacciano ad una donna, ci sono
anche quelle che non si confessano a lei.
— Io! ma che?... — disse in quella vece appoggiando i suoi monosillabi
con un sorriso ed un gesto che poteva parer di diniego.
— Ma sì, l’ami; — replicò la bella implacabile. — E come no?
Cinquecentomila lire di dote, sono una bellezza trionfale. Aggiungiamo
un milione e duecento cinquantamila lire di eredità, facendo calcoli
sull’asse del vecchio al giorno d’oggi. Eh, si son fatti i conti, mio
caro; si sanno fare, anche senza bisogno di cavarne nulla. Oggi come
oggi, il banchiere ha sette milioni di sostanza, messi fuori di giuoco.
E tu, bel conte, dai il tuo blasone in baratto. Lo vendi bene, non c’è
che dire, lo vendi bene. —
E diede in uno scoppio di risa, lasciandosi andare mezzo arrovesciata
contro la spalliera del divano che correva lungo la parete, poco lontano
da lui.
Filippo era rimasto fieramente colpito da quel terribile assalto. Non
proferì parola; ma ben si vedeva all’aspetto che molte cose gli
bollivano dentro. Si alzò dalla scranna, e misurò due volte a passi
concitati la stanza, che era divenuta per lui una prigione, una camera
di tortura.
— Ebbene, — riprese ella, premendo più forte, quasi volesse mandare più
addentro la punta che lo aveva tanto irritato, — dimmi che non è vero,
perchè io rida dell’altro. Oh, bello bello, il tuo blasone rimesso a
nuovo! —
Filippo Aldini si piantò davanti a lei, severo, accigliato, com’ella non
lo aveva mai visto.
— Signora, — incominciò egli, lentamente, meditando le parole, — voi
toccate un tasto, che rende cattivo suono. Le male cose che mi gettate
in viso come un insulto....
— Ah, bene! — interruppe la signora. — Riscaldati una volta!
— Le male cose che mi gettate in viso come un insulto sanguinoso, —
riprese Filippo con accento solenne, — non hanno virtù di commuovermi.
Paura, mi avevate già detto, paura di lui! Quella che voi chiamaste
paura, è vergogna, vergogna di apparire a quell’uomo leale un traditore
dell’amicizia; quanto alla paura, ho ancor da sapere dove ella stia di
casa. E dite lo stesso di altre brutte ragioni, che la mia coscienza di
gentiluomo sdegnosamente respinge, e che la mia mano ricaccerebbe in
gola a chi ardisse solamente accennarle. —
Lampeggiavano in quel momento negli occhi di Filippo molte imagini di
vecchi Aldini, ugualmente accigliati, ugualmente severi, duri soldati di
quindici o venti generazioni, col sentimento dell’onore sulla fronte, e
la mano fieramente aggravata sugli elsi della spada.
Le vide Livia; anche confusamente, non poteva non vederle. Ma anche in
lei soverchiava lo sdegno, infiammandole il sangue.
— Ricacciatele, dunque! — proruppe. — Avanti, terribil guerriero!
— Parla una donna; — rispose Filippo, con accento mutato; — e dirò in
quella vece alla donna: Tutte le male cose che mi avete gettate in viso,
ho voluto pensarle ancor io; e come le ho pensate, esagerandole molto,
le ho dette; le ho dette, nella speranza di vincere con un eccesso di
scrupoli la inconcepibile ostinazione di lui. Niente è servito. Tu non
sei ricco, mi ha egli risposto; ma intanto ciò che possiedi basta a
fronteggiare i due terzi della dote; meglio invigilato, amministrato a
dovere da te, basterebbe a fronteggiarla tutta. Quella gran dote,
finalmente, sarà investita in terreni, e tu non ne toccherai un
centesimo. Non ti basta ancora, di averne le mani nette? Puoi chiedere
che sia diminuita, lasciando che la sposa si costituisca il rimanente in
sopraddote. Mi parli di quello che verrà poi? Il poi è lontano, e
speriamo, da galantuomini, che sia lontanissimo. E non risguarda te, il
poi; sarà della donna, non tuo. Questo, — soggiunse Filippo, — lo sapevo
bene ancor io; non sapevo, piuttosto, non ho cercato di sapere come e
fin dove fosse ricco il signor Cantelli, od altri al mondo, mai!
— Così, dunque, ti sei volentieri acquietato? — replicò la signora. — Ci
s’acquieta bene, quando c’è l’interesse, non è vero?
— Non vi risponderò più; — disse Filippo.
— Ah, il gentiluomo s’inalbera! Bada, conte Aldini, mercante di blasoni,
ciò che io posso fare ti costerebbe assai caro. Ancora una volta,
ricuserai la puppattola?
— No; — rispose egli inflessibile.
— Guai a te, conte Aldini! — ruggì, più che non dicesse, la donna
inviperita. — T’inganni, se pensi ch’io possa lasciarla passare così;
t’inganni, t’inganni.
— E non lo penserò; — diss’egli di rimando. — Ma infine, perchè non
metterlo prima, il vostro gran veto? Aspettate ora? —
Ella rizzò il capo, saettando Filippo d’uno sguardo viperino.
— Aspetto ora! aspetto ora! — ripetè con accento di profonda amarezza. —
E quando potevo farlo io, prima d’ora? Con la tua casa vietata ai
profani? Non l’avevi tu dichiarata locanda, ad uso dei viaggiatori....
di Verona? Cari, quei due viaggiatori, che nessuno ha mai visti, nè per
via, nè a teatro, mentre tu eri visibile, bel conte, con due
viaggiatrici.... di Milano! Ti hanno fatto buon giuoco, i due ospiti! E
così ti fossero durati di più! Ma avevano una breve licenza, ed hai
dovuto lasciarli partire; che peccato! T’intendo, la trovata non era poi
altro che una continuazione di tanti vecchi artifizi. Da gran tempo ti
eri messo in mente di guarirmi con la tua freddezza, come prima coi tuoi
continui timori, coi tuoi eterni rimorsi. Ma io, questa volta,
incalzando il pericolo, volevo vedere fin dove saresti arrivato. Ah, mi
hai fatto soffrire, soffrir tanto, tanto! Finchè il mio cervello ha
potuto reggere, ho contenuto il mio cuore, che ad ogni momento era lì
per ispezzarsi. Ora non più, mi ribello. Vedi, Filippo, mia madre.... è
morta pazza. E ci sono momenti che temo ancor io d’impazzire. —
E cadde riversa sul divano, dando in un pianto dirotto. Filippo Aldini,
a tutta prima più irritato che scosso, si era sentito scorrere un
brivido per le ossa all’accenno che Livia faceva della morte di sua
madre; un accenno che a lui giungeva nuovo, e che gli schiudeva dinanzi
agli occhi un abisso doloroso. Peggio, in quel punto, il cadere di lei,
con quel pianto disperato, misto a singhiozzi ripetuti, che parevano
annunziare alcunchè di più grave. Il pianto era infatti convulso, il
singhiozzo spasmodico.
— Calma, vi prego! — gridò, curvandosi su lei. — Rialzatevi, Livia;
abbiate forza, vi supplico! Io non so, non posso far nulla, se voi vi
abbandonate così; non posso neanche chiamare in soccorso i vicini.
Animo, via, un piccolo sforzo! —
Ella tentò di sollevarsi; ma fu mestieri aiutarla, prendendola per la
vita.
— Dirai di no? — chiese ella, tra i singhiozzi, aggrappandosi a lui.
— Mio Dio! che cosa domandate? Lo sapete pure che io non posso oppormi
ai suoi desiderii, senza correr pericolo di nuocere a voi.
— A me? Che importa, se già tu stesso mi uccidi, obbedendogli? Dirai di
no?
— Tutto quello che sarà in poter mio, lo farò.... lo tenterò,
certamente; — rispose Filippo, temendo sempre ch’ella fosse per
ricadergli svenuta tra le braccia. — Gli parlerò ancora, e più forte
ch’io non abbia mai fatto, se pure è possibile ch’io non gli abbia detto
abbastanza. Questo vi posso promettere, e questo manterrò.
— Parola di gentiluomo?
— Veramente, — mormorò egli, — non dovrei esser più creduto tale.
— Oh, perdonami; ero pazza. Ma vedi, Filippo mio, soffro tanto, che non
son più capace di padroneggiarmi; e parla la lingua, ma il pensiero non
c’è. Perdonami, perdonami! Non è vero che nel tuo cuore mi hai già
perdonato quelle brutte, brutte parole?
— Ma sì, senza dubbio; — rispose Filippo, sempre cercando di chetarla. —
Se voi mi promettete di esser più forte, io perdono, dimentico ogni più
aspro giudizio. So anche bene di non meritarlo, — soggiunse. — Ma voi,
Livia, mi ascolterete una volta. È un gran male ciò che è accaduto, un
gran male; dobbiamo dimenticare anche quello, se pure avverrà che non
possiamo averne perdono dalla nostra coscienza.
— Come vorrai.... tutto ciò che vorrai.... accetto ogni patto più
crudele. Ne morirò? Tanto meglio; ma almeno contenta, se tu avrai detto
di no. —
Riuscendo finalmente a sollevarla dal divano Filippo aveva data di
sbieco una guardata all’orologio.
— Dio mio! — esclamò. — Già le undici! È ora che andiate. Se egli,
ritornando, non vi trovasse in casa?...
— Ebbene, che importa? Già altre volte è accaduto. Uscita per qualche
piccola compera, ho perduto un po’ di tempo; ecco tutto. Ma vado, sì,
vado; — ripigliò, notando l’ansietà di Filippo, a cui quelle ragioni non
potevano bastare. — Tu per altro, mi giuri....
— Tutto quello che un gentiluomo può giurare, al punto in cui sono le
cose; — diss’egli, facendo un gesto disperato. — Parlerò, parlerò come
volete, e sia poi ciò che vuol essere.
— Sì, resisti, resisti, ed egli cederà. Se tu risolutamente non vuoi,
chi ti può sforzare? Non sei già una vittima ignara, da potersi condurre
così facilmente al sacrifizio! Resisti, resisti, Filippo; te ne supplico
per quell’amore, che non hai sempre ricusato, e che conserva nei
ricordi, almeno nei ricordi, i suoi sacri diritti. —
Filippo fremeva, ribellandosi in cuor suo ad una logica pazza, che non
voleva darsi per vinta. Ma bisognava ad ogni costo calmar quella donna,
ad ogni costo persuaderla, incuorarla a partire.
— Non è vero? — incalzava ella frattanto. — Cercherai di liberarti?
— Sì, sì, e non mi par più tanto difficile; — rispose Filippo,
atteggiando le labbra ad un mesto sorriso, — se penso che tu hai parlato
di me.... a quelle signore, e in modo certamente tale da disingannarle
sul conto mio. —
Ahi, non da quel lato poteva ella aver sicurezza, dopo che alla signora
Eleonora aveva parlato Raimondo.
— Non ti fidar troppo di loro; — diss’ella. — Da te, Filippo, da te
aspetto un nobile atto di forza. Non mi negare quest’ultima prova di
amicizia. Io rinunzierò a te, se questo è il voler tuo....
— Il dovere; — fu pronto a corregger Filippo: — il dovere.
— Sia, diciamo il dovere; ma a questo dovere che tu m’imponi,
corrisponda quello che ho bene il diritto di pretender da te. Resisti,
resisti! —
Colla voce e coi gesti Filippo prometteva ogni cosa. E l’aiutava
frattanto a rimettersi il cappellino in testa, avendolo preso egli
stesso dallo scaffale, e la mantellina sulle spalle, andando a
raccoglierla, sulla estremità del divano, dove era stata gittata da lei.
Ciò fatto, e vedendo lei ancor troppo agitata, era andato ad aprire la
finestra, perchè un soffio d’aria fresca aiutasse a calmarla.
— Mi sento meglio, non dubitare; — diss’ella. — Vado, non perdo più
tempo, se ciò ti dispiace. Ma tu resisterai; ho la tua promessa,
Filippo; ho la tua parola di gentiluomo. Vado, sì, vado.... ma non così
freddamente, come se fossimo nemici.... come se tu non mi avessi
perdonato. —
E gli gittò le braccia al collo e lo baciò, in un impeto di passione
disperata. Solo allora si spiccò da lui, e accompagnata fino all’uscio
segreto, finalmente disparve. —
Era tempo; Filippo Aldini non reggeva più a quello strazio di tutte le
fibre, del cervello e del cuore. Forsennato, furente contro sè stesso,
richiuse l’uscio, e ritornò nel suo studio; ma non poteva rimanere là
dentro, dove gli era troppo presente l’imagine di quella donna
terribile, a cui si resisteva così male, poichè ella non intendeva
ragione. Ed egli aveva promesso, per liberarsi da quella oppressione,
aveva promesso di riparlare a Raimondo. Che cosa gli avrebbe ancor
detto, dopo essersi lasciato persuadere una volta, dopo avergli
confessato perfino l’amor suo invincibile per Margherita? Ah si, quello
era proprio il momento di pensare a ciò che avrebbe potuto dire di
nuovo, o ripetere di vecchio!
Infine, non ci avrebbe pensato affatto! si sarebbe buttato a mare,
aspettando il maroso che lo cacciasse sotto, una volta per sempre.
Sospettasse pure, quell’altro, indovinasse pure: passata la vergogna,
Filippo Aldini non sentiva paura.
Ridottosi frattanto nella sua camera, si era gittato bocconi sul letto,
piangendo e ruggendo. Gli bruciavano le labbra; quel bacio che aveva
ricevuto, e forse reso, gli pareva un sacrilegio. Rimorsi nuovi, da
aggiungere ai vecchi! E il suo bel sogno svanito, e Margherita, la dolce
Margherita, perduta per sempre! Perchè oramai il dado era tratto; doveva
resistere, lo aveva promesso. Aspra punizione del destino! Ma egli
l’aveva pur meritata.


XII.

A caso disperato.

La signora Zuliani giunse al palazzo Orseolo prima che capitasse
Raimondo per far colazione. In verità, quell’Aldini era un grande
spericolone; ma non faceva poi niente di nuovo, quel giorno; era stato
sempre così, se non peggio. Gli si era bene imposta lei, in un momento
di follia; lo aveva involto davvero, e stravolto, non vedendo, non
considerando più nulla, attratta da un fascino arcano verso quell’uomo,
che tutti decantavano, che tutti alzavano in palma di mano, come un
perfetto cavaliere, per cui tante belle sospiravano, per cui più d’una
aveva perduta la pace del cuore e quella dell’anima. E quel don
Giovanni, inconsapevole della sua forza, si era dimostrato così discreto
con lei, timido come un ragazzo, tutto scrupoli, tutto riguardi,
volenteroso dispensatore di quei savi e prudenti consigli, che non
sogliono essere il fatto degli uomini, specie dei fortunati in amore.
Livia ci pensava spesso, a quei cominciamenti strani della loro
conoscenza, non potendo dissimularsi di essere stata lei la grande
colpevole. Che cosa doveva egli fare, per trattenerla sull’orlo
dell’abisso, più di quello che aveva fatto, fino a parerne ridicolo?
Amandola, per altro, che non sapeva negarlo; ed anzi c’insisteva tanto
più volentieri, quanto più si mostrava disposto a resistere. Questo,
almeno, a lei pareva evidente, chiaro come la luce del sole; e mettiamo
pure che le piacesse esagerare la forza di un sentimento, in cui
potevano aver parte la delicatezza dell’animo e la cortesia dei modi
signorili.
Quanto agli scrupoli cavallereschi, onde i timori e i rimorsi continui,
ella bene intendeva come fossero effetto necessario della grande
amicizia tra lui e Raimondo. Ah, quel Raimondo, così infatuato del conte
Aldini, non era stato egli la prima cagione del male? Dove l’uomo
s’infatua, la donna s’innamora; ecco il guaio. Così innamorata, e forse
più nella fantasia che non fosse nel cuore, quanto aveva ella sofferto
di quegli scrupoli, di quei timori, di quei rimorsi, che ella non
conosceva, pur dovendo fingere di sentirli con lui! Ed egli voleva
ricondurla ad ogni costo sulla via della ragione, e non riusciva ad
altro che ad irritarne lo spirito. Troncare, finire, ascoltare la voce
del dovere; come si fa, quando l’anima è piena del suo bel sogno, e la
passione trabocca? Pure, in gran parte, aveva dovuto cedere. Si vedevano
di rado, e quasi alla sfuggita; Raimondo, frattanto, parlava sempre di
voler ammogliare Filippo. Anche quello ci voleva! Finchè erano discorsi
in aria, pazienza; si poteva sorriderne, quantunque a denti stretti.
Filippo, dal canto suo, si era sempre valorosamente difeso. Ma allora
non si vedeva il nemico alle porte: ora il pericolo appariva vicino,
imminente, ed ella lo aveva sentito senz’altro, al primo comparire della
graziosa puppattola. Così la chiamava, anche tralasciando l’epiteto;
così chiamava tutte le fanciulle di bella presenza, dalle ricche
capigliature, dalle guance vermiglie, dai grandi occhi incantati, ancora
un po’ dure negli atti, senza languori, senza tenerezze, ma forti della
loro fiorente e promettente giovinezza. Ah, quella puppattola, graziosa
sì e no, ma innegabilmente troppo ricca, faceva ben soffrire la signora
Zuliani nel profondo dell’anima, dove s’annida quella triste miscela
d’orgoglio e di vanità, che è il nostro amor proprio. Ed era giunta a
questo: rinunziar lei a Filippo, purchè egli rinunziasse a Margherita.
Su questo patto si era ostinata; egli avrebbe resistito con nuovi
argomenti alla idea malaugurata di Raimondo; ella si sarebbe rassegnata
a non veder più Filippo, ridiventato in istile di cerimonia il signor
conte Aldini, a non vederlo più, se non qualche volta, a punti di luna,
nel suo salotto, o nel suo palco a teatro. Fino a quando così? Fino a
quando si potesse durare. Tante cose si promettono, colla speranza di
non doverle poi mantenere!
Raimondo Zuliani giungeva a casa, secondo l’uso, di buonissimo umore. Si
era a tutta prima turbato, vedendo la sua Livia un po’ pallida e
abbattuta nell’aspetto; ma pensò che erano i soliti vapori, frequenti a
dir vero, ma brevi, passati i quali la strana creatura ritornava più
fresca e fiorente che mai. Strano uomo anche lui, con tutte le virtù,
con tutti i doni dello spirito, meno la perspicacia nelle cose più
vicine e più intime. Ma questa qualità non va mai senza un certo spirito
diffidente; e può questo allignare dov’è rigogliosa la fede? Raimondo
aveva una fede robusta in ogni cosa, fede in lei, fede nell’amico, fede
in sè stesso. Questa, poi, era principio e cagione di tutte le altre.
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