Il ponte del paradiso: racconto - 05

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che saziare l’avidità molteplice del suo intelletto, passando così
facilmente da un genere all’altro. I marmi, a dir vero, la lasciarono un
po’ fredda, essendo piuttosto scarsi di numero e di pregio. Diede
tuttavia un pensiero a Marco Vipsanio Agrippa, se proprio era lui quel
colosso venuto al Correr dalle case dei Grimani, come ai Grimani dagli
scavi a tergo del Panteon di Roma. Ammirò poi come saggio di precoce
valentìa, due canestri di frutta, che Antonio Canova quattordicenne
aveva scolpiti pel nobile Giovanni Falier. Tra i dipinti la colpì il
ritratto di Cesare Borgia, opera di Leonardo da Vinci; una figura
storica che farà sempre pensare, come e quanto farà sempre fremere. Ma
più grande maraviglia le cagionò un gran disegno a matita nera, di Paolo
Veronese, rappresentante il convito del Nazareno in casa di Simeone, con
la Maddalena pentita ai piedi del Redentore, e Giuda che balza dalla
seggiola in atto di rimproverare alla donna quell’eccesso di pietà, o
quell’abuso di unguento. Era un bozzetto, e Margherita ricordò di aver
contemplato il quadro a Parigi.
— Certo; — disse Filippo. — Paolo Veronese lo aveva dipinto qui, pel
refettorio dei frati Serviti. Ma poi il Senato lo mandò in presente a
Luigi XIV; perciò Ella ha veduto quel quadro nel Louvre.
— E qui, — ripigliò Margherita, — vediamo il capolavoro al suo nascere.
In questo modo comprendiamo meglio il quadro. Tra l’idea e l’esecuzione
c’è quasi sempre un grande intervallo, tutto seminato d’incertezze, di
pentimenti, di aggiunte, di variazioni, per cui la composizione finale
non corrisponde più all’idea primitiva. Qui invece è bello veder l’idea
già matura, fin dal suo primo apparire; e ci guadagna il pittore,
lasciandoci intendere la natura del suo genio. Non crede, signor conte,
che fosse un genio, il Veronese?
— Lo credo; — rispose Filippo, mettendosi volentieri all’unisono con la
bella ragionatrice; — se non per la idealità, certo per la varietà de’
suoi tipi. È un pittore che ha composto mirabilmente le scene più vaste
e più complesse, facendo correre molt’aria e molta luce intorno ad un
gran numero di figure, tutte diversamente atteggiate, e senz’ombra di
sforzo. Ricorda, signorina, le Nozze di Cana, che maraviglia? Quelle
centinaia di personaggi d’ogni razza e d’ogni provenienza, si occupano
ben poco del convitato principale e del miracolo ch’egli sarà costretto
a fare per loro soddisfazione; ma che importa? La nota dominante è
l’allegria della festa: l’allegria basterà dunque a collegare, a
stringere in una tante espressioni svariate; e finalmente la vita umana
non sarà stata mai rappresentata così vera, così evidente, nella
pienezza delle sue forze, nella molteplicità delle sue espansioni. Il
buon Paolo Caliari ha sentito il grande meglio d’ogni altro. Ma anche
nel piccolo può rivelarsi l’ingegno. Veda i quadri del Longhi. —
La signorina Margherita fu ben contenta di vederli, e di esaminarli
attentamente, provandone alla bella prima un gusto matto. Pietro Longhi,
un pittore del Settecento, conosciuto quasi esclusivamente a Venezia,
perchè ivi soltanto si poteva studiarlo, figurava egregiamente nel museo
Correr con quattordici tele. Veneziano nell’anima, originale nella
scelta dei soggetti, bizzarro nella composizione, arguto nei
raccostamene impensati dei tipi, gentile nel tocco, meritava davvero di
trattener l’attenzione. Come il famoso Canaletto per le sue architetture
e per le vedute dei punti più pittoreschi di Venezia, il Longhi suo
contemporaneo, in graziose scene di mascherate, di conversazioni
signorili e di adunate popolari, aveva espressa la vita della sua città
in tutti gli aspetti. I nobili del tempo si contendevano quelle sue
tele, poche delle quali erano più alte d’un metro e più larghe di due,
mentre il maggior numero andavano poco oltre la metà delle accennate
misure, e talune scendevano anche al disotto. Ma in così piccolo spazio
quanta evidenza di rappresentazione, quanta potenza di vita! E non senza
una leggera intenzione di satira; quale almeno si poteva intendere ai
giorni suoi, ch’erano pur quelli del Goldoni e del Parini, e quanta se
ne poteva tollerare nella società un po’ frolla del Settecento, ma fine,
delicata, tutta garbo e misura.
Tra i quadri del Longhi attirava subito lo sguardo una viva
rappresentazione del Ridotto, con quella sala piena di gente in
maschera, tutta intenta ai suoi sollazzi, ai suoi piccoli intrighi e
ripeschi. La galanteria dominava; ma la passione del giuoco non poteva
mancare. E appunto da un lato si vedeva la tavola del faraone, il gran
giuoco del secolo, che accomunava intorno ad un tappeto verde stimati
patrizii e avventurieri d’ogni risma, provati gentiluomini e furfanti di
tre cotte, bellamente aiutando a questa miscela l’uso della bautta e
della maschera. La bautta, si sa, era un mantello con rocchetto e
cappuccio, abbastanza somigliante al domino delle mascherate moderne. La
maschera, poi, era di due forme; maschera propriamente detta, intiera, o
tale in apparenza per la giunta del pizzo nero che scendeva a coprire la
bocca ed il mento; mezza maschera senz’altro, detta anche morettina, e
ordinariamente portata dal sesso gentile, che non voleva nascondere
tutte in una volta le grazie allettatrici del viso.
Nella tela del Longhi, un nobile a faccia scoperta, seduto dietro la
tavola, teneva il banco; davanti a lui un cavaliere mascherato puntava.
Nel banchiere, ricorrendo col pensiero alle memorie del tempo, era
lecito di raffigurare il conte Canani, famoso tenitore di giuochi, e nel
puntatore un cavaliere d’industria non meno famoso di lui, e per troppe
altre ragioni, mostro di mariolerìa, d’impudenza e d’ingegno. Ci pensò
per l’appunto l’Aldini, mentre osservava con la signorina Cantelli il
dipinto; ma tenne prudentemente il suo raffronto per sè, non parendogli
che certi nomi dovessero suonare ai casti orecchi di lei.
Le fece piuttosto notare nel fondo del quadro, a sinistra, e dietro alla
tavola da giuoco, una di quelle aperture luminose donde sapeva ricavare
tanti effetti il Teniers, e là in quella apertura d’uscio la veduta di
una bottega da caffè, con molte maschere affollate al banco del
caffettiere.
Poi la condusse davanti ad un altro quadro, dove alla vita del ridotto
succedeva la vita del monastero; allegrissima anche questa, nel
parlatorio elegante, dove le monache e le educande, sporgendo coi
visetti maliziosi dalla grata, ricevevano i complimenti d’una comitiva
di cavalieri e di dame. Non era fitta, la grata; al bisogno poteva anche
aprirsi, facendo di due stanze una sola. Intanto la conversazione
appariva molto animata; e preludiava anche a un altro divertimento,
poichè lì presso ei vedeva rizzato, e pronto a cominciar lo spettacolo,
un casotto di burattini.
Altro quadro più in là, raffigurante una piazza; e sulla piazza un palco
da ciarlatano, donde un vecchio Dulcamara esaltava la magica virtù di
certe boccettine, che vendeva alle belle ragazze; l’elisir d’amore,
senza dubbio, del quale pareva invogliata anche una gran dama, venuta in
piazza con la morettina sul viso, facendosi sostenere lo strascico
dall’immancabile cavalier servente in bautta. La bautta era in voga; non
disdiceva neanche nei più alti luoghi, nei più solenni ricevimenti. Ne
faceva testimonianza un terzo quadro, dov’era rappresentato un doge,
niente di meno, il doge Pietro Grimani, seduto in trono e circondato da
quattro consiglieri, in atto di ricevere un senatore, che gli presentava
una dama e due gentiluomini, come lei mascherati. Benedetto doge
Grimani, a cui le cure dello Stato, nobilmente sostenute dal 1741 al
1752, concedevano qualche onesto sollievo!
Il dipinto che lo raffigurava era certamente stato fatto per sua
commissione. Dogi e senatori, come tutti i patrizii veneziani, gradivano
di vedersi effigiati nei quadretti del Longhi. Era un modo di tramandare
le proprie sembianze ai posteri, senza la solennità del gran quadro, e
col vantaggio di essere ricordati in mezzo alle loro famiglie. Così in
un’altra tela del gaio pittore si vedeva un parrucchiere tutto premuroso
acconciare il capo ad una gran dama; la quale, seduta allo specchio,
sorrideva ad un bambino, ancora in braccio della paffuta nutrice.
Frivolezza e sentimento materno sapevano stare in buona armonia, sotto
la protezione d’un ottimo capo di famiglia, il cui ritratto pendeva
appunto dalla parete, portando la scritta col nome del doge Carlo
Ruzzini, e l’indicazione del 2 giugno 1732, giorno in cui egli era stato
elevato a quella serenissima altezza.
Invaghita del gentilissimo pittore e del suo fare arguto, la signorina
Margherita non trascurò nessuna di quelle quattordici tele. E si
ripromise ancora di andare una seconda volta alla Accademia di Belle
Arti, dove ce n’erano altre sei del Longhi, da lei neppure guardate
nella prima sua visita, tra perchè si ritrovavano confuse in una
minutaglia di quadretti della raccolta Contarini, e perchè non era
andata là in compagnia d’un cicerone di tanto criterio e di tanto buon
gusto.
— Ci andremo insieme, non è vero? — diss’ella. — Anche il piccolo ha i
suoi pregi; e riconosco volentieri che occorre un grande ingegno per
cogliere con tanta fedeltà ed esprimere con tanta evidenza gli aspetti
di una piccola vita.
— Ricorda, signorina, — chiese Filippo, — ricorda un altro pittore, che
ha espressi in piccolo, e con arte maravigliosa, gli aspetti della
grande? un pittore di prospettive, che ha saputo popolare di figurine a
migliaia, alte pochi centimetri, i fondi più vasti, e dare a quelle
figurine la espressione più viva?
— No, di chi parla?
— Del cavalier Pannini; poichè ella è stata a Parma....
— Ah, sì, vero! — gridò la signorina Margherita. — Il cavalier Pannini,
che ha riempita la pinacoteca della Pilotta con tanti episodj del
viaggio di Carlo III, di quel simpatico re vagabondo, passato dal trono
di Parma a quello di Napoli, e dal trono di Napoli a quello di Madrid.
Ella ha ben ragione; anche il cavalier Pannini è stato un grande
artista, ed io l’ho veduto con piacere, come una vecchia e cara
conoscenza, anche a Parigi, nella galleria del Louvre. Ma torniamo a
Parma; — soggiunse la fanciulla, con un risolino malizioso. — Ci ha più
pensato, Lei?
— A Parma?
— Sì, a Parma, e al vecchio palazzo degli Aldini. —
Filippo trasse un sospiro, e lì per lì non rispose. Troppe cose avrebbe
avuto da dire.
— Ma già, capisco; — ripigliò la fanciulla. — Si può pensare a Parma,
vivendo da tanto tempo così volentieri a Venezia? —


VI.

Digne et in aeternum.

Il colpo lo coglieva in pieno petto; colpo involontario, colpo
innocente, ma fiero. Filippo Aldini balenò un istante, e rimase un
tratto senza parola, tanto era sconcertato.
— Non mi lagnerò, — diss’egli, dopo quella pausa forzata, — non mi
lagnerò di questo lungo soggiorno, poichè il prolungarlo fin qui mi ha
fruttato la loro conoscenza. —
La frase galante meritava il suo premio in un sorriso di amabile
compiacenza da parte della signora Eleonora. Ma questa non era là per
sentirla: da un quarto d’ora almeno, stanca di passeggiare per le sale
del museo e di star ferma in piedi davanti a quei quadri, dove la sua
Margherita e il conte Aldini trovavano tante bellezze, la buona signora
aveva preso posto sopra un seggiolone antico, presso il finestrone d’una
camera attigua, lasciando ai due giovani il piacere di muoversi, di
fermarsi, di ammirare a lor posta. Nè per lei diede il premio
dell’amabil suo sorriso la signorina Margherita, che in quella vece si
era fatta un po’ rossa.
Ma un complimento non era una ragione; e Filippo continuò:
— Del resto, sono i casi della vita che ci comandano un poco, e sempre
assai più delle nostre preferenze. Ella poi non mi creda dimentico di
Parma, nè di un consiglio così gentile come il suo. Se sapesse! Ho
sognato ancora stanotte di esserci ritornato.
— Davvero?
— È là, non nel palazzo degli Aldini, di cui non conosco l’interno,
poichè esso non apparteneva già più alla mia gente quando io son nato:
ero invece fuori di città, verso i colli, dalle parti di Lesignano, con
la veduta di Montechiarugolo.
— Ah, bene, Montechiarugolo! — ripigliò Margherita. — È un paese tanto
simpatico! Ci dev’essere anche la storia d’una fata, che non ho potuto
raccogliere. La sa, Lei?
— No, e me ne duole; — rispose Filippo. — Ma ci sarà una buona fata,
quando ella ci andrà. Per intanto, — soggiunse egli, passando veloce su
quell’altro complimento, che faceva arrossire un’altra volta la
signorina Margherita, — io sono andato a Lesignano, come ho avuto
l’onore di dirle; e non mi sono fermato nella mia bicocca di laggiù;
sono corso in quella vece difilato verso i monti, padrone del mio tempo,
senza una mèta prefissa, felice di correre, e senza maravigliarmi
neppure della nuova facoltà che avevo acquistata, la facoltà di volare.
— Tutto solo?
— No, non solo.
— Ah, dicevo bene! Sarebbe stato un piacere da egoista.
— Vuole che le dica con chi ero?
— Dica, dica.
— Con una gentile signorina, a cui facevo indegnamente da cicerone.
— Ci cresce l’indegnamente; — notò Margherita. — La signorina certamente
sarà stata felicissima. Con le ali anche lei, voglio credere. E che cosa
le ha fatto vedere da quelle parti là?
— Una ròcca stupenda, fieramente piantata sopra un poggio, con quattro
torrioni sugli angoli e un battifredo sul ponte d’ingresso.
— Un battifredo? Le confesserò candidamente la mia ignoranza....
— Battifredo, — fu pronto a commentare Filippo, — torre della guardia;
alta per dominare molto paese in giro; munita di campana, perchè gli
uomini in vedetta suonino a stormo appena scorgano in lontananza il
nemico. La ròcca, poi, si chiama Torrechiara; la fabbricò a mezzo il
Quattrocento un gran gentiluomo, che era stato uno dei maggiori capitani
di Francesco Sforza. Signore di molte castella sul territorio parmense,
ed anche più oltre sul milanese, Pier Maria de’ Rossi, conte di San
Secondo e marchese di Berceto, si ritirò un bel giorno dalla corte
ducale di Milano e da tutte le pompe mondane: non bastandogli, o non
parendogli abbastanza fuori del consorzio umano le altre sue ròcche,
volle edificare anche quella, e ci si rinchiuse per la seconda metà
della sua vita, che fu certamente la migliore. Amò concentrarsi, e fu
savio; — soggiunse Filippo con accento di desiderio. — Appartato dal
mondo, non ebbe più da sentirne la noia.
— Ah, l’egoista! — esclamò Margherita, un po’ per l’antico gentiluomo,
un po’ pel moderno.
— Ma no, non era solo; — ribattè prontamente Filippo. — Consolava la sua
solitudine una donna gentile, e a farlo apposta una milanese come lei.
— Ma io son di Como, l’avverto.
— Oh, veda! Ma io ho detto milanese come si suol dire, genericamente,
per comprendere tutta la regione che ha obbedito in altri tempi a
Milano. Del resto, ignorando ch’ella fosse nata a Como e sapendo ch’ella
vive a Milano, potevo ben dir milanese, ne conviene? Ora veda un po’ che
strana coincidenza! La dama di Torrechiara era quasi di Como. E non
creda ch’io le voglia cambiar le carte in tavola; le dico subito nome e
cognome; si chiamava Bianca Pellegrini, ed era marchesa d’Arluno. La
storia sua non la so così bene come il suo nome; ma certo il De’ Rossi
aveva conosciuta la bella a Milano, quando viveva alla corte dello
Sforza, o della vedova di lui. Quanto alla leggenda, essa racconta che
in abito di pellegrina, col sarrocchino di cuoio, sparso di nicchi,
sulle spalle, e il bordone nel pugno, la bellissima Bianchina muovesse
di Lombardia per andare dal suo Pier Maria, caduto in disgrazia e
ritirato nel suo territorio. Ma credo che la leggenda sia stata
inventata, prendendo le mosse da certe pitture della ròcca di
Torrechiara, per le quali appunto nel mio sogno io mi ero disposto a
farle da cicerone.
— Ha avuto un bel pensiero, dormendo; — notò Margherita. — Non lo
deponga ad occhi aperti, e mi descriva le pitture di Torrechiara; io mi
sforzerò di vederle.
— Ecco qua; — riprese Filippo. — Ma prima vediamo la ròcca. Quattro
torrioni angolari, le ho detto, non tenendo conto di alcune torri più
basse, e di altri lavori per difender gli approcci. I torrioni,
naturalmente, son collegati da bastioni, che dànno anche posto a lunghi
loggiati coperti, donde si gode la vista delle circostanti campagne. Tra
questi corpi avanzati, che sono i torrioni ed i loggiati, si stendono
quattro giardini, veri orti pensili, debitamente alberati e fioriti,
affinchè gli abitatori della ròcca non sentano il bisogno di andar fuori
a diporto. Lungo i giardini corrono gli appartamenti signorili, a due
ordini. Dentro la ròcca, tra questi appartamenti, si stende una gran
corte, con due porticati sovrapposti, sostenuti da robuste colonne. In
mezzo alla corte è un gran pozzo, col suo puteale di marmo, e il
coronamento, al solito, di ferro battuto. C’è? Vede tutto?
— Ci sono, e mi par di vedere.
— Bene; ora facciamo cammino nel porticato superiore; si entra di là,
verso mezzogiorno, nella camera d’oro, che è tutta una maraviglia, anzi
la maraviglia delle maraviglie. Non si lasci abbagliare dall’oro. Del
resto, ce ne son più poche tracce sulle pareti. Verremo a queste tra
poco; alzi gli occhi, per ora.
— Li ho alzati.
— Ed ecco la vôlta, che domanda subito tutta la sua attenzione. La vôlta
è a crociera, voglio dire che la dividono in quattro spicchi due
costoloni lavorati ad armi e scherzi, e condotti ad incrociarsi sotto
una serraglia rotonda tutta dorata, che porta il monogramma di Cristo,
contornato di raggi. Nei quattro scompartimenti un pittore non dozzinale
ha dipinto quattro volte Pier Maria e Bianchina; lui colla berretta di
velluto rosso in capo, vestito alla corta, di stoffa verde damascata;
lei ora da pellegrina, col bordone e il sarrocchino, ora da gran
signora, e con tanto di strascico. Infatti, nei quattro dipinti sono
rappresentati diversi momenti della buona ventura toccata al gentiluomo
innamorato; da prima il viaggio della dama travestita, poi l’incontro e
il ricevimento in Torrechiara, finalmente la presentazione dei due
felici al tempio di Cupido. Non dimentichi, signorina, che siamo nel
periodo del Risorgimento, e il profano si mescola volentieri col sacro.
— Soverchiandolo un poco, vedo bene; — osservò Margherita.
— Ed ora alle pareti; — riprese Filippo. — Son tutte a mattoni quadrati,
istoriati a rilievo, colorati e dorati, correnti in file diagonali, ogni
fila col suo colore dominante, verde, rosso, azzurro e oro, e colle
parti in rilievo tinte di un colore diverso. Queste parti in rilievo,
ora sono pezzi di rabesco, che, congiungendosi con quelli dei mattoni
contigui, vengono a formare un ornamento che abbraccia tutte le altre
rappresentazioni, frapponendosi ad esse; ora son rôcche col ponte
alzato, circondate da fosse con cigni, sormontati da un aquilotto, con
un sole raggiante sul capo; ora cartelli col motto latino _nunc et
semper_, cioè a dire ora e sempre; ora son coppie di cuori, rossi in
campo azzurro, entro un cerchio formato da tre corone d’oro accostate;
ora altri cartelli coll’altro motto latino _digne et in æternum_. Perchè
due motti? Non ne bastava uno? Ma io penso che la ragione ci sia, per
averne messi due. Non sono due i cuori accostati? Ora, dei due motti
latini, uno, il _nunc et semper_, è di madonna Bianca, l’altro, il
_digne et in æternum_, è di Pier Maria, senza fallo.
— E significa?
— Meritamente, in eterno; — rispose Filippo. — Su per giù è la stessa
idea del _nunc et semper_; ma c’è di più il meritamente; e mi pare che
sia il De’ Rossi quello che parla così, dando maggior lode alla dama.
— Ed è stato di parola?
— Sì, come vedrà. Volgiamo un ultimo sguardo a questa camera d’oro, che
con tante rappresentazioni di felicità sulla terra, mi pare un vero
castello d’amore, ed usciamo nel cortile. Per un angolo del porticato si
entra nella cappella, posta sotto l’invocazione di San Nicomede. Un solo
altare là dentro, e poteva bastare al centinaio di vassalli che vi si
raccoglievano a sentire la messa, insieme col signor castellano. Ma
questi non ci stava già alla vista di tutti. Sul lato sinistro della
piccola chiesa era rizzata una bussola di legno riccamente scolpita, che
ripeteva ne’ suoi rilievi colorati e dorati le coppie di cuori, i motti
latini, i castelli coi cigni e gli stemmi, tutto insomma l’ornato della
camera d’oro; e dentro la bussola si vedono ancora i due stalli; uno a
destra, colla lastra dell’inginocchiatoio intarsiata, che reca gli
emblemi della pellegrina e le iniziali del nome di lei; l’altro a
sinistra colle iniziali di Pier Maria. Amava concentrarsi, il signore di
Torrechiara; chiuso nel suo castello, chiuso nella sua camera d’oro,
chiuso nella sua bussola, sempre chiuso, e non solo. Non riposa neanche
solo sotto il pavimento della cappella di San Nicomede, dove la
pellegrina d’amore è scesa a dormire il gran sonno, e dov’egli l’ha
seguita, restandole indietro di poco. Le pare che sia stato di parola,
quel potente della terra, quel gentiluomo, quel castellano poetico?
Storia vera, quella che io le ho raccontata, abbreviando; storia vera,
che sembra un romanzo. —
Margherita aveva assentito alla domanda con un cenno del capo.
— E dica ancora, — soggiunse ella con piglio curioso, — sono entrate
delle Rossi, nel casato degli Aldini?
— Sì; perchè me lo domanda?
— Perchè parla di Pier Maria con tanto calore!
— Vuol dire che sia la voce del sangue? — rispose Filippo, sorridendo. —
E sia. Ma il motto del castellano di Torrechiara val bene qualche frase
più animata del solito. _Digne et in æternum_; meritamente, e per
l’eternità! Quantunque, — soggiunse egli, — mi pare, pensandoci su, che
la mia traduzione non faccia intendere tutta la profondità del pensiero.
— Ah sì, sentiamo; — gridò Margherita; — qualche bella sottigliezza! È
del suo carattere, se l’ho ben capito.
— Le dispiace?
— No davvero; ho detto bella sottigliezza; non dimentichi l’aggettivo, e
mi dica subito che cosa ha trovato di più profondo nel motto di Pier
Maria.
— Questo, signorina, che solo quando è degno, l’amore merita di vivere
eterno. Le pare una sottigliezza?
— È bella; — ribattè Margherita; — è bella, e vera; e mi fa prendere in
molta stima il suo Pier Maria. La prima volta che tornerò a Parma, andrò
a fargli una visita. Peccato che non ci sia anche lei, per farmi gli
onori della Camera d’oro! —
Filippo Aldini levò gli occhi al soffitto, quasi invocando dal cielo un
miracolo.
Si era andati molto lontani dai quadri di genere del Longhi; ed anche
dalla signora Eleonora, a cui bisognava ritornare.
— Mio Dio! — esclamò la buona signora, giungendo le palme. — Non siete
stanchi? Benedetta gioventù! —
Piacque sommamente a Filippo Aldini quella associazione di due persone
in un “siete„, che certo era stata fatta a caso. Ma egli si tenne
prudentemente la gioia in petto, senza farne la menoma dimostrazione sul
volto. Margherita, per contro, non sapendo fingere, si fece secondo
l’uso un po’ rossa.
— No, mamma; — diss’ella, accostandosi, e baciando la signora Eleonora
sulla fronte; — quanto a me, non sono stanca affatto. Il signor conte
spiega così bene ogni cosa, che fa dimenticar la fatica. E mi ha fatto
intendere anche un po’ di latino. —
La signora Eleonora sorrise, senza intendere dal canto suo nulla di
nulla nell’accenno di sua figlia. Ma una cosa intendeva, quella buona
signora, che quei due giovani erano maravigliosamente assortiti. Li
aveva da vedere il suo Anselmo, come li vedeva essa in quel punto; di
certo egli non avrebbe portato opinione diversa. Lui di bella presenza,
che non si poteva desiderare di meglio; alto e ben piantato, snello,
elegante; risoluti i lineamenti del viso, ma insieme delicati; traenti
al biondo i capelli, ed anche più i baffi, sotto cui si disegnavano le
labbra stupende, nobilmente ferme nella gravità dell’atteggiamento
pensoso, amabilmente morbide nella soavità del compiacente sorriso; lei
quasi alta della persona come lui, tutta leggiadra, fatta a pennello;
ricco il volume della capigliatura nerissima su quel candore abbagliante
della carnagione, che spirava intorno a sè come un alito di cose fresche
e profumate; e non meno stupenda bellezza in lei quelle ciglia lunghe,
che toglievano forza, ma aggiungevano grazia al baleno degli occhi.
Infine, era illusione o verità? Gli occhi morati di Margherita e gli
azzurrognoli del conte Aldini si socchiudevano volentieri nell’istesso
modo, come se ci fosse stata una parentela tra loro, e rendevano in
vista la medesima espressione, di dolcezza diffusa e di profonda bontà.
Queste le doti fisiche dei due giovani; bisognava veder poi le morali.
Ella era un angelo, come bene l’aveva definita in una parola il signor
Zuliani; seria, senza apparato, innocente l’anima, tra tanta cultura
d’ingegno; sempre l’istesso umore, amabilmente giocondo, e il senso
della misura in ogni cosa perfetto. Egli, poi, così nobile di sentire
com’era di nascita, cortese negli atti, inappuntabile nei modi, affabile
con tutti, riguardoso colle signore fino allo scrupolo, garbato ed
attento colle attempate come colle giovani; e ciò senza contare tutto il
bene che alla signora Eleonora ne aveva detto Raimondo Zuliani, un
galantuomo di ventiquattro carati, alla cui parola si poteva fidare ogni
altro galantuomo suo pari, e prima e più di tutti il signor Anselmo
Cantelli. Infine, se quel soggiorno prolungato delle signore a Venezia
doveva portare una conseguenza come quella, non c’era da ascriverlo a
grande fortuna?
Le mamme, si sa, vedono sempre e dappertutto un marito; si può dire che
non hanno occhi per altra cosa nel mondo. Un uomo incontrato a caso,
presentato loro in un salotto, ai bagni, o in altro ritrovo di società,
vale o non vale, secondo che è un marito possibile, o meno. Povere
mamme, vanno compatite: l’hanno trovato esse una volta, perbacco, e
pensano volentieri che la vite ha bisogno dell’olmo, e alla peggio deve
contentarsi d’un palo. Ubbìe, sciocchezze, follìe; spesso anche errori,
che si pagano cari; ma non c’è rimedio, le mamme son fatte così;
pigliarle come sono, o lasciarle.
Considerando il caso particolare della signora Eleonora, non è da
credere che ella pensasse così, per non aver trovato un partito
conveniente alla sua cara figliuola; che anzi, già si erano dovuti dire
parecchi no, e senza una ragione plausibile; tanto che il banchiere
Anselmo e la sua signora si erano fatta una riputazione di schifiltosi,
d’incontentabili, e perfino, diciamo la parola, di matti. Figurarsi, che
i partiti offerti erano di quei tali che appunto potevano e dovevano
capitare alla figliuola d’un ricco; rampolli di famiglie ben quotate a
milioni, che prima di muovere all’assalto avevano cura di sapere a
quanto ascendesse la dote, o fin dove potessero giungere le conseguenti
speranze; e poi, a vederli! prendevano fuoco come tanti zolfini. Che
cari figliuoli! E quando si arriva a combinare uno di questi contratti,
è un parlarne in città, un rallegrarsene, un esaltarsene, come d’un vero
miracolo. “Sapete il gran fatto? Non si direbbe, ma è proprio così;
matrimonio d’amore! Si erano visti alle regate di Livorno, alle acque di
Recoaro, ai freschi di Gressoney. Quel povero ragazzo non ha avuto più
pace, ha perso a dirittura la testa„. Sì, eh? Ma almeno, fortuna sua,
aveva conservata in tasca la tavola pitagorica.
Quanto ai suoi pretendenti, Margherita era sempre stata chiamata ad
esprimere la sua opinione. Il babbo l’amava moltissimo, per tutte le
ragioni che sarà inutile dirvi, e ancora più la stimava per il suo retto
criterio. Così ella era messa a parte di tutto, e sorrideva ad ogni
nuova richiesta.
— Lo conosci, quest’altro?
— Io no, babbo; l’avrò forse intravvisto, ma non ne ho tenuto memoria.
— È di buona famiglia; ricco, e figlio unico. Si fanno parecchi milioni
a suo padre.
— Buon per lui; ma io non lo conosco. La solidità della sua casa, come
si dice, puoi saperla tu, con qualche approssimazione, non è vero? Ma il
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