Il ponte del paradiso: racconto - 02

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facendo bocca da ridere.
— Ella sa bene, signor Zuliani, di averci già fatto questo regalo; —
rispose la signora Eleonora con gran degnazione, e, cosa più insolita,
abbozzando perfino un sorriso. — È vero nondimeno che incontriamo il
signor Aldini piuttosto raramente.
— Lo incontrano! — esclamò Raimondo. — Non è egli dunque tornato a
riverirle? Davvero davvero, non riconosco più il mio Filippo, il re dei
cavalieri. —
Filippo Aldini sorrideva a stento, sudando freddo, e balbettando qualche
frase scucita. La nessuna importanza sua.... il timore di essere
importuno.... E frattanto si guardava attorno, come se cercasse
soccorso. Da chi, povero Aldini, da chi? Ah, bene aveva pensato quel
giorno di darsi ammalato! Sentiva allora che l’idea era buona. Peccato
che gli fosse parsa ridicola, tanto che non ci si era fermato su, e non
aveva scritto quel bigliettino di scusa a Raimondo, magari mettendosi a
letto, per non esser colto in flagranti di bugia, dal più caldo, dal più
prepotente degli amici! Si pentiva allora, si pentiva amaramente di non
aver colta a volo l’idea, balenata nella mattina al suo spirito, come
unica e vera àncora di salvezza che gli porgeva un buon genio.
Bisognava dunque discorrere; e Filippo Aldini si adattò a mettere
qualche frase meno scucita di costa a quelle del suo amico Zuliani. Ma
appena Raimondo non fu più là in sostegno, lasciò languire la
conversazione, e ringraziò nel profondo dell’animo il cavaliere Lunardi,
che si avanzava a riverire la signora Eleonora. Nè solamente lo
ringraziò, ma subito ne prese occasione a ritirarsi in buon ordine, per
andare a discorrere colla signora Galier. Là solamente si sentiva al
sicuro.
La conversazione si era venuta animando. Ma qualche timido accordo al
pianoforte ottenne il suo effetto. “Cascano i filinguelli al paretaio„,
ha detto il poeta; tutti s’accostano al cembalo. C’è chi domanda una
romanza dello Schubert, chi uno scherzo del Grieg, chi un minuetto del
Boccherini. Il maestro di musica ha tutta questa roba sulla punta delle
dita. Ma soprattutto c’è chi vuol sentire il re degli istrumenti
musicali, la voce umana, specie se è voce di soprano, o di mezzo
soprano. Del resto, in un salotto, son tutte voci di soprano sfogato. La
padrona di casa non canta più, almeno così ella dice; e si capisce che
dica così, per far figurare qualche graziosa invitata. Si pregherà
dunque la signorina Cantelli. E la cara Margherita non si fece pregar
molto. Pensava giustamente, la bellissima fanciulla, che tanto e tanto
avrebbe dovuto dire di sì; il meglio era dunque di dirlo subito. Aveva
una voce stupenda; cantò con metodo eccellente e con raro sentimento
l’_Ideale_ del Tosti, domandato dal cavalier Lunardi, il grande
romantico della compagnia. La signora Livia si era appressata al cembalo
per sentir meglio. Fu amabilissima; applaudì con ardore, e fece perfino
un miracolo, simulando l’atto di abbracciare la gentil cantatrice.
— Tutto bene! — disse mentalmente Raimondo, stropicciandosi le mani in
un angolo del salotto. — Così la mamma fosse venuta, che non avrei più
nulla a desiderare! —
Ma non si può aver tutto, in questo povero mondo. E non potè aver tutto
il cavaliere Lunardi, che dopo l’_Ideale_ del Tosti, chiedeva già per
grazia l’_Amore, Amor_ del Tirindelli. Un uscio si era aperto, una
portiera di broccato si era sollevata, ed appariva nel vano il colossale
Giovanni in vistosa livrea, coi guanti bianchi come la neve; piacevole
apparizione di granatiere rubizzo, che proferì poche parole, ma buone:
“La signora è servita„.
La signora, la padrona di casa, doveva far l’obbligo suo. Fatto un cenno
al marito, che offriva subito il braccio alla signora Cantelli, prendeva
il braccio del signor Telemaco; un pezzo grosso della finanza, che siamo
dolenti di non aver meglio specificato, ed ora, per far le cose a
dovere, sarebbe un po’ tardi. Poi volgendosi verso Filippo Aldini, gli
disse a mezza voce:
— Signor Aldini, offra il braccio alla contessa Galier. —
L’Aldini s’inchinò col suo fare misurato, ed obbedì prontamente.
— Ah, che bel cavaliere! Ringiovanisco; — gridò quella graziosa matta
della contessa, che non voleva esprimere a mezza voce il suo gradimento.
La signora Livia sorrise; poi si rivolse al Lunardi.
— Cavaliere, — gli disse, — offra il braccio alla signorina Cantelli. —
E con un leggero ammiccar degli occhi ebbe l’aria di soggiungere: — È
contento di me?
— A questo modo, — esclamò il cavaliere Lunardi, per fare il paio colla
vecchia contessa, — ringiovanisco ancor io. —
La signora Livia fece un bel gesto d’invito a tutti gli altri, perchè
volessero seguire la marcia come credessero meglio. Si era tutti amici
vecchi di casa, perciò in gran confidenza; ed alcuni fecero l’atto, non
ammesso dai manuali dell’etichetta, di offrirsi il braccio tra uomini.
Il signor Brizzi, ad esempio, ci passò per signora, un po’ stagionata a
dir vero, accettando il braccio che gli offriva il Gregoretti, bel tipo
di mattacchione, e alle sue ore anche poeta.
Si traversò un secondo salotto che già conosciamo, e si mosse di là
verso la sala da pranzo, il cui uscio spalancato lasciava vedere tutto
uno sfolgorìo di lampade di bronzo dorato e di candelabri antichi, tra i
cui viticci venivano ad innestarsi, come frutti luminosi, le pere
cristalline della luce elettrica. Al soffitto di legno, partito a
cassettoni e rosoni, anch’essi dorati, si armonizzavano le credenze e le
cristalliere di legno nero, intagliato a fogliami, a fiorami, a
rabeschi, a mascheroni, a putti, a draghi, ad uccelli fantastici. Falso
Cinquecento, sicuramente; ma anche falso sta bene, dà un nobile
carattere alle case, parendo invecchiare con esse le famiglie troppo
moderne, che si sono felicemente arrampicate a metterci il nido.
La tavola era uno splendore di cristallame, d’argenteria, di porcellana
e di fiori. In vece del solito _chemin de table_, che è graziosissimo e
può essere sommamente caro come lavoro di mani gentili, ma che è pure
economico la parte sua, potendo andare in bucato, attraversava la
tovaglia in linea diagonale un nastro enorme, artisticamente pieghettato
e rigirato a onde, a staffe, a nodi, allacciando qua e là mazzi di rose
fresche, di orchidee, di miosotidi, ed altre fioriture contro stagione.
Quella era la novità ultimissima del buon gusto; così andava fatto,
fosse pur condannato ad essere disfatto la mattina seguente. Buon lusso
costoso delle cose destinate a perire! Ma la nave degli Zuliani aveva il
vento in poppa, e dispiegava liberamente tutta la sua velatura.
Contegnosi da principio e parchi di parole, i nostri commensali si
animarono gradatamente, al saltar dei turaccioli, all’acciottolìo dei
piatti, al cozzar dei bicchieri. Il chiacchiericcio si diffuse da un
capo all’altro della tavola: si stava bene, si andava anzi di bene in
meglio; si aprivano i cuori, si snodavano le lingue. Il cavaliere
Lunardi fu garbatissimo colla signorina Margherita, che con un
interlocutore sessagenario poteva essere più loquace, mostrando tesori
di senno, di cultura e di grazia. Amenissima poi la contessa Galier, tra
l’Aldini, che non si mostrava più tanto impacciato, e il signor Brizzi,
collocato suo cavalier di sinistra. Così aveva disposto la padrona di
casa, per compensarlo di quel sacrifizio, di quel tradimento dovuto fare
al suo _Cappello Nero_.
Intanto questo appariva in casa Zuliani, questo era evidente, tra tanti
fumi del vin del Reno, di Borgogna, di Xères, di Caluso e d’altri siti;
che i vecchi erano più animati, più allegri, perfino più arguti dei
giovani. Nessuna maraviglia; forse è perchè i vecchi hanno meno tempo
davanti a sè, in paragone dei giovani, e fanno profitto di quel poco che
avanza. Quanto a dedurne che sia per maggiore esperienza della vita, non
ne credete niente; e vecchi e giovani son tutti ragazzi ad un modo.
In mezzo al chiacchiericcio generale, che già pareva un principio della
confusione delle lingue, che è che non è, salta un turacciolo con
formidabile scoppio; ne salta un altro, ne saltan parecchi; il vino di
Sciampagna gorgoglia, ribolle, sfavilla, spumeggia nei calici di
mussolina fusa in cristallo, o di cristallo fuso in mussolina, come vi
piacerà. Era quello il momento solenne dei brindisi. E si capì allora
perchè il Gregoretti, quel grazioso mattacchione, non avesse dato alla
conversazione tutto ciò che avrebbe potuto e dovuto. Il disgraziato
aveva un brindisi in corpo, e in versi, per giunta, in versi veneziani,
scoppiettanti, sfavillanti come il vin di Sciampagna, che gli stava
dinanzi, e di cui aveva sorseggiata la prima spuma quasi per prenderne
ispirazione.
Si era fatto silenzio, vedendo nell’atteggiamento e nel gesto del
personaggio la promessa del brindisi. E il Gregoretti incominciò,
celebrando in graziose strofe i meriti straordinarii dell’anno allora
allora finito. Il che era contro l’usanza, per verità; ma si sapeva bene
che il Gregoretti non faceva mai niente a modo degli altri. A suo
giudizio, l’anno andato meritava ogni lode, non avendo recato nessun
dispiacere a lui, nè agli amici suoi; e questo era molto, anzi poco
mancava che non fosse tutto. Sì, buon Dio, si poteva anche ammettere che
non fosse stato nè carne nè pesce. Ma il suo successore, il neonato, non
si sapeva ancora che diavolo sarebbe riuscito.
E il vecchio, poi, era anche finito bene: ci pensassero un pochino, i
signori commensali; era finito stupendamente per tutta una gentile
brigata, sotto l’incanto della bellezza accompagnata alla grazia. Occhi
soavi, amabil sorriso.... E più avrebbe detto il poeta, perchè c’erano
da enumerare i pregi a centinaia. Ma siccome il ritratto sarebbe stato
poi sempre inferiore all’originale, egli prendeva consiglio da quei
pittori da dozzina, che dopo aver disegnata e colorita con tutta l’arte
che possiedono la figura del committente, gli pongono in mano una
lettera, colla soprascritta bene in vista, per istruzione del pubblico.
Il nome, di quella bellezza, di quella grazia incantevole, doveva egli
proferirlo? Non era già pronto a scoccare, sulle labbra di tutti? Animo,
via, lo dicessero pur tutti con lui, senza timore di guastargli la
chiusa, lo dicessero tutti a gara, quel nome grazioso, “quel nome caro
ai Veneziani„ della signora.... E qui una sospensione, che permetteva a
tutti di prorompere in coro: “Livia Zuliani„.
La signora Livia Zuliani, udendo quella enumerazione di pregi femminili,
e indovinando che col suo nome sarebbe andata a finire, si era fatta via
via d’un bel colore vermiglio; a suo vantaggio, senza dubbio, perchè
prima d’allora, diciamolo pure, con tutta la sua risoluzione di fare a
mala sorte buon viso, era stata un po’ verde.
Tra gli applausi e gli evviva dei suoi convitati, la bella nervosa,
atteggiate le labbra al sorriso, levò il suo calice, accostandolo
cortesemente a quello del suo poeta. Ed anche, sorridendo sempre e
ringraziando, dovette ripetere la cerimonia con tutti.
Raimondo era in estasi: vedeva tutto vermiglio, come il volto della sua
Livia. Ma non poteva star sempre lì, in contemplazione della propria
felicità; da buon padrone di casa, doveva darsi moto, tener desto il
fuoco della allegrezza ne’ suoi convitati.
— L’anno vecchio ha ottenuto il suo elogio; — disse egli; — chi farà
l’elogio del nuovo?
— Tu; — gli rispose il Gregoretti.
— Io? Non son poeta; e dovrei tesserlo in prosa.
— In prosa, da bravo; purchè sia prosa robusta.
— Se non sarà, non vorrete mica accopparmi; — conchiuse Raimondo, che
già sentiva venir l’estro ad una seconda versata che i servi facevano in
giro.
Levò allora il suo calice, e così prese a parlare, con intenzione
d’esser solenne:
— Signore e signori, onde questa casa è onorata, auguro a tutti voi che
il nuovo anno sia lieto, come furono a me i sette che lo hanno
preceduto. Esaudisca egli il voto che gli esprimo.... — soggiunse
l’oratore, ispirandosi d’un subitaneo pensiero, e versando sulla
tovaglia un mezzo dito del suo vino, — .... il voto che gli esprimo
libando a lui, come un sacerdote antico, con questo roseo dorato
liquore.
— Bene osservato; il roseo dorato è una particolarità della vedova
Clicquot; — disse il Gregoretti, guardando contro la luce il suo calice.
— La vedova, — rispose Raimondo Zuliani, cogliendo quella volta
l’ispirazione dalle parole dell’amico, — la vedova è stata moglie;
parliamo dunque del matrimonio. Non senza ragione vi accennavo i miei
sette anni felici. A voi, scapoli impenitenti! aiutate con buone
risoluzioni l’adempimento del voto che io ho formato poc’anzi, e il
nuovo anno vi colmerà delle sue benedizioni. Chi vorrà dare l’esempio?
Voi, amico Brizzi, non è vero?
— Me ne guardi il cielo! — gridò il signor Brizzi, facendo un gesto
d’orrore.
— E perchè? — domandò Raimondo. — Vi conosco e vi stimo da gran tempo,
mio caro, e so che non fate e non dite mai cosa su cui non abbiate
pensato due volte. —
Il signor Brizzi si avvide di non aver pensato neanche una a ciò che gli
era uscito allora di bocca. Era stato un grido dell’anima; e bisognava
attenuarlo con qualche spiegazione.
— Perchè? — rispose. — È presto detto, il perchè. Renderei infelice la
donna che avesse la cattiva ispirazione di accettar la mia mano. Son
vecchio, sapete? son vecchio.
— Ma che? — entrò a dire la contessa Galier, che non voleva sentir
parlare di malinconie. — Vecchio è chi muore.
— Signora contessa, la prego di credere che ho passati i cinquanta. Il
matrimonio non è più fatto per me, salvo il caso di voler saldare
insieme due cocci scompagnati. Con che gusto, poi? con che utile per la
società? Pensiamo alla società, miei signori; è anche di moda. E
concludiamo; il matrimonio è fatto pei giovani. —
Raimondo avrebbe volentieri abbracciato il suo segretario. Senza
volerlo, senza pensarci neanche, quell’ottimo signor Brizzi gli dava la
mano, tirandolo dov’egli intendeva per l’appunto avviarsi.
— E allora rivolgiamoci ai giovani; — ripigliò. — Auguriamo per esempio
al conte Aldini la felicità ch’egli merita. Sei al momento buono, mio
caro Filippo. È perchè i voti del capo d’anno sono privilegiati su
tutti, io ti auguro con maggior fede una sposa degna di amore e di
stima.... perchè non lo direi? come la mia.
— Raimondo! — esclamò la signora Livia. — Mi farete arrossire. —
E più avrebbe detto, tanto era seccata. Ma le bisognava rattenersi, star
lei in riga, se non sapeva starci il suo signore e padrone. Ah, quella
benedetta varietà di vini dei pranzi e delle cene solenni! Manda i fumi
alla testa, snoda le lingue, fa dir sciocchezze agli uomini serii,
troppe sciocchezze; e con una insistenza, poi, con una insistenza degna
di miglior causa.
A farlo a posta, il suo signore e padrone insisteva.
— Ebbene, sì, che c’è egli di male? Viva la sincerità. Son tutti amici,
qui, d’antica data, e strettissimi; gradiranno ch’io parli come penso.
Sarebbe ipocrisia in me il tacer loro che sono felice. Credi a me, dolce
amico; — soggiunse, volgendosi all’Aldini; — segui l’esempio di chi ti
vuol bene. Io bevo intanto alla tua fidanzata. —
Filippo era sulle spine; e doveva mostrarsi tranquillo, accogliendo
lietamente gli augurii dell’amico Raimondo.
— Senza conoscerla! — esclamò egli, tanto per dire qualche cosa.
— Eh, pensiamo se tu, almeno tu, non te ne sarai formato un’idea! —
incalzò Raimondo. — Nella mente d’un giovinotto, o nel cuore, la futura
compagna della vita c’è sempre, immagine vaga, da principio, ma che a
poco a poco va prendendo i precisi contorni di una giovine e conosciuta
bellezza. Dico bene?
— Ottimamente! — gridò il Gregoretti. — Dopo la prosa robusta, ci dai la
prosa elegante, la prosa poetica.
— L’argomento ne franca la spesa; — rispose Raimondo, i cui occhi
andavano come per incanto verso la signorina Margherita.
La fanciulla teneva i suoi molto bassi, avendo l’aria di voler
aggiustare una piega della sua sopravveste. Ma intanto si era fatta un
po’ rossa, dal sommo della fronte fino alla radice del collo. E stava
bene così, era più bella che mai, mettendo in mostra il volume dei
capelli neri, ondati e lucenti, che sull’incarnato del viso luccicavano
due volte tanto, con mobili riflessi turchini. Bella e divina creatura!
Un poema, l’aveva dichiarata il Gregoretti, quella medesima sera,
vedendola per la prima volta nel salotto della signora Zuliani. Perchè
poi un poema? Ci sono tanti poemi brutti! e tanti altri mediocri!
Ma il paragone, antico oramai, doveva essere stato fabbricato nel tempo
che di poemi, in Italia, si conoscevano soltanto i divini, quei tre che
tutti sappiamo; dopo i quali, chiudi e sigilla, che il conto è fatto.
— Dunque, — ripigliò il Gregoretti, tenendo bordone a Raimondo, —
vogliamo bere alla futura sposa del nostro Aldini? Egli è qui l’unico
scapolo in età da pentirsi. Péntiti, don Giovanni! —
Eh, don Giovanni nel profondo del suo cuore non avrebbe chiesto niente
di meglio. Ma lì per lì sentiva corrersi un brivido per l’ossa.
— Anche tu? — diss’egli volgendosi al Gregoretti, con aria tra confusa e
seccata.
— Anch’io, sicuro, e tutti quanti siam qui, a volerti bene. Péntiti, don
Giovanni! —
Filippo Aldini guardò intorno a sè, con occhi smarriti, come d’uomo in
punto d’affogare. Tutti, col calice in mano, gli ripetevano la medesima
frase. “Péntiti!„ diceva il Ruggeri; “péntiti!„ il signor Telemaco, che
in verità non diceva nulla, ma consentiva col gesto, e nel gaio concerto
delle voci pareva aggiungere la sua. Ma era dunque una congiura? un
colpo premeditato?
— Lo senti? Te lo dicono tutti in coro; — gridò Raimondo Zuliani,
ridendo a più non posso. — Péntiti, don Giovanni! —
E si rivolgeva, ciò detto, alla sua Livia, come per invocarne l’aiuto.
— Ma sì, — aggiunse allora la signora Zuliani, con la sua vocina
sottile, e accompagnandone il suono con un moto grazioso della sua
testina bionda, — perchè non si pentirebbe, don Giovanni? —
Filippo Aldini era fuori di sè dalla stizza. Ma egli sentì che a durarla
ancora un tratto, sarebbe diventato ridicolo, con quella cera da
funerale, in mezzo a tanta allegria che pareva volersi rovesciar tutta
su lui. A farlo a posta, anche la padrona di casa si metteva dalla parte
dei canzonatori.
Accettò dunque l’invito, come se fosse stato un comando; levò il suo
calice, lo vuotò fino all’ultimo sorso, e rispose con accento risoluto:
— Sia, poichè tutti lo vogliono; mi pentirò. —
Ebbe naturalmente un applauso da tutti; e dopo l’applauso un premio
speciale dal Gregoretti.
— Così va bene; — disse il poeta mattacchione. — Fin da domani metto la
Musa in molle, e ti preparo l’epitaffio. —
Voleva dire l’epitalamio. Ma già la lingua incominciava a tradirlo.


III.

Per l’amico del cuore.

Quella notte, anzi meglio, quella mattina, la signora Cantelli avrebbe
voluto ritirarsi intorno alle due. Veramente, le rincresceva di dare il
mal esempio; ma il suo Federigo doveva essere di buon mattino al suo
posto, e bisognava concedergli almeno quattr’ore di sonno. Il signor
Zuliani aggiustò le cose per bene, proponendo che Federigo andasse via
solo, mentre per le signore, con tanti cavalieri presenti, non sarebbe
mancato chi le accompagnasse al Danieli. In questo modo si guadagnò
un’altr’ora allegra, illuminata dalla grazia, dal sorriso incantevole
della signorina Margherita. Raimondo Zuliani era tutto raggiante di
contentezza, ameno, festevole, attento ad ogni cosa che potesse
occorrere per la felicità dei suoi ospiti; e ciò senza bisogno di
scomodare sua moglie, che doveva lasciarlo fare, standosene regalmente
seduta in trono, ossia, per chiamar le cose col loro nome, nell’angolo
sinistro di un soffice canapè foderato di raso, accanto alla signora
Eleonora.
Ma c’è un fine anche alle veglie notturne; e quando le signore Cantelli
accennarono a prender commiato, Raimondo fu pronto a dar loro per
cavaliere il conte Aldini. Mentre tutti incominciavano a mettersi in
moto, la signora Livia ebbe agio di tirare il marito in disparte.
— Che idea è la tua? — gli bisbigliò. — Non doveva il signor Aldini
accompagnare la Galier? tanto più che sono così vicini di casa?
— Capisco; — rispose Raimondo. — Ma la contessa ci ha il nipote, e
quello può bastare. Credi tu che possa venire in mente a qualcheduno di
rapirtela? Quanto alle signore Cantelli, potrebbe servire il cavaliere
Lunardi? O il signor Telemaco? Mi paiono tutti e due morti dal sonno. Il
Ruggeri è un po’ sventato; e poi, ha veduto le signore per la prima
volta stanotte. Il Gregoretti è un po’ più allegro del solito. Ci ho
pensato bene, mia cara; non c’è altri che Filippo. —
Del resto, era detta, e non si poteva tornare più indietro. “Voce dal
sen fuggita. — Più rattener non vale„. Lo aveva sentenziato il
Metastasio, in una di quelle sue ammirabili strofette per musica. Voleva
la sua Livia sentir gli altri due versi? No, non ce n’era bisogno: li
sapeva a mente, come l’avemmaria.
Per quella volta ancora comandava Raimondo, e l’Aldini accompagnò le
signore Cantelli. Ci andò come la biscia all’incanto; ma ci andò,
muovendosi in compagnia di Raimondo, che da qualche minuto non lasciava
il suo braccio, quasi temendo che dovesse sfuggirgli. In questa guisa
Oreste accompagnò il suo Pilade, fino al piè della gradinata, davanti
alla gondola, dove ossequiò le signore Cantelli, ringraziandole del
grande onore che gli avevano fatto.
La signora Eleonora mostrò di gradir molto la compagnia del conte
Aldini. Margherita non mostrò nulla de’ suoi sentimenti; ma certo era
contenta. Come la gondola approdò alla Riva degli Schiavoni; la
bellissima fanciulla accettò la mano che le tendeva Filippo per aiutarla
a scendere; e Filippo sentì quella mano tremare un pochino nella sua.
Una bella mano che trema, quante cose non dice?
Da quando si conoscevano? Da un mese, cioè dai primi giorni che le
signore Cantelli erano capitate a Venezia. Viaggio e fermata lunga,
tutto era stato per Federigo, che non poteva sperare una licenza per
quella fin d’anno, dopo averne già ottenuto parecchie a brevi
intervalli. Le mamme, per verità, ne vorrebbero una al mese, e si
dolgono delle irragionevoli durezze della disciplina militare, che a
sentirle loro non perderebbe nulla a essere più compiacente; ma è colpa
loro, se han voluto i figliuoli ufficiali di terra o di mare. Ed anche a
Venezia, così presso a Federigo, non potevano mica averlo sempre in
compagnia: quel benedetto servizio aveva le sue esigenze quotidiane.
Perciò altri doveva supplire alle assenze di Federigo, mettendosi a
servizio delle signore Cantelli.
Naturalmente, c’era in prima riga Raimondo Zuliani, l’amico del
banchiere Anselmo, e in continua relazione d’affari con lui. Ma anche
Raimondo aveva le sue ore impegnate: poteva fare una visitina, ed anche
a brevi intervalli, non già mettersi a loro disposizione per visitar
chiese, palazzi e musei. Si sa, quando per una ragione o per l’altra si
capita in una città ragguardevole, in una città storica, ricca di
memorie, di capolavori, di meraviglie d’ogni genere, è obbligo di veder
tutto, per mostrar poi alla gente di non aver viaggiato come bauli.
L’arsenale lo avevano visto con Federigo, che era là come in casa sua, e
ne faceva gli onori. San Marco, i Frari, la Salute e le altre chiese
maggiori si potevano vedere via via nei giorni festivi, in occasione
della messa. Ma il Palazzo dei Dogi, ma l’Accademia, il Museo Correr, i
palazzi del Canal Grande, almeno i più singolari, i più celebrati, non
si potevano visitare senza la compagnia di qualche amabile cicerone, che
per l’appunto non fosse un cicerone di piazza.
Per questo ufficio il signor Brizzi, messo anche lui a disposizione
delle signore, non parve a breve andare l’uomo più adatto; molto
amabile, sicuramente, quantunque a modo suo, ma niente cicerone; ed
egli, dopo tutto, era più utile al banco. O allora? Allora, quale
occasione più favorevole dell’amico Aldini? Quello era proprio l’uomo,
amabile che nulla più, cicerone perfetto, e padrone di tutto il suo
tempo, non avendo niente da fare; condizione invidiabile, checchè si
voglia argomentare in contrario.
E qui diciamo di lui tutto quello che occorre, per non averci a
ritornare con cenni e notizie a spizzico, che paian venire di
contrattempo, e intralcino ad ogni modo il racconto. Filippo Aldini era
stato ufficiale di cavalleria, e in quella divisa era capitato quattro
anni addietro alla guarnigione di Padova. Da Padova si è in un salto a
Venezia, e di quei salti il tenente Aldini ne aveva già fatti parecchi.
A Venezia, un bel giorno, che è che non è, prese la risoluzione di
lasciare il servizio. Lo avevano forse attratto i cavalli di San Marco?
Sia lecito immaginarlo, in mancanza di notizie più esatte. Quanto al
servizio, lo poteva piantar lì senza scrupolo, non avendo egli presa la
via delle armi coll’intenzione di percorrerla intiera. Era ricco,
direte. No, non era ricco. Ricchissima era stata la sua famiglia,
d’antico ceppo parmense; ricchissima sotto i cessati governi; ma in due
o tre generazioni di oziosi aveva trovato il modo di andarsene a rotoli.
Il mutuo e l’ipoteca, due invenzioni pestifere! Al conte Filippo Aldini,
morto il padre e pagati i debiti della successione, restava appena una
tenuta dell’alto Parmigiano, senza ipoteche, grazie al cielo, e che
poteva rendere ancora un anno per l’altro le sue ottomila lire. Mettiamo
tra restauri e miglioramenti un migliaio di lire: un altro migliaio
all’agente, incaricato di riscuotere e di trasmettere; ne avanzavano
ancora seimila. Solo com’era, modesto nelle abitudini, temperato nei
desiderii, con seimila lire d’entrata poteva campare. Il vivere non era
caro a Venezia; ed egli, poi, rinunziava necessariamente al cavallo. La
sua esistenza trascorreva placida in apparenza, uniforme e cheta nei
suoi andamenti, come una gondola sull’acque morte della Laguna. Giovine
di bell’aspetto, intelligente, garbato, serio e discreto, piaceva alle
donne, e non dava sui nervi agli uomini come tanti farfalloni
vanagloriosi. Aveva le sue rimesse da Parma, pagabili presso il banco
Zuliani, e da questa circostanza era nata la sua relazione con Raimondo,
che aveva preso a volergli bene assai presto. L’amicizia è come l’amore;
nasce come e quando le pare. Del resto, così serio e garbato com’era,
l’Aldini non poteva non piacere a Raimondo, che se ne fece tosto un
amico, e a breve andare un compagno inseparabile. Raimondo Zuliani aveva
l’animo aperto e schietto; quando si dava, si dava intiero. Per contro,
aveva l’amicizia invaditrice; l’amico era la cosa sua; se avesse potuto,
ne avrebbe fatto il suo schiavo; per intanto lo considerava come il suo
alunno, il suo pupillo, il suo fratello minore, a cui egli dovesse dar
consiglio, indirizzo, protezione efficace.
Con questo suo modo d’intendere l’amicizia, non poteva certamente
piacergli molto che l’amico suo, così ricco di belle doti, e così
intelligente, non facesse nulla, non si occupasse utilmente di nulla.
Filippo Aldini passava, sì, alle volte, qualche ora a dipingere, cieli e
marine, casupole e barche di pescatori, su tavolette alte una spanna e
larghe in proporzione; un grazioso talento, quello, per farsi merito con
qualche famiglia di amici e di conoscenti, che gradisse il presente del
bozzettino; ma ci voleva ben altro che quattro fregacci, tirati giù a
punti di luna, per diventare un pittore, e metter l’arte a profitto.
Leggeva, più spesso, leggeva anzi ogni giorno, riviste, trattati
scientifici, romanzi e viaggi; ma a che gli serviva tutto ciò? Leggere
le pubblicazioni più recenti, tenersi al fatto delle novità
intellettuali, è una bellissima cosa, ma non può dirsi un lavoro; ci si
nutre lo spirito, non ci si guadagna un soldo, e troppi se ne buttano
via dal libraio. Raimondo Zuliani, che sapeva spendere, aveva anche
imparato a guadagnare, e non ne perdeva mai l’uso.
Ma infine, egli faceva il banchiere, e i suoi cominciamenti erano stati
modestissimi. Poteva forse applicare la sua regola al caso di Filippo
Aldini? Anch’egli, finalmente, senza avvedersene, o senza
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