Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 1 - 17

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senza averlo servato, e poi ad esecuzione in alcuno laudevole atto non
messo, non può avere onorato l'uditore. E mostra ancora in queste
poche parole precedenti l'ardente sua affezione verso l'autore, acciò
per quello faccia ancora piú pronto Virgilio al soccorso dell'autore.
«Poscia che m'ebbe», cioè Beatrice, «ragionato questo», che detto
t'ho, «Gli occhi lucenti lagrimosi volse», per avventura verso il
cielo, dove è qui da intendere che, detta la sua intenzione a
Virgilio, si ritornò. E in questo lagrimare ancora piú d'affezion si
dimostra, dimostrandosi ancora un atto d'amante, e massimamente di
donna, le quali, come hanno pregato d'alcuna cosa la quale disiderino,
incontanente lagrimano, mostrando in quello il disiderio suo essere
ardentissimo. Per la qual cosa dice Virgilio: «Per che mi fece del
venir piú presto: E venni a te», nella piaggia diserta, dove tu
rovinavi lá dove il sol tace, «cosí come ella vòlse»; quasi voglia
dire che altrimenti non sarei venuto. «Dinanzi a quella fiera», cioè a
quella lupa ferocissima, «ti levai, Che del bel monte», sovra 'l qual
tu vedesti i raggi del sole, «il corto andar ti tolse»; percioché, se
davanti parata non ti si fosse, in brieve spazio saresti potuto sopra
il monte essere andato; dove per lo suo impedimento, a volervi sú
pervenire, ti convien fare molto piú lungo cammino.
«Dunque, che è?» cioè quale cagion'è, «perché, perché ristai?» di
seguirmi; e reitera la interrogativa, per pungere piú l'animo
dell'uditore; «Perché», cioè per qual cagione, «tanta viltá», quanta
tu medesimo nelle tue parole dimostri, «nel cuor t'allette?», cioè
chiami colla falsa estimazione, la qual fai delle cose esteriori;
«Perché ardire e franchezza non hai?». E massimamente: «Poi che tali
tre donne benedette», quali di sopra detto t'ho, cioè quella donna
gentile, e Lucia e Beatrice, «Curan di te», cioè hanno sollecitudine
di te e procuran la tua salute, «nella corte del cielo», nella quale
sussidio non è mai negato ad alcuno che umilemente l'addomandi; e,
oltre a ciò, «E 'l mio parlar», al quale tu dovresti dare piena fede,
se tanto amore hai portato e porti alle mie opere (come davanti
dicesti: «Vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore», ecc.), «tanto
ben ti promette?»--cioè di conducerti salvamente in parte, della qual
tu potrai, se tu vorrai, salire alla gloria eterna.
«Quale i fioretti». Qui dissi cominciava la quinta parte di questo
canto, nella quale l'autore, per una comparazione, dimostra il perduto
ardire essergli ritornato e il primo proponimento. Dice adunque cosí:
«Quale i fioretti», li quali nascono per li prati, «dal notturno gelo.
Chinati, e chiusi»; percioché, partendosi il sole, ogni pianta
naturalmente ristrigne il vigor suo; ma parsi questo piú in una che in
un'altra, e massimamente nei fiori, li quali per téma del freddo,
tutti, come il sole comincia a declinare, si richiudono: «poi che 'l
sol gl'imbianca», con la luce sua, venendo sopra la terra. E dice
«imbianca», per questo vocabolo volendo essi diventar parventi, come
paiono le cose bianche e chiare, dove l'oscuritá della notte gli
teneva, quasi neri fossero, occulti. «Si drizzan tutti»; percioché,
avendo il gambo loro sottile e debole, gli fa il freddo notturno
chinare, ma, come il sole punto gli riscalda, tutti si drizzano,
«aperti in loro stelo», cioè sopra il gambo loro, «Tal mi fec'io»,
quale i fioretti, «di mia virtute stanca», per la viltá che m'era nel
cuor venuta; «E tanto buono ardire al cuor mi corse», per li conforti
di Virgilio, «Ch'io cominciai», a dire, «come persona franca», forte e
disposta ad ogni affanno:--«O pietosa colei», cioè Beatrice, «che mi
soccorse», col sollecitarti, e mandarti a me; «E tu», fosti, «cortese,
che ubbidisti tosto Alle vere parole, che ti porse!»; percioché, dove
venuto non fossi, io era veramente per perire. «Tu m'hai con disiderio
il cuor diposto Sí al venir con le parole tue», cioè con i tuoi ùtili
conforti e vere dimostrazioni, «Ch'io son tornato nel primo proposto»,
cioè di seguirti. «Or va', ch'un sol volere è d'amendue». Non si
potrebbe in altra guisa bene andare, se non fosser la guida e 'l
guidato in un volere. «Tu duca», quanto è nell'andare, «tu signore»,
quanto è alla preeminenza e al comandare, «e tu maestro»,--quanto è al
dimostrare; percioché uficio del maestro è il dimostrare la dottrina e
il solvere de' dubbi.
«Cosí gli dissi: e, poi che mosso fue». Qui comincia la sesta ed
ultima parte di questo canto, nella quale l'autore mostra come da capo
riprese il cammino con Virgilio. «Entrai», con Virgilio, «per lo
cammino alto», cioè profondo, «e silvestro», percioché in quello luogo
né albergo né abitazione alcuna si trovava.


II
SENSO ALLEGORICO

«Lo giorno se n'andava e l'aer bruno», ecc. È stato dimostrato dalla
ragione, nella fine del precedente canto, qual via al peccatore tener
gli convegna, per dover salire alla beata vita e partirsi della
miseria della tenebrosa valle. Per la qual dimostrazione, essendosi
esso messo dietro alla ragione in cammino, per continuarsi alle
predette cose, discrive l'autore, nel principio di questo secondo
canto, l'ora nella quale in questo cammino entrarono, la qual dice
essere stata nel principio della notte. Sono adunque, intorno alla
allegoria del presente canto, principalmente da considerare tre cose:
delle quali è la primiera qual ragione possa essere per la quale esso
di notte cominci il suo cammino; appresso è da vedere donde potesse
nascere la viltá, la qual dimostra nel dubbio il quale muove a
Virgilio; ultimamente è da vedere qual cagione movesse Virgilio, e
perché del limbo, a venire nel suo aiuto. Percioché, veduto questo,
assai chiaramente si vedrá per qual cagione da lui si rimovesse la
viltá sua.
È adunque intenzione dell'autore di dimostrare nella prima parte, che
dissi essere da considerare, che, quantunque l'uomo peccatore, tócco
dalla grazia operante di Dio, abbia tanto di conoscimento ricevuto,
ch'egli s'avvegga essere stato nelle tenebre della ignoranza, e per
quello in pericolo di pervenire in morte eterna, e disideri di
ritornare alla via della veritá e d'acquistare salute, e per questo
messo si sia dietro alla guida della ragione, in lui da lungo sonno
stata desta; non esser perciò incontanente tornato nello stato della
grazia, [se altro non s'adopera. E perciò, accioché in quella tornar
si possa, si vuole insiememente pregare Iddio col salmista, dicendo:
«_Domine, deduc me in iustitia tua: propter inimicos meos dirige in
cospectu tuo viam meam_»; e, oltre a questo, fare alcune altre cose,
secondo la dimostrazione della ragione. E queste sono, come altra
volta ho detto, il conoscere pienamente i difetti della vita passata,
e di quegli pèntersi e dolersi, e appresso nelle braccia rimettersene
della Chiesa, e al vicario di Dio confessarsene, disposto a satisfare.
E, questo fatto, potrá veramente credere sé essere nello stato della
grazia di Dio tornato, e le sue buone opere essere accettevoli e
piacevoli nel cospetto suo e valevoli alla sua salute. Ma, infino a
tanto che in questa grazia non è il peccatore ritornato, non può
andare per la via della luce, ma va per le tenebre notturno. E perciò,
per dovere tosto a quella grazia pervenire, dee il peccatore
ingegnarsi di fare ogni atto meritorio: far limosine, l'opere della
misericordia, usare alla chiesa, digiunare, orare, e simili cose
adoperare; percioché, quantunque senza lo stato della grazia a salute
non vagliano, sono nondimeno preparatorie a doversi piú prontamente e
piú prestamente menare a meritare e ad avere la divina grazia.] E
perciò, quantunque ad averla l'autore si disponga, percioché ancora
non l'ha, ne dimostra il principio del suo cammino cominciarsi di
notte.
Séguita di vedere, essendo l'autore giá entrato dietro alla ragione in
cammino, donde potesse nascere in esso la viltá d'animo, la qual
dimostra nel dubbio, il quale seco medesimo muove alla ragione: nel
quale assai manifestamente mostra lui ancora nello stato della grazia
non esser tornato, e per questo aver avuto in lui forza il sospettare
de' consigli della ragione. Per la qual cosa in molti avviene che, in
se medesimi raccolti, contro alle dimostrazioni della ragione
disputano; e di questo, considerata la nostra fragilitá, non ci
dobbiamo noi per avventura molto maravigliare. E la ragione può esser
questa. Assai manifesta cosa è, eziandio in ciascun costante uomo, nel
mutamento d'uno stato ad un altro alquanto gli uomini vacillare e
stare in pendente, s'è il migliore o non è, dello stato nel quale si
trova, trapassare ad un altro, o pure in quel dimorarsi. E non è alcun
dubbio che, stando l'uomo in pendente, che ogni piccola sospinta il
può muovere e farlo piú nell'una parte che nell'altra pendere. Avviene
adunque che quegli, i quali, come detto è, seco talvolta raccolti
sono, quantunque vere conoscano le dimostrazioni della ragione e santi
i suoi consigli, nondimeno d'altra parte, ascoltando le lusinghe della
blanda carne, i conforti del mondo, le persuasioni del diavolo, a poco
a poco cacciando della mente loro il fervor preso del bene adoperare,
non fermato ancora da alcun forte proponimento, intiepidiscono e
divengon vili e timidi; avvisando, per li conforti de' suoi nemici, sé
non dovere poter bastare a quello che il bene adoperare e lo stato
della penitenza richiede. Per la qual viltá, se da solenne aiuto
cacciata non è, assai leggiermente miseri volgiamo i passi e nella
nostra morte ci ritorniamo. La qual cosa all'autore avvenia, se le
pronte e vere dimostrazioni della ragione non l'avesser ritenuto e
confortato a seguitar l'impresa.
Ultimamente dissi che era da vedere qual cagione movesse Virgilio, e
perché del limbo, a venire in aiuto dell'autore: alla qual
dimostrazione tiene questo ordine l'autore. E' pare essere assai
manifesto che ciascheduno, il quale, dalla grazia operante di Dio
tócco, si desta e vede la miseria nella quale le sue colpe l'hanno
condotto, e, cacciate le tenebre della ignoranza, conosce in quanto
mortal pericolo posto sia; che egli, dopo alcuna paura, disideri
fuggire il pericolo e ricorrere alla sua salute: il che, non che
l'uomo, ma eziandio ogni altro animale naturalmente procura. E questo
assai bene apparisce l'autore aver cominciato a fare nel principio
della presente opera, in quanto, desto e conosciuto il suo malvagio
stato, ha cominciato a fuggire il pericolo, e mostra di disiderare di
pervenire alla salute: e ora in questa parte ne mostra quale dee
essere quello che ciascuno, il quale questo disidera, dee, sí come piú
presto e piú al suo bisogno opportuno, fare. E ciò mostra dovere
essere l'orazione; percioché non si può cosí prestamente ricorrere
all'altre cose necessarie alla salute come a quella; e, come che
ancora questo si potesse, non pare ben si proceda, se questa non va
avanti. Alla quale eziandio la natura c'induce, sí come noi per
esperienza veggiamo, percioché, incontanente che alcuna cosa sinistra
veggiamo contro a noi muoversi, subitamente preghiamo per lo divino
aiuto. La qual cosa per avventura vuol mostrar d'aver fatta l'autore
in quelle parole del primo canto, dove dice: «Guardai in alto e vidi
le sue spalle»; percioché atto è di coloro, li quali adorano, levare
il viso al cielo, accioché in quell'atto parte della loro affezione
dimostrino. E a questo, che noi oriamo e preghiamo ne' nostri bisogni,
ne sollecita Gesú Cristo nell'Evangelio, dove dice: «_Pulsate et
aperietur vobis, petite et dabitur vobis_». È il vero che l'orazione
almeno queste due cose vuole avere annesse, fede e umiltá; percioché
chi non ha fede in colui il quale egli priega, cioè ch'egli possa fare
quello che gli è domandato, non pare orare, anzi tentare e schernire.
La qual fede quanto fervente e ferma fosse, apparve nella femmina
cananea, la quale, ancora che non fosse del popolo di Dio, nondimeno
tanta fede ebbe in Gesú Cristo, che istantissimamente il pregò che
liberasse la figliuola dal dimonio che la 'nfestava; e, non essendole
da Cristo alcuna cosa risposto, la intera fede la fece ferma e
costante di perseverare nel priego incominciato. Alla quale avendo
Cristo risposto che non si volea prendere il pane dei figliuoli e
darlo a' cani, non lasciando per questa repulsa, e sospignendola la
sua fede, continuò nel pregare. E, avendo affermato quello, che Cristo
avea detto, esser vero, disse:--Signor mio, e i cani, che si allevano
nella casa, mangiano delle miche che caggiono della mensa del signor
loro.--Volendo per questo dire:--Io cognosco che io non sono del popol
tuo, il quale tu tieni per figliuolo, e perciò non debbo il pane de'
tuoi figliuoli avere; ma io sono uno de' cani allevato in casa tua;
non mi negare quello che a' cani si concede, cioè delle miche che
caggiono dalla mensa tua.--La cui ferma fede conoscendo Cristo, non le
volle, quantunque de' suoi figliuoli non fosse, negare la grazia
addomandata; ma, rivolto a lei, disse:--Femmina, grande è la fede tua:
va', e cosí sia fatto come tu hai creduto.--E quella ora fu dal
dimonio liberata la figliuola di lei.
Vuole adunque l'orazione farsi con fede, e ancora, sí come voi vedete,
con istanzia; percioché Cristo vuole alcuna volta essere sforzato, non
perché la liberalitá sua sia minore, o men volentieri faccia
l'addomandate grazie, ma per fare la nostra perseveranza maggiore e
accioché piú caramente riceviamo quello che con istanzia impetriamo.
Vuole ancora l'orazione esser umile, percioché alcuna nobiltá di
sangue, né abbondanza di sustanze temporali, né magnificenza
d'imperiale o di reale eccellenza la potrebbe di terra levare un
attimo. L'umiltá sola è quella che l'impenna, e falla infine sopra le
stelle volare e quella condurre agli orecchi del Signor del cielo e
della terra. Gran forze son quelle dell'umiltá nel cospetto di Dio: e
come che assai in ciascuna cosa che l'uom vorrá riguardare appaia,
nondimeno mirabilmente il dimostrò nella sua incarnazione; percioché
non real sangue, non etá, non bellezza, non simplicitá, ma sola umiltá
riguardò in quella Vergine, nella quale Egli, di cielo in terra
discendendo, incarnò e prese la nostra umanitá; sí come essa medesima
Vergine testimonia nel suo cantico, quando dice: «_Respexit
humilitatem ancillae suae_»; per che da questa parola degnamente essa
medesima segue: «_Deposuit potentes de sede et exaltavit humiles_».
Fece adunque il nostro autore fedele ed umile orazione a Dio per la
salute sua: la quale, sí come esso medesimo scrive, salí in cielo nel
cospetto di Dio guidata dall'umiltá; percioché, come vedere abbiam
potuto nel precedente canto, l'autore non solamente avea cacciata da
sé la superbia, ma avea paura di lei e fuggivala. E come dobbiamo noi
credere la pietosa e divota orazione guidata dall'umiltá essere
ricevuta in cielo? Certo, non altrimenti che ricevuto fosse il
figliuol prodigo dal pietoso padre, del quale il santo Evangelio ne
dimostra. Fece il pietoso padre uccidere il vitello sagginato, fece
parare il convito, fece chiamare gli amici, e con loro si rallegrò e
fece festa di avere racquistato il suo figliuolo, il quale gli pareva
aver perduto. Cosí si dee credere l'onnipotente Padre aver fatto in
cielo, sentendo per la divota orazione colui alla via della veritá
ritornare, il quale del tutto partito se n'era e ogni sua grazia avea
dispersa e gittata via. Che festa ancora dobbiam credere averne fatta
gli angeli di vita eterna? la letizia de' quali è maggiore sopra un
peccatore che torni a penitenzia, che sopra novantanove giusti. Posta
dunque l'orazione nel cospetto di Dio, quivi, dolendosi del malvagio
stato di colui che la manda, priega; appresso e quello di che ella
priega scrive l'autore, dicendo che ella chiede in sua dimanda Lucia
e, come suo fedele e che ha di lei bisogno, a lei il raccomanda. E
cosí dovemo intendere quella donna gentile essere la santa orazione
fatta dal peccatore, e in questa parte dovemo intendere per Lucia la
divina clemenza, la divina misericordia, la divina benignitá, la qual
veramente è nimica di ciascun crudele, percioché in alcun crudele né
pietá né misericordia si trova giammai.
Appare adunque per questo che l'orazione dell'autore addomandasse
misericordia, per la qual sola noi possiamo, avendo peccato, nella
grazia di Dio ritornare; percioché egli è tanta la indegnitá e la
iniquitá del peccatore in adoperare contro a' comandamenti di Dio,
che, se la sua misericordia non fosse, alcun nostro merito mai ci
potrebbe nel suo amore ritornare.
Quinci, per le cose che seguitano, appare il Nostro Signore aver
prestati benignamente gli orecchi della sua divinitá a' prieghi fatti
dall'umile orazione, in quanto dice l'autore che Lucia, cioè la divina
misericordia, chiamò Beatrice, cioè se medesima dispose a mettere in
atto il priego ricevuto: il che appare, in quanto Beatrice, che quivi
la grazia salvificante o vogliam dire beatificante s'intende, alla
salute del pregante si dispose: il che dallo intrinseco della divina
mente procedette. Grande è per certo, come dice san Gregorio, la virtú
della orazione, la quale, fatta in terra, adopera in cielo: il che qui
manifestamente appare, sí come al peccatore è dimostrato; percioché la
forza della sua orazione ha rotto e annullato il duro giudicio di Dio,
nel quale esso Iddio vuole che il peccatore sia punito; e l'umile
orazione ha tanto potuto che, rotto questo giudicio, al peccatore, in
luogo della pena, è conceduta misericordia; e non solamente
misericordia, ma ancora preparatagli e mostratagli la via da pervenire
a salvazione. Che adunque avviene? Che, per lo desiderio della salute
sua, la divina bontá fa che, per la grazia salvificante, si muove
Virgilio del limbo: il quale qui si prende per la ragione, per la
quale noi siamo detti «animali razionali», o vogliam dire, per la
grazia cooperante, o vogliam dire l'una e l'altra insieme;
conciosiacosaché alcuno piú atto luogo in noi io non cognosca, dove la
grazia cooperante mandatane da Dio si debba piú tosto ricevere che
nella sedia della ragione; conciosiacosaché essa, dopo la grazia
operante ben ricevuta, ogni bene in noi disponga e ordini, e con noi
insieme adoperi.
E, a dichiarare come Virgilio del limbo sia mosso, è da sapere, come
giá dicemmo, esser due mondi: l'uno si chiama il maggiore e l'altro il
minore, sí come ne mostra Bernardo Silvestre in due suoi libri, de'
quali il primo è intitolato _Megacosmo_ da due nomi greci, cioè da
«_mega_», che in latino viene a dire «maggiore», e da «_cosmos_», che
in latino viene a dire «mondo»: e il secondo è chiamato _Microcosmo_,
da «_micros_», greco, che in latino viene a dire «minore», e
«_cosmos_», che vuol dire «mondo». E, ne' detti libri, ne dimostra il
detto Bernardo il maggior mondo esser questo il quale noi abitiamo, e
che noi generalmente chiamiamo «mondo», e il minor mondo esser l'uomo,
nel quale vogliono gli antichi, sottilmente investigando, trovarsi
tutti o quasi tutti gli accidenti che nel maggior mondo sono. Ed è del
maggior mondo quella parte chiamata «limbo», la quale non ha sopra di
sé altra cosa, che il cerchio della circunferenza della terra, o la
estrema superficie della terra che noi vogliam dire. E, quantunque
l'autore, secondo la sentenza litterale, mostri Virgilio essere nel
limbo, [cioè nell'uno] del maggior mondo, non è da intendere che
quindi fosse mossa la ragione da Beatrice, ma fu mossa dal limbo del
mondo minore, cioè dalla piú eminente parte dell'uomo, la quale è il
cerebro, sopra il quale nulla altra cosa è del nostro corpo, se non il
cranio e la cotenna; percioché in quello fu da Dio locata la ragione.
E questo, percioché ad essa è stata commessa la guardia di tutto il
corpo nostro, e, oltre a ciò, il dominio a dovere regolare i movimenti
della nostra sensualitá, sí come ad ottima distinguitrice delle cose
nocive dall'utili. E convenevole cosa è che colui al quale è commessa
la guardia d'alcuna cosa, che egli stea nella piú sublime parte di
quella, accioché esso possa vedere e discernere di lontano ogni cosa
emergente, e a quelle cose, che fossero avverse alla cosa la qual
guarda, opporsi e trovar rimedio, per lo quale da sé le dilunghi: la
qual cosa ne' sensati uomini ottimamente fa la ragione posta nella
superiore parte di noi. Oltre a questo, come il savio re pone il suo
real solio in quella parte del suo regno, nella qual conosce esser di
maggior bisogno la sua presenza, accioché per questa si tolgan via le
sedizioni e i movimenti inimichevoli, fu di bisogno la ragione esser
posta nel cerebro, percioché qui vi è piú di pericolo che in tutto il
rimanente del nostro corpo. E la ragione è, percioché nella nostra
testa son gli occhi, gli orecchi, la bocca e tutti gli altri sensi del
corpo, li quali con ogni istanzia nutricano il regno della ragione. E
perciò, se loro vicina non fosse, potrebbon muovere cose assai
dannose, dove dalla ragione sono oppresse e diminuite le forze loro. E
questa sedia della ragione essere nel nostro cerebro, e perché quivi,
ottimamente sotto maravigliosa fizione dimostra Virgilio nel primo
dell'_Eneida_, dove dice:
_Aeoliam venit: hic vasto rex Aeolus antro_, ecc.,
e, appresso a questo, in piú altri versi.
È adunque nel limbo, cioè nella superior parte di questo minor mondo,
la ragione, e quindi la muove la grazia salvificante in soccorso del
peccatore. Il quale movimento non si dee altro intendere se non un
rilevarla dallo infimo e depresso stato nel quale lungamente tenuta
l'aveano l'appetito concupiscibile e irascibile, e, lei sotto i piedi
delle loro scellerate operazioni tenendo, aveano occupata la sedia
sua; e questo per tanto tempo, che essa, non potendo il suo oficio
esercitare, era tacendo divenuta fioca, cioè nell'esser fioca
dimostrava la lunghezza della sua servitudine: e, cosí rilevatala, in
essa pone la grazia cooperante, e parala dinanzi allo smarrito
intelletto del peccatore. E di questo non è alcun dubbio che noi,
quante volte ci ravveggiamo delle nostre disoneste operazioni, tante
per divina grazia ricominciamo ad essere uomini, i quali non siamo
quanto nella ignoranza de' peccati dimoriamo: anzi, avendo la ragion
perduta, siamo divenuti quegli animali bruti, a' quali, come altra
volta è detto, sono i nostri difetti conformi. Il che se altra
dottrina non ci mostrasse, spesse volte ne 'l mostrano le poetiche
fizioni, quando ne dicono alcuno uomo essersi trasformato in lupo,
alcuno in leone, alcuno in asino o in alcun'altra forma bestiale. E
come la ragione dalla grazia salvificante è nella sua real sedia
rimessa, fatta donna e consultrice e aiutatrice del peccatore, il
toglie co' suoi ammaestramenti dinanzi a' vizi, li quali gli hanno
tolta la corta salita al monte, cioè al luogo della sua salute. E
«corta» dice, percioché agli uomini, li quali in istato d'innocenzia
vivono, è il salire a questo monte leggerissimo, sí come il salmista
ne mostra, lá dove dice: «_Quis ascendet in montem Domini, aut quis
stabit in loco sancto eius?_». E rispondendo alla domanda, quello
n'afferma che io dico, dicendo: «_Innocens manibus et mundo corde, qui
non accepit in vano animam suam, nec iuravit in dolo proximo suo_»; ma
a coloro diventa molto lunga, i quali ne' peccati miseramente vivono.
E, oltre a questo, riprende e morde la viltá dell'animo di quegli, i
quali, tirati dalle mollizie del mondo, del divino aiuto mostran di
disperarsi; mostrando loro come, per loro [l']umile orazione, la
misericordia di Dio e la grazia salvificante procurin per loro nel
cospetto di Dio; mostrando ancora come sicuramente ad ogni affanno
metter si possano, avendo sé, cioè, la grazia cooperante, con loro e
in loro aiuto e consiglio.
Maraviglierannosi per avventura alcuni, e diranno:--A che era di
bisogno che la grazia salvificante movesse o rilevasse la ragione
nell'autore?--Alla qual domanda è la risposta prontissima. Vuole cosí
la ragion delle cose che, negli atti morali, sí come questo è, noi non
possiamo alcuna cosa bene adoperare né con ordine debito, se noi
primieramente non cognosciamo il fine al qual noi dobbiamo adoperare;
percioché la notizia di quello ha a causare i nostri primi atti, e di
quindi ad ordinare quegli che appresso a' primi e susseguentemente
deono seguire. Come comporrá il cirugico il suo unguento, o il fisico
la sua medicina, se prima il cirugico non vede il malore, il fisico
l'umore da purgare? Come dará il nocchiere la vela del suo legno a'
venti, se esso primieramente non avrá conosciuto e disposto in qual
contrada esso voglia pervenire? Come fará l'architetto fondare un
edificio, o preparar la materia da edificarlo, se egli primieramente
non sa che spezie d'edificio debba esser quello che far si dee?
Conciosiacosaché altra forma e altro maestro voglia un tempio che un
palagio reale, e altra forma il palagio che una casa cittadinesca. È
adunque di necessitá primieramente cognoscere il fine, che noi pognamo
alcuno nostro atto in opera. E perciò, se ben guarderemo, se il
disiderio del peccatore è di salvarsi, esser la grazia salvificante
causativa di quelle nostre operazioni, le quali a salute ci possan
perducere; e di queste nostre operazioni conviene che sia
dimostratrice e ordinatrice la ragione: e però la ragione è la prima
cosa causata dalla grazia salvificante, la quale l'autor mostra in
persona di Beatrice venire a muover Virgilio. E questo scendere non si
dee intendere essere stato attuale; ma semplicemente la volontá di
Dio, provocata dall'umile orazione del peccatore a misericordia, è
causativa di questo rilevamento della ragione, in quanto in essa sta
il concedere la grazia salvificante. Adunque, avvicinandosi alla
conclusione, dico l'autore, per le riprensioni della ragione in lui
ritornata, e per gli ammonimenti di lei, avere la viltá, presa da'
malvagi conforti de' nostri nemici, posta giú e cacciata da sé;
riprende, per lo sano consiglio della ragione, il vigore e la forza
smarrita, e nel primo suo buono proponimento si ritorna, e, ad ogni
fatica per acquistar salute disposto, con la ragione insieme riprende
il cammino. E questa si può dire essere interamente l'esposizione
allegorica del presente canto. Né sia alcuno sí poco savio, che creda
queste cose, quantunque mostrino nel descriversi aver certe
interposizioni di tempo, non doversi poter fare senza la dimostrata
interposizione; percioché egli è possibile di muovere la divinitá, e
d'aver veduto ciò che l'autore dee nello 'nferno vedere, e di
pervenire alla porta di purgatorio, e ancora di salire in cielo, quasi
in un momento, pure che la contrizione sia grande e il fervore della
caritá ferventissimo e intero, come di molti abbiam giá letto essere
stato.


CANTO TERZO
I
SENSO LETTERALE

[Lez. IX]
«Per me si va nella cittá dolente», ecc. In questo canto ne racconta
l'autore come alla porta dello 'nferno pervenissero, e come dentro ad
essa fosse da Virgilio menato, e quivi vedesse i cattivi miseramente
afflitti, e ultimamente pervenissero al fiume d'Acheronte. E dividesi
questo canto in due parti: nella prima mostra come alla prima porta
dello 'nferno pervenisse, e dentro a quella fosse da Virgilio menato;
nella seconda parte discrive quello che dentro della porta udisse e
vedesse. E comincia quivi: «Quivi sospiri, pianti ed alti guai».
Adunque nella prima parte, continuandosi a quello che nella fine del
precedente canto ha detto, cioè come con Virgilio entrasse in cammino,
dice dove pervenne, cioè alla prima porta dell'entrata d'inferno;
sopra la qual, dice, vide scritto: «Per me», cioè per entro me, «si va
nella cittá dolente», cioè nella cittá di Dite, dolente in perpetuo
per li dannati spiriti li quali dentro vi sono; della qual cittá,
percioché pienamente se ne scriverá in questo libro appresso nel canto
ottavo, qui non curo di dirne alcuna cosa; «Per me si va nell'eterno
dolore», al quale dannati sono coloro li quali muoiono nell'ira di
Dio; «Per me si va tra la perduta gente». Dice «perduta», percioché
alcuna potenza di bene adoperare non è in loro; e questi cotali
meritamente si posson dir perduti. «Giustizia mosse», a farmi: e la
giustizia che 'l mosse fu la superbia del Lucifero, la quale meritò
eterno supplicio; il quale Iddio volle tanto da sé dilungare, quanto
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