Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 1 - 02

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conosciute da' liberi uomini; e venire a cose che fuggir non si
possono. Chi dubita che della sua donna, che ella sia bella o non
bella, non caggia il giudicio nel vulgo? Se bella fia reputata, chi
dubita che essa subitamente non abbia molti amadori, de' quali alcuno
con la sua bellezza, altri con la sua nobiltá, e tale con maravigliose
lusinghe, e chi con doni, e quale con piacevolezza infestissimamente
combatterá il non stabile animo? E quel, che molti disiderano,
malagevolmente da alcuno si difende. E alla pudicizia delle donne non
bisogna d'essere presa piú che una volta, a fare sé infame e i mariti
dolorosi in perpetuo. Se per isciagura di chi a casa la si mena, fia
sozza, assai aperto veggiamo le bellissime spesse volte e tosto
rincrescere; che dunque dell'altre possiamo pensare, se non che, non
che esse, ma ancora ogni luogo nel quale esse sieno credute trovare da
coloro, a' quali sempre le conviene aver per loro, è avuto in odio?
Onde le loro ire nascono, né alcuna fiera è piú né tanto crudele
quanto la femmina adirata, né può viver sicuro di sé, chi sé commette
ad alcuna, alla quale paia con ragione esser crucciata; che pare a
tutte.
Che dirò de' loro costumi? Se io vorrò mostrare come e quanto essi
sieno tutti contrari alla pace e al riposo degli uomini, io tirerò in
troppo lungo sermone il mio ragionare; e però uno solo, quasi a tutte
generale, basti averne detto. Esse immaginano il bene operare ogni
menomo servo ritener nella casa, e il contrario fargli cacciare; per
che estimano, se ben fanno, non altra sorte esser la lor che d'un
servo: per che allora par solamente loro esser donne, quando, male
adoperando, non vengono al fine che' fanti fanno. Perché voglio io
andare dimostrando particularmente quello che gli piú sanno? Io
giudico che sia meglio il tacersi che dispiacere, parlando, alle vaghe
donne. Chi non sa che tutte l'altre cose si pruovano, prima che colui,
di cui debbono esser, comperate, le prenda, se non la moglie, accioché
prima non dispiaccia che sia menata? A ciascuno che la prende, la
conviene avere non tale quale egli la vorrebbe, ma quale la fortuna
gliele concede. E se le cose che di sopra son dette son vere (che il
sa chi provate l'ha), possiamo pensare quanti dolori nascondano le
camere, li quali di fuori, da chi non ha occhi la cui perspicacitá
trapassi le mura sono reputati diletti. Certo io non affermo queste
cose a Dante essere avvenute, ché nol so; comeché vero sia che, o
simili cose a queste, o altre che ne fosser cagione, egli, una volta
da lei partitosi, che per consolazione de' suoi affanni gli era stata
data, mai né dove ella fosse volle venire, né sofferse che lá dove
egli fosse ella venisse giammai; con tutto che di piú figliuoli egli
insieme con lei fosse parente. Né creda alcuno che io per le su dette
cose voglia conchiudere gli uomini non dover tôrre moglie; anzi il
lodo molto, ma non a ciascuno. Lascino i filosofanti lo sposarsi a'
ricchi stolti, a' signori e a' lavoratori, e essi con la filosofia si
dilettino, molto migliore sposa che alcuna altra.


VIII
OPPOSTE VICENDE DELLA VITA PUBBLICA DI DANTE

Natura generale è delle cose temporali, l'una l'altra tirarsi di
dietro. La familiar cura trasse Dante alla publica, nella quale tanto
l'avvilupparono li vani onori che alli publici ofici congiunti sono,
che, senza guardare donde s'era partito e dove andava con abbandonate
redine, quasi tutto al governo di quella si diede; e fugli tanto in
ciò la fortuna seconda, che niuna legazion s'ascoltava, a niuna si
rispondea, niuna legge si fermava, niuna se ne abrogava, niuna pace si
faceva, niuna guerra publica s'imprendeva, e brievemente niuna
diliberazione, la quale alcuno pondo portasse, si pigliava, s'egli in
ciò non dicesse prima la sua sentenzia. In lui tutta la publica fede,
in lui ogni speranza, in lui sommariamente le divine cose e l'umane
parevano esser fermate. Ma la Fortuna, volgitrice de' nostri consigli
e inimica d'ogni umano stato, comeché per alquanti anni nel colmo
della sua rota gloriosamente reggendo il tenesse, assai diverso fine
al principio recò a lui, in lei fidantesi di soperchio.


IX
COME LA LOTTA DELLE PARTI LO COINVOLSE

Era al tempo di costui la fiorentina cittadinanza in due parti
perversissimamente divisa, e, con l'operazioni di sagacissimi e
avveduti prencipi di quelle, era ciascuna assai possente; intanto che
alcuna volta l'una e alcuna l'altra reggeva oltre al piacere della
sottoposta. A volere riducere a unitá il partito corpo della sua
republica, pose Dante ogni suo ingegno, ogni arte, ogni studio,
mostrando a' cittadini piú savi come le gran cose per la discordia in
brieve tempo tornano al niente, e le picciole per la concordia
crescere in infinito. Ma, poi che vide essere vana la sua fatica, e
conobbe gli animi degli uditori ostinati; credendolo giudicio di Dio,
prima propose di lasciar del tutto ogni publico oficio e vivere seco
privatamente; poi dalla dolcezza della gloria tirato e dal vano favor
popolesco e ancora dalle persuasioni de' maggiori; credendosi, oltre a
questo, se tempo gli occorresse, molto piú di bene potere operare per
la sua cittá, se nelle cose publiche fosse grande, che a sé privato e
da quelle del tutto rimosso (oh stolta vaghezza degli umani splendori,
quanto sono le tue forze maggiori, che creder non può chi provati non
gli ha!): il maturo uomo e nel santo seno della filosofia allevato,
nutricato e ammaestrato, al quale erano davanti dagli occhi i
cadimenti de' re antichi e de' moderni, le desolazioni de' regni,
delle province e delle cittá e li furiosi impeti della Fortuna, niun
altro cercanti che l'alte cose, non si seppe o non si poté dalla tua
dolcezza guardare.
Fermossi adunque Dante a volere seguire gli onori caduchi e la vana
pompa dei publici ofici; e, veggendo che per se medesimo non potea una
terza parte tenere, la quale, giustissima, l'ingiustizia dell'altre
due abbattesse, tornandole ad unitá; con quella s'accostò, nella
quale, secondo il suo giudicio, era piú di ragione e di giustizia;
operando continuamente ciò che salutevole alla sua patria e a'
cittadini conoscea. Ma gli umani consigli le piú delle volte rimangon
vinti dalle forze del cielo. Gli odii e l'animositá prese, ancora che
sanza giusta cagione nati fossoro, di giorno in giorno divenivan
maggiori, in tanto che non senza grandissima confusione de' cittadini,
piú volte si venne all'arme con intendimento di por fine alla lor lite
col fuoco e col ferro: sí accecati dall'ira, che non vedevano sé con
quella miseramente perire. Ma, poi che ciascuna delle parti ebbe piú
volte fatta pruova delle sue forze con vicendevoli danni dell'una e
dell'altra; venuto il tempo che gli occulti consigli della minacciante
fortuna si doveano scoprire, la fama, parimente del vero e del falso
rapportatrice, nunziando gli avversari della parte presa da Dante, di
maravigliosi e d'astuti consigli esser forte e di grandissima
moltitudine d'armati, sí gli prencipi de' collegati di Dante spaventò,
che ogni consilio, ogni avvedimento e ogni argomento cacciò da loro,
se non il cercare con fuga la loro salute; co' quali insieme Dante, in
un momento prostrato della sommitá del reggimento della sua cittá, non
solamente gittato in terra si vide, ma cacciato di quella. Dopo questa
cacciata non molti dí, essendo giá stato dal popolazzo corso alle case
de' cacciati, e furiosamente votate e rubate, poi che i vittoriosi
ebbero la cittá riformata secondo il loro giudicio, furono tutti i
prencipi de' loro avversari, e con loro, non come de' minori ma quasi
principale, Dante, sí come capitali nemici della republica dannati a
perpetuo esilio, e li loro stabili beni o in publico furon ridotti, o
alienati a' vincitori.


X
SI MALEDICE ALL'INGIUSTA CONDANNA D'ESILIO

Questo merito riportò Dante del tenero amore avuto alla sua patria!
questo merito riportò Dante dell'affanno avuto in voler tôrre via le
discordie cittadine! questo merito riportò Dante dell'avere con ogni
sollecitudine cercato il bene, la pace e la tranquillitá de' suoi
cittadini! Per che assai manifestamente appare quanto sieno vòti di
veritá i favori de' popoli, e quanta fidanza si possa in essi avere.
Colui, nel quale poco avanti pareva ogni publica speranza esser posta,
ogni affezione cittadina, ogni rifugio populare; subitamente, senza
cagione legittima, senza offesa, senza peccato, da quel romore, il
quale per addrieto s'era molte volte udito le sue laude portare infino
alle stelle, è furiosamente mandato in inrevocabile esilio. Questa fu
la marmorea statua fattagli ad eterna memoria della sua virtú! con
queste lettere fu il suo nome tra quegli de' padri della patria
scritto in tavole d'oro! con cosí favorevole romore gli furono rendute
grazie de' suoi benefici! Chi sará dunque colui che, a queste cose
guardando, dica la nostra republica da questo piè non andare
sciancata?
Oh vana fidanza de' mortali, da quanti esempli altissimi se' tu
continuamente ripresa, ammonita e gastigata! Deh! se Cammillo,
Rutilio, Coriolano, e l'uno e l'altro Scipione, e gli altri antichi
valenti uomini per la lunghezza del tempo interposto ti sono della
memoria caduti, questo ricente caso ti faccia con piú temperate redine
correr ne' tuoi piaceri. Niuna cosa ci ha meno stabilita che la
popolesca grazia; niuna piú pazza speranza, niuno piú folle consiglio
che quello che a crederle conforta nessuno. Levinsi adunque gli animi
al cielo, nella cui perpetua legge, nelli cui eterni splendori, nella
cui vera bellezza si potrá senza alcuna oscuritá conoscere la
stabilitá di Colui che lui e le altre cose con ragione muove;
accioché, sí come in termine fisso, lasciando le transitorie cose, in
lui si fermi ogni nostra speranza, se trovare non ci vogliamo
ingannati.


XI
LA VITA DEL POETA ESULE SINO ALLA VENUTA IN ITALIA DI ARRIGO SETTIMO

Uscito adunque in cotal maniera Dante di quella cittá, della quale
egli non solamente era cittadino, ma n'erano li suoi maggiori stati
reedificatori, e lasciatavi la sua donna, insieme con l'altra
famiglia, male per picciola etá alla fuga disposta; di lei sicuro,
percioché di consanguinitá la sapeva ad alcuno de' prencipi della
parte avversa congiunta, di se medesimo or qua or lá incerto, andava
vagando per Toscana. Era alcuna particella delle sue possessioni dalla
donna col titolo della sua dote dalla cittadina rabbia stata con
fatica difesa, de' frutti della quale essa sé e i piccioli figliuoli
di lui assai sottilmente reggeva; per la qual cosa povero, con
industria disusata gli convenia il sostentamento di se medesimo
procacciare. Oh quanti onesti sdegni gli convenne posporre, piú duri a
lui che morte a trapassare, promettendogli la speranza questi dover
esser brievi, e prossima la tornata! Egli, oltre al suo stimare,
parecchi anni, tornato da Verona (dove nel primo fuggire a messer
Alberto della Scala n'era ito, dal quale benignamente era stato
ricevuto), quando col conte Salvatico in Casentino, quando col
marchese Morruello Malespina in Lunigiana, quando con quegli della
Faggiuola ne' monti vicini ad Orbino, assai convenevolmente, secondo
il tempo e secondo la loro possibilitá, onorato si stette. Quindi poi
se n'andò a Bologna, dove poco stato n'andò a Padova, e quindi da capo
si ritornò a Verona. Ma poi ch'egli vide da ogni parte chiudersi la
via alla tornata, e di dí in dí piú divenire vana la sua speranza; non
solamente Toscana, ma tutta Italia abbandonata, passati i monti che
quella dividono dalla provincia di Gallia, come poté, se n'andò a
Parigi; e quivi tutto si diede allo studio e della filosofia e della
teologia, ritornando ancora in sé dell'altre scienzie ciò che forse
per gli altri impedimenti avuti se ne era partito. E in ciò il tempo
studiosamente spendendo, avvenne che oltre al suo avviso, Arrigo,
conte di Luzimborgo, con volontá e mandato di Clemente papa V, il
quale allora sedea, fu eletto in re de' romani, e appresso coronato
imperadore. Il quale sentendo Dante della Magna partirsi per
soggiogarsi Italia, alla sua maestá in parte rebelle, e giá con
potentissimo braccio tenere Brescia assediata, avvisando lui per molte
ragioni dover essere vincitore; prese speranza con la sua forza e
dalla sua giustizia di potere in Fiorenza tornare, comeché a lui la
sentisse contraria. Perché ripassate l'alpi, con molti nemici di
fiorentini e di lor parte congiuntosi, e con ambascerie e con lettere
s'ingegnarono di tirare lo 'mperadore da l'assedio di Brescia,
accioché a Fiorenza il ponesse, sí come a principale membro de' suoi
nemici; mostrandogli che, superata quella, niuna fatica gli restava, o
piccola, ad avere libera ed espedita la possessione e il dominio di
tutta Italia. E comeché a lui e agli altri a ciò tenenti venisse fatto
il trarloci, non ebbe perciò la sua venuta il fine da loro avvisato:
le resistenze furon grandissime, e assai maggiori che da loro avvisate
non erano; per che, senza avere niuna notevole cosa operata, lo
'mperadore, partitosi quasi disperato, verso Roma drizzò il suo
cammino. E come che in una parte e in altra piú cose facesse, assai ne
ordinasse e molte di farne proponesse, ogni cosa ruppe la troppo
avacciata morte di lui: per la qual morte generalmente ciascuno che a
lui attendea disperatosi, e massimamente Dante, sanza andare di suo
ritorno piú avanti cercando, passate l'alpi d'Appennino, se ne andò in
Romagna, lá dove l'ultimo suo dí, e che alle sue fatiche doveva por
fine, l'aspettava.


XII
DANTE OSPITE DI GUIDO NOVEL DA POLENTA

Era in que' tempi signore di Ravenna, famosa e antica cittá di
Romagna, uno nobile cavaliere, il cui nome era Guido Novel da Polenta;
il quale, ne' liberali studi ammaestrato, sommamente i valorosi uomini
onorava, e massimamente quegli che per iscienza gli altri avanzavano.
Alle cui orecchie venuto Dante, fuori d'ogni speranza, essere in
Romagna (avendo egli lungo tempo avanti per fama conosciuto il suo
valore) in tanta disperazione, sí dispose di riceverlo e d'onorarlo.
Né aspettò di ciò da lui essere richiesto, ma con liberale animo,
considerata qual sia a' valorosi la vergogna del domandare, e con
proferte, gli si fece davanti, richiedendo di spezial grazia a Dante
quello ch'egli sapeva che Dante a lui dovea dimandare: cioè che seco
li piacesse di dover essere. Concorrendo adunque i due voleri a un
medesimo fine, e del domandato e del domandatore, e piacendo
sommamente a Dante la liberalitá del nobile cavaliere, e d'altra parte
il bisogno strignendolo, senza aspettare piú inviti che 'l primo, se
n'andò a Ravenna, dove onorevolemente dal signore di quella ricevuto,
e con piacevoli conforti risuscitata la caduta speranza, copiosamente
le cose opportune donandogli, in quella seco per piú anni il tenne,
anzi infino a l'ultimo della vita di lui.


XIII
SUA PERSEVERANZA AL LAVORO

Non poterono gli amorosi disiri, né le dolenti lagrime, né la
sollecitudine casalinga, né la lusinghevole gloria de' publici ofici,
né il miserabile esilio, né la intollerabile povertá giammai con le
lor forze rimuovere il nostro Dante dal principale intento, cioè da'
sacri studi; percioché, sí come si vederá dove appresso partitamente
dell'opere da lui fatte si fará menzione, egli, nel mezzo di qualunque
fu piú fiera delle passioni sopradette, si troverá componendo essersi
esercitato. E se, obstanti cotanti e cosí fatti avversari, quanti e
quali di sopra sono stati mostrati, egli per forza d'ingegno e di
perseveranza riuscí chiaro qual noi veggiamo; che si può sperare
ch'esso fosse divenuto, avendo avuti altrettanti aiutatori, o almeno
niuno contrario, o pochissimi, come hanno molti? Certo, io non so; ma
se licito fosse a dire, io direi ch'egli fosse in terra divenuto uno
iddio.


XIV
GRANDEZZA DEL POETA VOLGARE-SUA MORTE

Abitò adunque Dante in Ravenna, tolta via ogni speranza di ritornare
mai in Firenze (comeché tolto non fosse il disio) piú anni sotto la
protezione del grazioso signore; e quivi con le sue dimostrazioni fece
piú scolari in poesia e massimamente nella volgare; la quale, secondo
il mio giudicio, egli primo non altramenti fra noi italici esaltò e
recò in pregio, che la sua Omero tra' greci o Virgilio tra' latini.
Davanti a costui, come che per poco spazio d'anni si creda che innanzi
trovata fosse, niuno fu che ardire o sentimento avesse, dal numero
delle sillabe e dalla consonanza delle parti estreme in fuori, di
farla essere strumento d'alcuna artificiosa materia; anzi solamente in
leggerissime cose d'amore con essa s'esercitavano. Costui mostrò con
effetto con essa ogni alta materia potersi trattare, e glorioso sopra
ogni altro fece il volgar nostro.
Ma, poiché la sua ora venne segnata a ciascheduno, essendo egli giá
nel mezzo o presso del cinquantesimo sesto suo anno infermato, e
secondo la cristiana religione ogni ecclesiastico sacramento umilmente
e con divozione ricevuto, e a Dio per contrizione d'ogni cosa commessa
da lui contra al suo piacere, sí come da uomo, riconciliatosi; del
mese di settembre negli anni di Cristo MCCCXXI, nel dí che la
esaltazione della santa Croce si celebra dalla Chiesa, non sanza
grandissimo dolore del sopradetto Guido, e generalmente di tutti gli
altri cittadini ravignani, al suo Creatore rendé il faticato spirito;
il quale non dubito che ricevuto non fosse nelle braccia della sua
nobilissima Beatrice, con la quale nel cospetto di Colui ch'è sommo
bene, lasciate le miserie della presente vita, ora lietissimamente
vive in quella, alla cui felicitá fine giammai non s'aspetta.


XV
SEPOLTURA E ONORI FUNEBRI

Fece il magnanimo cavaliere il morto corpo di Dante d'ornamenti
poetici sopra uno funebre letto adornare; e quello fatto portare sopra
gli omeri de' suoi cittadini piú solenni, infino al luogo de' frati
minori in Ravenna, con quello onore che a sí fatto corpo degno
estimava, infino quivi quasi con publico pianto seguitolo, in una arca
lapidea, nella quale ancora giace, il fece porre. E, tornato alla casa
nella quale Dante era prima abitato, secondo il ravignano costume,
esso medesimo, sí a commendazione dell'alta scienzia e della vertú del
defunto, e sí a consolazione de' suoi amici, li quali egli avea in
amarissima vita lasciati, fece un ornato e lungo sermone; disposto, se
lo stato e la vita fossero durati, di sí egregia sepoltura onorarlo,
che, se mai alcuno altro suo merito non l'avesse memorevole renduto a'
futuri, quella l'avrebbe fatto.


XVI
GARA DI POETI PER L'EPITAFIO DI DANTE

Questo laudevole proponimento infra brieve spazio di tempo fu
manifesto ad alquanti, li quali in quel tempo erano in poesí
solennissimi in Romagna; per che ciascuno sí per mostrare la sua
sofficienzia, sí per rendere testimonianza della portata benivolenzia
da loro al morto poeta, sí per captare la grazia e l'amore del
signore, il quale ciò sapevano disiderare, ciascuno per sé fece versi,
li quali, posti per epitafio alla futura sepultura. con debite lode
facessero la posteritá certa chi dentro da essa giacesse; e al
magnifico signore gli mandarono. Il quale con gran peccato della
fortuna non dopo molto tempo, toltogli lo Stato, si morí a Bologna;
per la qual cosa e il fare il sepolcro e il porvi li mandati versi si
rimase. Li quali versi stati a me mostrati poi piú tempo appresso, e
veggendo loro avere avuto luogo per lo caso giá dimostrato, pensando
le presenti cose per me scritte, comeché sepoltura non sieno
corporale, ma sieno, sí come quella sarebbe stata, perpetue
conservatrici della colui memoria; imaginai non essere sconvenevole
quegli aggiugnere a queste cose. Ma, percioché piú che quegli che
l'uno di coloro avesse fatti (che furon piú) non si sarebbero ne'
marmi intagliati, cosí solamente quegli d'uno qui estimai che fosser
da scrivere; per che, tutti meco esaminatigli, per arte e per
intendimento piú degni estimai che fossero quattordici fattine da
maestro Giovanni del Virgilio bolognese, allora famosissimo e gran
poeta, e di Dante stato singularissimo amico; li quali sono questi
appresso scritti:


XVII
EPITAFIO

_Theologus Dantes, nullius dogmatis expers,
quod foveat claro philosophia sinu:
gloria musarum, vulgo gratissimus auctor,
hic iacet, et fama pulsat utrumque polum:
qui loca defunctis gladiis regnumque gemellis
distribuit, laicis rhetoricisque modis.
Pascua Pieriis demum resonabat avenis;
Atropos heu laetum livida rupit opus.
Huic ingrata tulit tristem Florentia fructum,
exilium, vati patria cruda suo.
Quem pia Guidonis gremio Ravenna Novelli
gaudet honorati continuisse ducis,
mille trecentenis ter septem Numinis annis,
ad sua septembris idibus astra redit._


XVIII
RIMPROVERO AI FIORENTINI

Oh ingrata patria, quale demenzia, qual trascutaggine ti teneva,
quando tu il tuo carissimo cittadino, il tuo benefattore precipuo, il
tuo unico poeta con crudeltá disusata mettesti in fuga; o poscia
tenuta t'ha? Se forse per la comune furia di quel tempo mal
consigliata ti scusi; ché, tornata, cessate l'ire, la tranquillitá
dell'animo, ripentútati del fatto, nol rivocasti? Deh! non ti
rincresca lo stare con meco, che tuo figliuol sono, alquanto a
ragione, e quello che giusta indegnazion mi fa dire, come da uomo che
ti ramendi disidera e non che tu sii punita, piglierai. Párti egli
essere gloriosa di tanti titoli e di tali che tu quello uno del quale
non hai vicina cittá che di simile si possa esaltare, tu abbi voluto
da te cacciare? Deh! dimmi: di qua' vittorie, di qua' triunfi, di
quali eccellenzie, di quali valorosi cittadini se' tu splendente? Le
tue ricchezze, cosa mobile e incerta; le tue bellezze, cosa fragile e
caduca; le tue dilicatezze, cosa vituperevole e femminile, ti fanno
nota nel falso giudicio de' popoli, il quale piú ad apparenza che ad
esistenza sempre riguarda. Deh! gloriera'ti tu de' tuoi mercatanti e
de' molti artisti, donde tu se' piena? Scioccamente farai: l'uno fu,
continuamente l'avarizia operandolo, mestiere servile; l'arte, la
quale un tempo nobilitata fu dagl'ingegni, intanto che una seconda
natura la fecero, dall'avarizia medesima è oggi corrotta, e niente
vale. Gloriera'ti tu della viltá e ignavia di coloro li quali,
percioché di molti loro avoli si ricordano, vogliono dentro da te
della nobiltá ottenere il principato, sempre con ruberie e con
tradimenti e con falsitá contra quella operanti? Vana gloria sará la
tua, e da coloro, le cui sentenzie hanno fondamento debito e stabile
fermezza, schernita. Ahi! misera madre, apri gli occhi e guarda con
alcuno rimordimento quello che tu facesti; e vergógnati almeno,
essendo reputata savia come tu se', d'avere avuta ne' falli tuoi falsa
elezione! Deh! se tu da te non avevi tanto consiglio, perché non
imitavi tu gli atti di quelle cittá, le quali ancora per le loro
laudevoli opere son famose? Atene, la quale fu l'uno degli occhi di
Grecia, allora che in quella era la monarchia del mondo, per
iscienzia, per eloquenzia e per milizia splendida parimente; Argos,
ancora pomposa per li titoli de' suoi re; Smirna, a noi reverenda in
perpetuo per Niccolaio suo pastore; Pilos, notissima per lo vecchio
Nestore; Chimi, Chios e Colofon, cittá splendidissime per adietro,
tutte insieme, qualora piú gloriose furono, non si vergognarono né
dubitarono d'avere agra quistione della origine del divino poeta
Omero, affermando ciascuna lui di sé averla tratta; e si ciascuna fece
con argomenti forte la sua intenzione, che ancora la quistion vive; né
è certo donde si fosse, perché parimente di cotal cittadino cosí l'una
come l'altra ancor si gloria. E Mantova, nostra vicina, di quale altra
cosa l'è piú alcuna fama rimasa, che l'essere stato Virgilio
mantovano? il cui nome hanno ancora in tanta reverenzia, e sí è appo
tutti accettevole, che non solamente ne' publici luoghi, ma ancora in
molti privati si vede la sua imagine effigiata; mostrando in ciò che,
non ostante che il padre di lui fosse lutifigolo, esso di tutti loro
sia stato nobilitatore. Sulmona d'Ovidio, Venosa d'Orazio, Aquino di
Giovenale, e altre molte, ciascuna si gloria del suo, e della loro
sufficienzia fanno quistione. L'esemplo di queste non t'era vergogna
di seguitare; le quali non è verisimile sanza cagione essere state e
vaghe e ténere di cittadini cosí fatti. Esse conobbero quello che tu
medesima potevi conoscere e puoi; cioè che le costoro perpetue
operazioni sarebbero ancora dopo la lor ruina ritenitrici eterne del
nome loro; cosí come al presente divulgate per tutto il mondo le fanno
conoscere a coloro che non le vider giammai. Tu sola, non so da qual
cechitá adombrata, hai voluto tenere altro cammino, e quasi molto da
te lucente, di questo splendore non hai curato: tu sola, quasi i
Camilli, i Publicoli, i Torquati, i Fabrizi, i Catoni, i Fabi e gli
Scipioni con le loro magnifiche opere ti facessero famosa e in te
fossero; non solamente, avendoti lasciato l'antico tuo cittadino
Claudiano cader delle mani, non hai avuto del presente poeta cura; ma
l'hai da te cacciato, sbandito e privatolo, se tu avessi potuto, del
tuo sopranome. Io non posso fuggire di vergognarmene in tuo servigio.
Ma ecco: non la fortuna, ma il corso della natura delle cose è stato
al tuo disonesto appetito favorevole in tanto, in quanto quello che tu
volentieri, bestialmente bramosa, avresti fatto se nelle mani ti fosse
venuto, cioè uccisolo, egli con la sua eterna legge l'ha operato.
Morto è il tuo Dante Alighieri in quello esilio che tu ingiustamente,
del suo valore invidiosa, gli désti. Oh peccato da non ricordare, che
la madre alle virtú d'alcuno suo figliuolo porti livore! Ora adunque
se' di sollicitudine libera, ora per la morte di lui vivi ne' tuoi
difetti sicura, e puoi alle tue lunghe e ingiuste persecuzioni porre
fine. Egli non ti può far, morto, quello che mai, vivendo, non t'avria
fatto; egli giace sotto altro cielo che sotto il tuo, né piú déi
aspettar di vederlo giammai, se non quel dí, nel quale tutti li tuoi
cittadini veder potrai, e le lor colpe da giusto giudice esaminate e
punite.
Adunque se gli odii, l'ire e le inimicizie cessano per la morte di
qualunque è che muoia, come si crede, comincia a tornare in te
medesima e nel tuo diritto conoscimento; comincia a vergognarti
d'avere fatto contra la tua antica umanitá; comincia a volere apparir
madre e non piú inimica; concedi le debite lagrime al tuo figliuolo;
concedigli la materna pietá; e colui, il quale tu rifiutasti, anzi
cacciasti vivo sí come sospetto, disidera almeno di riaverlo morto;
rendi la tua cittadinanza, il tuo seno, la tua grazia alla sua
memoria. In veritá, quantunque tu a lui ingrata e proterva fossi, egli
sempre come figliuolo ebbe te in reverenza, né mai di quello onore che
per le sue opere seguire ti dovea, volle privarti, come tu lui della
tua cittadinanza privasti. Sempre fiorentino, quantunque l'esilio
fosse lungo, si nominò e volle essere nominato, sempre a ogni altra ti
prepose, sempre t'amò. Che dunque farai? starai sempre nella tua
iniquitá ostinata? sará in te meno d'umanitá che ne' barbari, li quali
troviamo non solamente aver li corpi delli lor morti raddomandati, ma
per riavergli essersi virilmente disposti a morire? Tu vuogli che 'l
mondo creda te essere nepote della famosa Troia e figliuola di Roma:
certo, i figliuoli deono essere a' padri e agli avoli simiglianti.
Priamo nella sua miseria non solamente raddomandò il corpo del morto
Ettore, ma quello con altrettanto oro ricomperò. Li romani, secondo
che alcuni pare che credano, feciono da Linterno venire l'ossa del
primo Scipione, da lui a loro con ragione nella sua morte vietate. E
come che Ettore fosse con la sua prodezza lunga difesa de' troiani, e
Scipione liberatore non solamente di Roma, ma di tutta Italia (delle
quali due cose forse cosí propiamente niuna si può dire di Dante),
egli non è perciò da posporre; niuna volta fu mai che l'armi non
dessero luogo alla scienzia. Se tu primieramente, e dove piú si saria
convenuto, l'esemplo e l'opere delle savie cittá non imitasti, amenda
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