Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 1 - 08

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copioso e abbondantissimo seno della filosofia, del quale, ciò che
compor si vuole, è di necessitá che si prenda; e, sí come il poto è
ordinatore e disponitor nello stomaco del cibo preso, cosí la
filosofia, d'ogni cosa buona maestra verissima, con la sua dottrina è
ottima componitrice d'ogni cosa a debito fine. Nelle cui scuole, come
di sopra mostrammo, accioché sé e le sue invenzioni ordinare sapesse,
e intender compiutamente l'altrui, il nostro poeta bevve piú tempo
digestivo e salutevole beveraggio.
Appresso il parere pastor divenuto, la sublimitá del suo ingegno ne
mostra, per la quale in brieve tempo divenne tanto e tale, che non
solamente bastevole fu a governar sé, ma eziandio a mostrare agli
altri ingegni la sua dottrina. Sono, al mio giudicio, di pastori due
maniere: corporali e spirituali [_a_]. I corporali sono i pastor
silvani, li re e' padri delle famiglie; li spirituali
[Footnote _a_: Li corporali similmente sono di due qualitá, l'una
delle quali sono quegli che, per le selve e per gli prati, le pecore,
gli buoi e gli altri armenti pascendo menano; l'altra sono
gl'imperadori, i re, i padri delle famiglie, i quali con giustizia e
in pace hanno a conservare i popoli loro commessi, e a trovare onde
vengano a' tempi opportuni i cibi a' sudditi e a' figliuoli. Li
spirituali pastori similmente dire si possono di due maniere: delle
quali è l'una quella di coloro che pascono l'anime de' viventi di cibo
spirituale, cioè della parola di Dio, e questi sono i prelati, i
predicatori e i sacerdoti, nella cui custodia sono commesse l'anime
labili di qualunque sotto il governo a ciascuno ordinato dimora;
l'altra è quella di coloro, li quali in alcuna scienzia ammaestrati
prima, poi ammaestrano altrui leggendo o componendo. E di questa
maniera di pastori vide la madre il suo figliuolo divenuto. Lo
sforzarsi ad aver delle frondi assai manifesto ne mostra essere il
desiderio della laureazione, peroché ogni fatica aspetta premio, e il
premio dello avere alcuna cosa poetica composta, è l'onore che per la
corona dello alloro si riceve. Ma séguita che cadere il vide, quando
piú a ciò si sforzava; il quale cadere niuna altra cosa fu se non quel
cadimento che tutti facciamo senza levarci, cioè il morire: il che a
lui avvenne quando giá avea finito quello per che meritamente la
laureazione gli seguiva. Seguentemente dicea che in luogo di lui vide
levarsi un paone; ove intender si dee che, dopo alla morte di
ciascuno, a servare il nome suo appo i futuri surgono l'opere sue. E
perciò in luogo d'Alessandro macedonico, di Iuda Maccabeo, di Scipione
Affricano, abbiamo le loro vittorie e l'altre magnifiche opere; in
luogo d'Aristotile, di Solone e di Virgilio, abbiamo i loro libri, le
loro composizioni, eterne conservatrici de' nomi e della presenzia
loro nel cospetto di que' che vivono; e cosí _in luogo di Dante_ ecc.]
sono i prelati e' sacerdoti e similmente i dottori, in qualunque
facultá de' quali il nostro Dante fu uno.
Lo sforzarsi ad aver delle frondi assai manifestamente ne mostra
essere stato il disiderio della laureazione, nel quale mentre si
faticava cadde, cioè morí.
E vide la madre in luogo di lui levarsi un paone: per che intender si
dee che, dopo alla morte di ciascuno, a servare il nome suo appo i
futuri surgono l'opere sue. Laonde in luogo di Dante abbiamo la sua
_Comedia_, la quale ottimamente si può conformare ad un paone. Il
paone, secondo che comprendere si può, ha queste proprietá: che la sua
carne è odorifera e incorruttibile; la sua penna è angelica, e in
quella ha cento occhi; li suoi piedi sono sozzi, e tacita l'andatura;
e, oltre a ciò, ha sonora e orribile voce: le quali cose con la
_Comedia_ del nostro poeta ottimamente si convengono.
Dico adunque primieramente che, cercando in assai parti lo intrinseco
senso della _Comedia_, e in assai lo intrinseco e lo estrinseco, si
troverá essere semplice e immutabile veritá, non di gentilizio puzzo
spiacevole, ma odorifera di cristiana soavitá, e in niuna cosa dalla
religione di quella scordante.
Dissi, appresso, il paone avere angelica penna, e in quella cento
occhi. Certo io non vidi mai alcuno angelo; ma, udendo che voli,
estimo che penne aver debba; e, non sappiendone alcuna fra questi
nostri uccelli piú bella né cosí peregrina, considerata la nobiltá di
loro, imagino che cosí la debbiano aver fatta, e però non da queste le
loro, ma queste da quelle dinomino; e intendo per quelle, delle quali
questo paon si cuopre, la bellezza della peregrina istoria che appare
nella lettera della _Comedia_; e il cambiare del color di quella,
secondo i vari mutamenti di questo uccello, niuna altra cosa esser
sento, se non la varietá de' sensi che a quella in una maniera e in
altra, leggendola, si posson dare. E i cento occhi, chi non intenderá
i cento canti di quella, ne' quali ella cosí è ordinata e distinta e
ornata, come ne' lor luoghi distinti mirabilmente gli occhi si veggono
nel paone?
Sono e al paone i piè sozzi e l'andatura queta: le quali cose
ottimamente alla _Comedia_ del nostro autor si confanno; percioché, sí
come sopra i piedi pare che tutto il corpo si sostenga, cosí _prima
facie_ pare che sopra il modo del parlare ogni opera in iscrittura
composta si sostenga; e il parlare volgare, nel quale e sopra il quale
ogni giuntura della _Comedia_ si sostiene, a rispetto dell'alto e
maestrevole stilo letterale che usa ciascuno altro poeta, è senza
dubbio sozzo. L'andar quieto e tacito significa l'umiltá dello stilo,
il quale nelle comedie di necessitá si richiede, come color sanno che
intendon che vuol dir «comedia».
Ultimamente dico che la voce del paone è sonora e orribile; la quale,
comeché la soavitá delle parole del nostro poeta paia e sia molta,
nondimeno chi bene in alcune parti riguarderá, ottimamente conoscerá
confarsi con la voce della _Comedia_, e massimamente dove con
acerbissime invezioni grida ne' vizi d'alcuni, oppur, distesamente
procedendo, d'alcuni altri morde le colpe o gastiga i miseri
peccatori. E niuna è piú orrida voce di quella del gastigante, e
massimamente a colui che ha commesso o a colui che, a mandare i suoi
appetiti ad effetto, schifa l'ostacolo del riprensore. Per la qual
cosa e per l'altre di sopra mostrate assai appare, colui che fu,
vivendo, pastore, dopo la morte esser divenuto paone, sí come creder
si puote essere stato per divina spirazione nel sonno mostrato alla
cara madre[_a_].
[Footnote _a_: Questa esposizione del sogno della madre del nostro
poeta conosco essere assai superficialmente per me fatta; e questo per
piú cagioni. Primieramente, perché per avventura la sufficienzia, che
a tanta cosa si richiederebbe, non c'era; appresso, posto che stata ci
fosse, piú tosto altro luogo per sé richiedeva che questo, ad altra
materia congiunta; ultimamente, quando la sufficienzia ci fosse stata,
e la materia l'avesse patito, era ben fatto, piú che detto sia, non
essere detto da me, accioché ad altrui piú di me sufficiente e piú
vago di ciò alcun luogo si lasciasse di dire. _La mia picciola barca_,
ecc.]


XXVI
CONCLUSIONE

La mia picciola barca è pervenuta al porto, al quale ella drizzò la
proda partendosi dallo apposito lito; e, comeché il peleggio sia stato
piccolo e il mare basso e tranquillo, nondimeno, di ciò che senza
impedimento è venuta, ne sono da render grazie a Colui che felice
vento ha prestato alle sue vele. Al Quale con quella umiltá e
divozione che io posso maggiore, non cosí grandi come si converrieno,
ma quelle che io posso, rendo, benedicendo in eterno il nome suo.


III
COMENTO ALLA «DIVINA COMMEDIA»


PROEMIO

[Lez. I]
«Nel mezzo del cammin di nostra vita», ecc. La nostra umanitá,
quantunque di molti privilegi dal nostro Creatore nobilitata sia,
nondimeno di sua natura è sí debile, che cosa alcuna, quantunque
menoma sia, fare non può né bene né compiutamente, senza la divina
grazia. La qual cosa gli antichi valenti uomini e' moderni
considerando, a quella supplicemente addomandare e con ogni divozione
a nostro potere impetrare, almeno ne' princípi d'ogni nostra
operazione, pietosamente e con paterna affezione ne confortano. Alla
qual cosa dee ciascuno senza alcuna difficultá divenire, leggendo
quello che ne scrive Platone, uomo di celestiale ingegno, nel fine del
prologo del suo _Timeo_, per sé dicendo: «_Nam cum omnibus mos sit et
quasi quaedam religio, qui vel de maximis rebus, vel de minimis
aliquid acturi sunt, precari divinitatem ad auxilium; quanto nos
aequius est, qui universitatis naturae substantiaeque rationem
praestaturi sumus, invocare divinam opem, nisi plane quodam saevo
furore atque implacabili raptemur amentia?_». E, se Platone confessa
sé, piú che alcun altro, avere del divino aiuto bisogno, io che debbo
di me presumere, conoscendo il mio intelletto tardo, lo 'ngegno
piccolo e la memoria labile? E spezialmente, sottentrando a peso molto
maggiore che a' miei ómeri si convegna, cioè a spiegare l'artificioso
testo, la moltitudine delle storie, e la sublimitá de' sensi nascosi
sotto il poetico velo della _Commedia_ del nostro Dante; e
massimamente ad uomini d'alto intendimento e di mirabile perspicacitá,
come universalmente solete esser voi, signori fiorentini: certo, oltre
ogni considerazione umana, debbo credere abbisognarmi. Adunque,
accioché quello che io debbo dire sia onore e gloria dell'altissimo
nome di Dio, e consolazione e utilitá degli auditori, intendo, avanti
che io piú oltre proceda, quanto piú umilmente posso, ricorrere ad
invocare il suo aiuto; molto piú della sua benignitá fidandomi che
d'alcuno mio merito. E, impercioché di materia poetica parlar dovemo,
poeticamente quello invocherò con Anchise troiano, dicendo que' versi
che nel secondo del suo _Eneida_ scrive Virgilio:
_Iupiter omnipotens, precibus si flecteris ullis,
aspice nos: hoc tantum: et, si pietate meremur,
da deinde auxilium, pater,_ ecc.
[Invocata adunque la divina clemenzia che alla presente fatica ne
presti della sua grazia, avanti che alla lettera del testo si venga,
estimo sieno da vedere tre cose, le quali generalmente si soglion
cercare ne' princípi di ciascuna cosa che appartenga a dottrina: la
primiera è di mostrare quante e quali sieno le cause di questo libro;
la seconda, qual sia il titolo del libro; la terza, a qual parte di
filosofia sia il presente libro supposto.]
[Le cause di questo libro son quattro: la materiale, la formale, la
efficiente e la finale. La materiale è, nella presente opera, doppia,
cosí come è doppio il suggetto, il quale è colla materia una medesima
cosa; percioché altro suggetto è quello del senso letterale, e altro
quello del senso allegorico, li quali nel presente libro amenduni
sono, sí come manifestamente apparirá nel processo. È adunque il
suggetto secondo il senso letterale: lo stato dell'anime dopo la morte
de' corpi semplicemente preso; percioché di quello, e intorno a
quello, tutto il processo della presente opera intende. Il suggetto
secondo il senso allegorico è: come l'uomo, per lo libero arbitrio
meritando e dismeritando, è alla giustizia di guiderdonare e di punire
obbligato. La causa formale è similmente doppia, percioch'egli è la
forma del trattato e la forma del trattare. La forma del trattato è
divisa in tre, secondo la triplice divisione del libro. La prima
divisione è quella secondo la quale tutta l'opera si divide, cioè in
tre cantiche; la seconda divisione è quella secondo la quale ciascuna
delle tre cantiche si divide in canti; la terza divisione è quella
secondo la quale ciascun canto si divide in rittimi. La forma, o vero
il modo del trattare, è poetico, fittivo, discrittivo, digressivo e
transuntivo; e con questo, difinitivo, divisivo, probativo,
reprobativo e positivo d'esempli. La causa efficiente è esso medesimo
autore Dante Alighieri, del quale piú distesamente diremo appresso,
dove del titolo del libro parleremo. La causa finale della presente
opera è: rimuovere quegli che nella presente vita vivono, dallo stato
della miseria, allo stato della felicitá.]
[La seconda cosa principale, che è da vedere, è qual sia il titolo del
presente libro, il quale secondo alcuni è questo: «Incomincia la
_Commedia_ di Dante Alighieri fiorentino»; alcun altro, seguendo piú
la 'ntenzione dell'autore, dice il titolo essere questo: «Incominciano
le cantiche della _Commedia_ di Dante Alighieri fiorentino». La quale,
percioché, come detto è, è in tre parti divisa, dice il titolo di
questa prima parte essere: «Incomincia la prima cantica delle cantiche
della _Commedia_ di Dante Alighieri»; volendo per questa mostrare
dovere il titolo di tutta l'opera essere: «Cominciano le cantiche
della Commedia di Dante» ecc., come detto è.]
[Ma, perché questo poco resulta, il lasceremo nell'albitrio degli
scrittori, e verremo a quello per che all'autore dové parere di
doverlo cosí intitolare, dicendo la cagione del titolo secondo,
percioché in quello si conterrá la cagione del primo, il quale quasi
da tutti è usitato. E ad evidenzia di questo, secondo il mio giudicio,
è da sapere, sí come i musici ogni loro artificio formano sopra certe
dimensioni di tempi lunghe e brievi, e acute e gravi, e della varietá
di queste, con debita e misurata proporzione congiunta, e quello poi
appellano «canto»; cosí i poeti, non solamente quelli che in latino
scrivono, ma eziandio coloro che, come il nostro autore fa,
volgarmente dettano: componendo i lor versi, secondo la diversa
qualitá d'essi, di certo e diterminato numero di piedi, intra se
medesimi, dopo certa e limitata quantitá di parole, consonanti: sí
come nel presente trattato veggiamo che, essendo tutti i rittimi
d'equal numero di sillabe, sempre il terzo piè nella sua fine è
consonante alla fine del primo, che in quella consonanza finisce. Per
che pare che a questi cotali versi, o opere composte per versi, quello
nome si convenga che i musici alle loro invenzioni dánno, come davanti
dicemmo, cioè «canti», e per conseguente quella opera, che di molti
canti è composta, doversi «cantica» appellare, cioè cosa in sé
contenente piú canti.]
[Appresso si dimostra nel titolo questo libro essere appellato
«commedia». A notizia della qual cosa è da sapere che le poetiche
narrazioni sono di piú e varie maniere, sí come è tragedia, satira e
commedia, buccolica, elegia, lirica ed altre. Ma, volendo di quella
sola, che al presente titolo appartiene, vedere, vogliono alcuni mal
convenirsi a questo libro questo titolo, argomentando primieramente
dal significato del vocabolo, e appresso dal modo del trattare de'
comici, il quale pare molto essere differente da quello che l'autore
serva in questo libro. Dicono adunque primieramente mal convenirsi le
cose cantate in questo libro col significato del vocabolo; percioché
«commedia» vuol tanto dire quanto canto di villa, composto da
«_comos,_», che in latino viene a dire «villa», e «_odos_», che viene
a dire «canto»; e i canti villeschi, come noi sappiamo, sono di basse
materie, sí come di loro quistioni intorno al cultivar della terra, o
conservazione di lor bestiame, o di lor bassi e rozzi innamoramenti e
costumi rurali: a' quali in alcuno atto non sono conformi le cose
narrate in alcuna parte della presente opera; ma sono di persone
eccellenti, di singulari e notabili operazioni degli uomini viziosi e
virtuosi, degli effetti della penitenza, de' costumi degli angeli e
della divina essenza. Oltre a questo, lo stilo comico è umile e
rimesso, accioché alla materia sia conforme; quello che della presente
opera dir non si può; percioché, quantunque in volgare scritto sia,
nel quale pare che comunichino le femminette, egli è nondimeno ornato
e leggiadro e sublime; delle quali cose nulla sente il volgar delle
femmine. Non dico però che, se in versi latini fosse, non mutato il
peso delle parole volgari, ch'egli non fosse molto piú artificioso e
piú sublime, percioché molto piú d'arte e di gravitá ha nel parlar
latino che nel materno.]
[E appresso, dell'arte spettante al commedo;] mai nella commedia non
introducere se medesimo in alcun atto a parlare, ma sempre a varie
persone, che in diversi luoghi e tempi e per diverse cagioni deduce a
parlare insieme, fa ragionare quello che crede che appartenga al tema
impreso della commedia: dove in questo libro, lasciato l'artificio del
commedo, l'autore spessissime volte, e quasi sempre, or di sé or
d'altrui ragionando favella. Similmente nelle commedie non s'usano
comparazioni né recitazioni d'altre istorie che di quelle che al tema
assunto appartengono; dove in questo libro si pongono comparazioni
infinite, e assai istorie si raccontano, che dirittamente non fanno al
principale intento. Sono ancora le cose, che nelle commedie si
raccontano, cose che per avventura mai non furono, quantunque non
sieno sí strane da' costumi degli uomini che essere state non possano:
la sustanziale istoria del presente libro, dello essere dannati i
peccatori, che ne' lor peccati muoiono, a perpetua pena, e quegli, che
nella grazia di Dio trapassano, essere elevati all'eterna gloria, è,
secondo la cattolica fede, vera e santa sempre. Chiamano, oltre a
tutto questo, i commedi le parti intra sé distinte delle lor commedie
«scene»; percioché, recitando li commedi quelle nel luogo detto
«scena», nel mezzo del teatro, quante volte introducevano varie
persone a ragionare, tante della scena uscivano i mimi trasformati da
quelli che prima avevano parlato e fatto alcun atto, e in forma di
quegli che parlar doveano, venivano davanti al popolo riguardante e
ascoltante il commedo che recitava: dove il nostro autore chiama
«canti» le parti della sua _Commedia_. E cosí, accioché fine pognamo
agli argomenti, pare, come di sopra è detto, non convenirsi a questo
libro nome di «commedia». Né si può dire non essere stato della mente
dell'autore che questo libro non si chiamasse «commedia», come
talvolta ad alcuno di alcuna sua opera è avvenuto; conciosiacosaché
esso medesimo nel ventunesimo canto di questa prima cantica il chiami
commedia, dicendo: «Cosí di ponte in ponte altro parlando, Che la mia
commedia cantar non cura», ecc. Che adunque diremo alle obiezioni
fatte? Credo, conciosiacosaché oculatissimo uomo fosse l'autore, lui
non avere avuto riguardo alle parti che nelle commedie si contengono,
ma al tutto, e da quello avere il suo libro dinominato,
figurativamente parlando. Il tutto della commedia è (per quello che
per Plauto e per Terenzio, che furono poeti comici, si può
comprendere): che la commedia abbia turbolento principio e pieno di
romori e di discordie, e poi l'ultima parte di quella finisca in pace
e in tranquillitá. Al qual tutto è ottimamente conforme il libro
presente: percioché egli incomincia da' dolori e dalle turbazioni
infernali, e finisce nel riposo e nella pace e nella gloria, la quale
hanno i beati in vita eterna. E questo dee poter bastare a fare che
cosí fatto nome si possa di ragion convenire a questo libro.
[Resta a vedere chi fosse l'autore di questo libro: la qual cosa non
pure in questo libro, ma in ciascun altro pare di necessitá di doversi
sapere; e questo, accioché noi non prestiamo stoltamente fede a chi
non la merita, conciosiacosaché noi leggiamo: «_Qui misere credit,
creditur esse miser_». E qual cosa è piú misera che credere al
patricida dell'umana pietá, al libidinoso della castitá, o all'eretico
della fede cattolica? Rade volte avviene che l'uomo contro alla sua
professione favelli. Voglionsi adunque esaminare la vita, e' costumi e
gli studi degli uomini, accioché noi cognosciamo quanta fede sia da
prestare alle loro parole.]
[Fu adunque l'autore del presente libro, sí come il titolo ne
testimonia, Dante Alighieri, per ischiatta nobile uomo della nostra
cittá; e la sua vita non fu uniforme, ma, da varie mutazioni
infestata, spesse volte in nuove qualitá di studi si permutò, della
qual non si può convenevolmente parlare che con essa non si ragioni
de' suoi studi. E però egli primieramente dalla sua puerizia nella
patria si diede agli studi liberali, e in quegli maravigliosamente
s'avanzò; percioché, oltre alla prima arte, fu, secondo che appresso
si dirá, maraviglioso loico, e seppe retorica, sí come nelle sue opere
appare assai bene; e, percioché nella presente opera appare lui essere
stato astrolago, e quello esser non si può senza arismetrica e
geometria, estimo lui similemente in queste arti essere stato
ammaestrato. Ragionasi similmente lui nella sua giovanezza avere udita
filosofia morale in Firenze, e quella maravigliosamente bene avere
saputa: la qual cosa egli non volle che nascosa fosse nell'undicesimo
canto di questo trattato, dove si fa dire a Virgilio: «Non ti rimembra
di quelle parole, Con le qua' la tua Etica pertratta», ecc., quasi
voglia per questa s'intenda la filosofia morale in singularitá essere
stata a lui familiarissima e nota. Similemente udí in quella gli
autori poetici, e studiò gli storiografi, e ancora vi prese altissimi
princípi nella filosofia naturale, sí come esso vuole che si senta per
li ragionamenti suoi in questa opera avuti con ser Brunetto Latino, il
quale in quella scienza fu reputato solennissimo uomo. Né fu,
quantunque a questi studi attendesse, senza grandissimi stimoli,
datigli da quella passione, la qual noi generalmente chiamiamo
«amore»: e similmente dalla sollecitudine presa degli onori publici,
a' quali ardentemente attese, infino al tempo che, per paura di
peggio, andando le cose traverse a lui e a quegli che quella setta
seguivano, convenne partir di Firenze. Dopo la qual partita, avendo
alquanti anni circuita Italia, credendosi trovar modo a ritornare
nella patria, e di ciò avendo la speranza perduta, se n'andò a Parigi,
e quivi ad udire filosofia naturale e teologia si diede; nelle quali
in poco tempo s'avanzò tanto, che fatti e una e altra volta certi atti
scolastici, sí come sermonare, leggere e disputare, meritò grandissime
laude da' valenti uomini. Poi in Italia tornatosi, e in Ravenna
riduttosi, avendo giá il cinquantesimosesto anno della sua etá
compiuto, come cattolico cristiano fece fine alla sua vita e alle sue
fatiche, dove onorevolmente fu appo la chiesa de' frati minori
seppellito, senza aver preso alcun titolo o onore di maestrato, sí
come colui che attendeva di prendere la laurea nella sua cittá,
com'esso medesimo testimonia nel principio del canto venticinquesimo
del _Paradiso_. Ma al suo disiderio prevenne la morte, come detto è. I
suoi costumi furono gravi e pesati assai, e quasi laudevoli tutti; ma,
percioché giá delle predette cose scrissi in sua laude un trattatello,
non curo al presente di piú distenderle. Le quali cose se con sana
mente riguardate saranno, mi pare esser certo che assai dicevole
testimonio sará reputato e degno di fede, in qualunque materia è stata
nella sua _Commedia_ da lui recitata.]
[Ma del suo nome resta alcuna cosa da recitare, e pria del suo
significato, il quale assai per se medesimo si dimostra; percioché
ciascuna persona, la quale con liberale animo dona di quelle cose, le
quali egli ha di grazia ricevute da Dio, puote essere meritamente
appellato Dante. E che costui ne desse volentieri, l'effetto nol
nasconde. Esso, a tutti coloro che prender ne vorranno, ha messo
davanti questo suo singulare e caro tesoro, nel quale parimente onesto
diletto e salutevole utilitá si trova da ciascuno che non caritevole
ingegno cercare ne vuole. E, percioché questo gli parve
eccellentissimo dono, sí per la ragion detta, e sí perché con molta
sua fatica, con lunghe vigilie e con istudio continuo l'acquistò, non
parve a lui dovere essere contento che questo nome da' suoi parenti
gli fosse imposto casualmente, come molti ciascun dí se ne pongono;
per dimostrar quello essergli per disposizion celeste imposto, a due
eccellentissime persone in questo suo libro si fa nominare; delle
quali la prima è Beatrice, la quale apparendogli in sul triunfale
carro del celestiale esercito in su la suprema altezza del monte di
purgatorio, intende essere la sacra teologia, dalla quale si dee
credere ogni divino misterio essere inteso, e con gli altri insieme
questo, cioè che egli per divina disposizione chiamato sia Dante. A
confermazione di ciò, si fa a lei Dante appellare in quella parte del
trentesimo canto del _Purgatorio_, nel quale essa, parlandogli, gli
dice: «Dante, perché Virgilio se ne vada»: quasi voglia s'intenda, se
ella di questo nome non lo avesse conosciuto degno, o non l'avrebbe
nominato, o avrebbelo per altro nome chiamato. Oltre a ciò,
soggiugnendo, per la ragion giá detta, in quello luogo di necessitá
registrarsi il nome suo, e questo ancora, accioché paia lui a tal
termine della teologia esser pervenuto che, essendo Dante, possa senza
Virgilio, cioè senza la poesia, o vogliam dire senza la ragione delle
terrene cose, valere alle divine. L'altra persona, alla quale nominar
si fa, è Adamo nostro primo padre, al quale fu conceduto da Dio di
nominare tutte le cose create; e, perché si crede lui averle
degnamente nominate, volle Dante, essendo da lui nominato, mostrare
che degnamente quel nome imposto gli fosse, con la testimonianza di
Adamo. La qual cosa fa nel canto ventiseesimo del _Paradiso_, lá dove
Adamo gli dice: «Dante, la voglia tua discerno meglio» ecc. E questo
basti intorno al titolo avere scritto.]
[La terza cosa principale, la qual dissi essere da investigare, è a
qual parte di filosofia sia sottoposto il presente libro; il quale,
secondo il mio giudizio, è sottoposto alla parte morale, ovvero etica:
percioché, quantunque in alcun passo si tratti per modo speculativo,
non è perciò per cagione di speculazione ciò posto, ma per cagion
dell'opera, la quale quivi ha quel modo richiesto di trattare.]
[Espedite le tre cose sopra dette, è da vedere della rubrica
particolare che segue, cioè: «Incomincia il primo canto dello
_'Nferno_». Ma avanti che io piú oltre proceda, considerando la
varietá e la moltitudine delle materie che nella presente lettura
sopravverranno, il mio poco ingegno e la debolezza della mia memoria,
intendo che, se alcuna cosa meno avvedutamente o per ignoranza mi
venisse detta, la qual fosse meno che conforme alla cattolica veritá,
che per non detta sia, e da ora la rivoco, e alla emendazione della
santa Chiesa me ne sommetto.]
[Dice adunque la nostra rubrica: «Incomincia il primo canto dello
_'Nferno_»: intorno alla quale è da vedere s'egli è inferno, e s'el
n'è piú che uno, e in qual parte del mondo sia, onde si vada in esso,
qual sia la forma di quello, a che serva, e se per altro nome si
chiama che «inferno». E primieramente dico ch'egli è inferno: il che
per molte autoritá della Scrittura si pruova, e primieramente per
Isaia, il quale dice: «_Dilatavit_ _infernus animam suam, et aperuit
os suum absque ullo termino_»; e Vergilio nel sesto dell'_Eneida_
dice: «_Inferni ianua regis_»; e Iob: «_In profundissimum infernum
descendet anima mea_». Per le quali autoritá appare essere inferno.]
[Appresso si domandava s'egli n'era piú d'uno. Appare per lo senso
della Scrittura sacra che ne sieno tre, de' quali i santi chiamano
l'uno superiore, e il secondo mezzano, e il terzo inferiore; vogliendo
che il superiore sia nella vita presente, piena di pene, di angosce e
di peccati. E di questo parlando, dice il salmista: «_Circumdederunt
me dolores mortis, et pericula inferni invenerunt me_»; e in altra
parte dice: «_Descendant in infernum viventes_»; quasi voglia dire
«nelle miserie della presente vita».]
[E di questo inferno sentono i poeti co' santi, fingendo questo
inferno essere nel cuore de' mortali; e, in ciò dilatando la fizione,
dicono a questo inferno essere un portinaio, e questo dicono essere
Cerbero infernal cane, il quale è interpretato divoratore: sentendo
per lui la insaziabilitá de' nostri disidèri, li quali saziare né
empiere non si possono. E l'uficio di questo cane non è di vietare
l'entrata ad alcuno, ma di guardare che alcuno dello 'nferno non esca;
volendo per questo che lá dove entra la cupiditá delle ricchezze,
degli stati, de' diletti e dell'altre cose terrene, ella o non n'esce
mai, o con difficultá se ne trae; sí come essi mostrano, fingendo
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