Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 1 - 04

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me muove altra ragione, la quale è questa. Secondo che vogliono
coloro, li quali le virtú delle piante ovvero la loro natura
investigarono, il lauro tra l'altre piú sue proprietá n'ha tre
laudevoli e notevoli molto: la prima si è, come noi veggiamo, che mai
egli non perde né verdezza, né fronda; la seconda si è, che non si
truova questo albore mai essere stato fulminato, il che di niuno altro
leggiamo essere avvenuto; la terza, che egli è odorifero molto, sí
come noi sentiamo: le quali tre proprietá estimarono gli antichi
inventori di questo onore convenirsi con le virtuose opere de' poeti e
de' vittoriosi imperadori. E primieramente la perpetua viriditá di
queste frondi dissono dimostrare la fama delle costoro opere, cioè di
coloro che d'esse si coronavano o coronerebbono nel futuro, sempre
dovere stare in vita. Appresso estimarono l'opere di questi cotali
essere di tanta potenzia, che né il fuoco della invidia, né la folgore
della lunghezza del tempo, la quale ogni cosa consuma, dovesse mai
queste potere fulminare, se non come quello albero fulminava la
celeste folgore. E oltre a questo diceano queste opere de' giá detti
per lunghezza di tempo mai dover divenire meno piacevoli e graziose a
chi l'udisse o le leggesse, ma sempre dovere essere accettevoli e
odorose. Laonde meritamente si confaceva la corona di cotai frondi,
piú ch'altra, a cotali uomini, gli cui effetti, in tanto quanto vedere
possiamo, erano a lei conformi. Per che non senza cagione il nostro
Dante era ardentissimo disideratore di tale onore ovvero di cotale
testimonia di tanta vertú, quale questa è a coloro, li quali degni si
fanno di doversene ornare le tempie. Ma tempo è di tornare lá onde,
intrando in questo, ci dipartimmo.


XXV
CARATTERE DI DANTE

Fu il nostro poeta, oltre alle cose predette, d'animo alto e
disdegnoso molto; tanto che, cercandosi per alcun suo amico, il quale
ad istanzia de' suoi prieghi il facea, che egli potesse ritornare in
Fiorenza, il che egli oltre ad ogni altra cosa sommamente disiderava,
né trovandosi a ciò alcun modo con coloro li quali il governo della
republica allora aveano nelle mani, se non uno, il quale era questo:
che egli per certo spazio stesse in prigione, e dopo quello in alcuna
solennitá publica fosse misericordievolmente alla nostra principale
ecclesia offerto, e per conseguente libero e fuori d'ogni
condennagione per adietro fatta di lui; la qual cosa parendogli
convenirsi e usarsi in qualunque e depressi e infami uomini, e non in
altri: per che oltre al suo maggiore disiderio, preelesse di stare in
esilio, anzi che per cotal via tornare in casa sua. Oh isdegno
laudevole di magnanimo, quanto virilmente operasti, reprimendo
l'ardente disio del ritornare per via meno che degna ad uomo nel
grembo della filosofia nutricato!
Molto simigliantemente presunse di sé, né gli parve meno valere,
secondo che li suoi contemporanei rapportano, che el valesse; la qual
cosa, tra l'altre volte, apparve una notabilmente, mentre ch'egli era
con la sua setta nel colmo del reggimento della republica. Che,
conciofossecosaché per coloro li quali erano depressi fosse chiamato,
mediante Bonifazio papa ottavo, a ridirizzare lo stato della nostra
cittá, un fratello ovvero congiunto di Filippo allora re di Francia,
il cui nome fu Carlo; si ragunarono a uno consiglio per provedere a
questo fatto tutti li prencipi della setta, con la quale esso tenea; e
quivi tra l'altre cose providero, che ambasceria si dovesse mandare al
papa, il quale allora era a Roma, per la quale s'inducesse il detto
papa a dovere ostare alla venuta del detto Carlo, ovvero lui, con
concordia della setta, la quale reggeva, far venire. E venuto al
diliberare chi dovesse esser prencipe di cotale legazione, fu per
tutti detto che Dante fosse desso. Alla quale richiesta Dante,
alquanto sopra a sé stato, disse:--Se io vo, chi rimane? se io
rimango, chi va?,--quasi esso solo fosse colui che tra tutti valesse,
e per cui tutti gli altri valessero. Questa parola fu intesa e
raccolta, ma quello che di ciò seguisse non fa al presente proposito,
e però, passando avanti, il lascio stare.
Oltre a queste cose, fu questo valente uomo in tutte le sue avversitá
fortissimo: solo in una cosa non so se io mi dica fu impaziente o
animoso, cioè in opera pertenente a parte, poi che in esilio fu,
troppo piú che alla sua sufficienzia non appartenea, e ch'egli non
volea che di lui per altrui si credesse. E accioché a qual parte fosse
cosí animoso e pertinace appaia, mi pare sia da procedere alquanto piú
oltre scrivendo.
Io credo che giusta ira di Dio permettesse, giá è gran tempo, quasi
tutta Toscana e Lombardia in due parti dividersi: delle quali, onde
cotali nomi s'avessero, non so; ma l'una si chiamò e chiama «parte
guelfa», e l'altra fu «ghibellina» chiamata. E di tanta efficacia e
reverenzia furono negli stolti animi di molti questi due nomi, che,
per difendere quello che alcuno avesse eletto per suo contra il
contrario, non gli era di perdere gli suoi beni e ultimamente la vita,
se bisogno fosse fatto, malagevole. E sotto questi titoli molte volte
le cittá italiche sostennero di gravissime pressure e mutamenti; e
intra l'altre la nostra cittá, quasi capo e dell'uno nome e
dell'altro, secondo il mutamento de' cittadini; intanto che gli
maggiori di Dante per guelfi da' ghibellini furono due volte cacciati
di casa loro, ed egli similemente, sotto il titolo di guelfo, tenne i
freni della republica in Firenze. Della quale cacciato, come mostrato
è, non da' ghibellini ma da' guelfi, e veggendo sé non potere
ritornare, in tanto mutò l'animo, che niuno piú fiero ghibellino e a'
guelfi avversario fu come lui; e quello di che io piú mi vergogno in
servigio della sua memoria è che publichissima cosa è in Romagna, lui
ogni femminella, ogni piccol fanciullo ragionante di parte e dannante
la ghibellina, l'avrebbe a tanta insania mosso, che a gittare le
pietre l'avrebbe condotto, non avendo taciuto. E con questa animositá
si visse infino alla morte.
Certo, io mi vergogno dovere con alcuno difetto maculare la fama di
cotanto uomo; ma il cominciato ordine delle cose in alcuna parte il
richiede; percioché, se nelle cose meno che laudevoli in lui, mi
tacerò, io torrò molta fede alle laudevoli giá mostrate. A lui
medesimo adunque mi scuso, il quale per avventura me scrivente con
isdegnoso occhio d'alta parte del cielo ragguarda.
Tra cotanta virtú, tra cotanta scienzia, quanta dimostrato è di sopra
essere stata in questo mirifico poeta, trovò ampissimo luogo la
lussuria, e non solamente ne' giovani anni, ma ancora ne' maturi. Il
quale vizio, comeché naturale e comune e quasi necessario sia, nel
vero non che commendare, ma scusare non si può degnamente. Ma chi sará
tra' mortali giusto giudice a condennarlo? Non io. Oh poca fermezza,
oh bestiale appetito degli uomini, che cosa non possono le femmine in
noi, s'elle vogliono, che, eziandio non volendo, posson gran cose?
Esse hanno la vaghezza, la bellezza e il naturale appetito e altre
cose assai continuamente per loro ne' cuori degli uomini procuranti; e
che questo sia vero, lasciamo stare quello che Giove per Europa, o
Ercule per Iole, o Paris per Elena facessero; che, percioché poetiche
cose sono, molti di poco sentimento le dirien favole; ma mostrisi per
le cose non convenevoli ad alcuno di negare. Era ancora nel mondo piú
che una femmina quando il nostro primo padre, lasciato il comandamento
fattogli dalla propia bocca di Dio, s'accostò alle persuasioni di lei?
Certo no. E David, non ostante che molte n'avesse, solamente veduta
Bersabé, per lei dimenticò Iddio, il suo regno, sé e la sua onestá, e
adultero prima e poi omicida divenne: che si dee credere ch'egli
avesse fatto, se ella alcuna cosa avesse comandato? E Salomone, al cui
senno niuno, dal figliuolo di Dio in fuori, aggiunse mai, non
abbandonò colui che savio l'aveva fatto, e per piacere a una femmina
s'inginocchiò e adorò Baalim? Che fece Erode? che altri molti, da
niuna altra cosa tirati che dal piacer loro? Adunque tra tanti e tali
non iscusato, ma, accusato con assai meno curva fronte che solo, può
passare il nostro poeta. E questo basti al presente de' suoi costumi
piú notabili avere contato.


XXVI
DELLE OPERE COMPOSTE DA DANTE

Compose questo glorioso poeta piú opere ne' suoi giorni, delle quali
fare ordinata memoria credo che sia convenevole, accioché né alcuno
delle sue s'intitolasse, né a lui fossero per avventura intitolate
l'altrui. Egli primieramente, duranti ancora le lagrime della morte
della sua Beatrice, quasi nel suo ventesimosesto anno compose in un
volumetto, il quale egli intitolò _Vita nova_, certe operette, sí come
sonetti e canzoni, in diversi tempi davanti in rima fatte da lui,
maravigliosamente belle; di sopra da ciascuna partitamente e
ordinatamente scrivendo le cagioni che a quelle fare l'avean mosso, e
di dietro ponendo le divisioni delle precedenti opere. E comeché egli
d'avere questo libretto fatto, negli anni piú maturi si vergognasse
molto, nondimeno, considerata la sua etá, è egli assai bello e
piacevole, e massimamente a' volgari.
Appresso questa compilazione piú anni, raguardando egli della sommitá
del governo della republica, sopra la quale stava, e veggendo in
grandissima parte, cosí come di sí fatti luoghi si vede, qual fosse la
vita degli uomini, e quali fossero gli errori del vulgo, e come
fossero pochi i disvianti da quello e di quanto onore degni fossero, e
quegli, che a quello s'accostassero, di quanta confusione; dannando
gli studi di questi cotali e molto piú li suoi commendando, gli venne
nell'animo un alto pensiero, per lo quale a un'ora, cioè in una
medesima opera, propose, mostrando la sua sofficienzia, di mordere con
gravissime pene i viziosi, e con altissimi premi li valorosi onorare,
e a sé perpetua gloria apparecchiare. E, percioché, come giá è
mostrato, egli aveva a ogni studio preposta la poesia, poetica opera
estimò di comporre. E, avendo molto davanti premeditato quello che
fare dovesse, nel suo trentacinquesimo anno si cominciò a dare al
mandare ad effetto ciò che davanti premeditato avea, cioè a volere
secondo i meriti e mordere e premiare, secondo la sua diversitá, la
vita degli uomini. La quale, percioché conobbe essere di tre maniere,
cioè viziosa, o da' vizi partentesi e andante alla vertú, o virtuosa;
quella in tre libri, dal mordere la viziosa cominciando e finendo nel
premiare la virtuosa, mirabilmente distinse in un volume, il quale
tutto intitolò _Comedia_. De' quali tre libri egli ciascuno distinse
per canti e i canti per rittimi, sí come chiaro si vede; e quello in
rima volgare compose con tanta arte, con sí mirabile ordine e con sí
bello, che niuno fu ancora che giustamente quello potesse in alcuno
atto riprendere. Quanto sottilmente egli in esso poetasse pertutto,
coloro, alli quali è tanto ingegno prestato che 'ntendano, il possono
vedere. Ma, sí come noi veggiamo le gran cose non potersi in brieve
tempo comprendere, e per questo conoscer dobbiamo cosí alta, cosí
grande, cosí escogitata impresa, come fu tutti gli atti degli uomini e
i loro meriti poeticamente volere sotto versi volgari e rimati
racchiudere, non essere stato possibile in picciolo spazio avere al
suo fine recata: e massimamente da uomo, il quale da molti e vari casi
della fortuna, pieni tutti d'angoscia e d'amaritudine venenati, sia
stato agitato (come di sopra mostrato è che fu Dante): per che
dall'ora che di sopra è detta che egli a cosí alto lavorio si diede
infino allo stremo della sua vita, comeché altre opere, come apparirá,
non ostante questa, componesse in questo mezzo, gli fu fatica
continua. Né fia di soperchio in parte toccare d'alcuni accidenti
intorno al principio e alla fine di quella avvenuti.
Dico che, mentre che egli era piú attento al glorioso lavoro, e giá
della prima parte di quello, la quale intitola _Inferno_, aveva
composti sette canti, mirabilmente fingendo, e non mica come gentile,
ma come cristianissimo poetando, cosa sotto questo titolo mai avanti
non fatta; sopravvenne il gravoso accidente della sua cacciata, o fuga
che chiamar si convegna, per lo quale egli e quella e ogni altra cosa
abbandonata, incerto di se medesimo, piú anni con diversi amici e
signori andò vagando. Ma, come noi dovemo certissimamente credere a
quello che Iddio dispone niuna cosa contraria la fortuna potere
operare, per la quale, e se forse vi può porre indugio, istôrla possa
dal debito fine; avvenne che alcuno per alcuna sua scrittura forse a
lui opportuna, cercando fra cose di Dante in certi forzieri state
fuggite subitamente in luoghi sacri, nel tempo che tumultuosamente la
ingrata e disordinata plebe gli era, piú vaga di preda che di giusta
vendetta, corsa alla casa, trovò li detti sette canti stati da Dante
composti, gli quali con ammirazione, non sappiendo che si fossero,
lesse, e, piacendogli sommamente, e con ingegno sottrattigli del luogo
dove erano, gli portò ad un nostro cittadino, il cui nome fu Dino di
messer Lambertuccio, in quegli tempi famosissimo dicitore per rima in
Firenze, e mostrogliele. Li quali veggendo Dino, uomo d'alto
intelletto, non meno che colui che portati gliele avea, si maravigliò
sí per lo bello e pulito e ornato stile del dire, sí per la profonditá
del senso, il quale sotto la bella corteccia delle parole gli pareva
sentire nascoso: per le quali cose agevolmente insieme col portatore
di quegli, e sí ancora per lo luogo onde tratti gli avea, estimò
quegli essere, come erano, opera stata di Dante. E, dolendosi quella
essere imperfetta rimasa, comeché essi non potessero seco presumere a
qual fine fosse il termine suo, fra loro diliberarono di sentire dove
Dante fosse, e quello, che trovato avevan, mandargli, accioché, se
possibile fosse, a tanto principio desse lo 'mmaginato fine. E,
sentendo dopo alcuna investigazione lui essere appresso il marchese
Morruello, non a lui, ma al marchese scrissono il loro disiderio, e
mandarono li sette canti; gli quali poi che il marchese, uomo assai
intendente, ebbe veduti e molto seco lodatigli, gli mostrò a Dante,
domandandolo se esso sapea cui opera stati fossero; li quali Dante
riconosciuti subito, rispose che sua. Allora il pregò il marchese
che gli piacesse di non lasciare senza debito fine sí alto
principio.--Certo--disse Dante,--io mi credea nella ruina delle mie
cose questi con molti altri miei libri avere perduti, e perciò, sí per
questa credenza e sí per la moltitudine dell'altre fatiche per lo mio
esilio sopravvenute, del tutto avea l'alta fantasia, sopra quest'opera
presa, abbandonata; ma, poiché la fortuna inopinatamente me gli ha
ripinti dinanzi, e a voi aggrada, io cercherò di ritornarmi a memoria
il primo proposito, e procederò secondo che data mi fia la grazia.--E
reassunta, non sanza fatica, dopo alquanto tempo la fantasia lasciata,
seguí: «Io dico, seguitando, ch'assai prima» ecc.; dove assai
manifestamente, chi ben riguarda, può la ricongiunzione dell'opera
intermessa conoscere.
Ricominciata adunque da Dante la magnifica opera, non forse, secondo
che molti estimerebbono, senza piú interromperla la perdusse alla
fine, anzi piú volte, secondo che la gravitá de' casi sopravvegnenti
richiedea, quando mesi e quando anni, senza potervi operare alcuna
cosa, mise in mezzo; né tanto si poté avacciare, che prima nol
sopraggiugnesse la morte, ch'egli tutta publicare la potesse. Egli era
suo costume, qualora sei o otto o piú o meno canti fatti n'avea,
quegli, prima che alcun altro gli vedesse, donde che egli fosse,
mandare a messer Cane della Scala, il quale egli oltre a ogni altro
uomo avea in reverenza; e, poi che da lui eran veduti, ne facea copia
a chi la ne volea. E in cosí fatta maniera avendogliele tutti, fuori
che gli ultimi tredici canti, mandati, e quegli avendo fatti, né
ancora mandatigli; avvenne ch'egli, senza avere alcuna memoria di
lasciargli, si mori. E, cercato da que' che rimasero, e figliuoli e
discepoli, piú volte e in piú mesi, fra ogni sua scrittura, se alla
sua opera avesse fatta alcuna fine, né trovandosi per alcun modo li
canti residui, essendone generalmente ogni suo amico cruccioso, che
Iddio non l'aveva almeno tanto prestato al mondo ch'egli il picciolo
rimanente della sua opera avesse potuto compiere, dal piú cercare, non
trovandogli, s'erano, disperati, rimasi.
Eransi Iacopo e Piero, figliuoli di Dante, de' quali ciascuno era
dicitore in rima, per persuasioni d'alcuni loro amici, messi a volere,
in quanto per loro si potesse, supplire la paterna opera, accioché
imperfetta non procedesse; quando a Iacopo, il quale in ciò era molto
piú che l'altro fervente, apparve una mirabile visione, la quale non
solamente dalla stolta presunzione il tolse, ma gli mostrò dove
fossero li tredici canti, li quali alla divina _Comedia_ mancavano, e
da loro non saputi trovare.
Raccontava uno valente uomo ravignano, il cui nome fu Piero Giardino,
lungamente discepolo stato di Dante, che, dopo l'ottavo mese della
morte del suo maestro, era una notte, vicino all'ora che noi chiamiamo
«matutino», venuto a casa sua il predetto Iacopo, e dettogli sé quella
notte, poco avanti a quell'ora, avere nel sonno veduto Dante suo
padre, vestito di candidissimi vestimenti e d'una luce non usata
risplendente nel viso, venire a lui; il quale gli parea domandare
s'egli vivea, e udire da lui per risposta di sí, ma della vera vita,
non della nostra; per che, oltre a questo, gli pareva ancora
domandare, s'egli avea compiuta la sua opera anzi il suo passare alla
vera vita, e, se compiuta l'avea, dove fosse quello che vi mancava, da
loro giammai non potuto trovare. A questo gli parea la seconda volta
udire per risposta:--Sí, io la compie'--; e quinci gli parea che 'l
prendesse per mano e menasselo in quella camera dove era uso di
dormire quando in questa vita vivea; e, toccando una parte di quella,
dicea:--Egli è qui quello che voi tanto avete cercato.--E questa
parola detta, ad una ora il sonno e Dante gli parve che si partissono.
Per la qual cosa affermava, sé non esser potuto stare senza venirgli a
significare ciò che veduto avea, accioché insieme andassero a cercare
nel luogo mostrato a lui, il quale egli ottimamente nella memoria
aveva segnato, a vedere se vero spirito o falsa delusione questo gli
avesse disegnato. Per la quale cosa, restando ancora gran pezzo di
notte, mossisi insieme, vennero al mostrato luogo, e quivi trovarono
una stuoia al muro confitta, la quale leggermente levatane, videro nel
muro una finestretta da niuno di loro mai piú veduta, né saputo
ch'ella vi fosse, e in quella trovarono alquante scritte, tutte per
l'umiditá del muro muffate e vicine al corrompersi, se guari piú state
vi fossero; e quelle pianamente dalla muffa purgate, leggendole,
videro contenere li tredici canti tanto da loro cercati. Per la qual
cosa lietissimi, quegli riscritti, secondo l'usanza dell'autore prima
gli mandarono a messer Cane, e poi alla imperfetta opera ricongiunsono
come si convenia. In cotale maniera l'opera, in molti anni compilata,
si vide finita.
Muovono molti, e intra essi alcuni savi uomini generalmente una
quistione cosí fatta: che conciofossecosa Dante fosse in iscienzia
solennissimo uomo, perché a comporre cosí grande, di sí alta materia e
sí notabile libro, come è questa sua _Comedia_, nel fiorentino idioma
si disponesse; perché non piú tosto in versi latini, come gli altri
poeti precedenti hanno fatto. A cosí fatta domanda rispondere, tra
molte ragioni, due a l'altre principali me ne occorrono. Delle quali
la prima è per fare utilitá piú comune a' suoi cittadini e agli altri
italiani: conoscendo che, se metricamente in latino, come gli altri
poeti passati, avesse scritto, solamente a' letterati avrebbe fatto
utile; scrivendo in volgare fece opera mai piú non fatta, e non tolse
il non potere esser inteso da' letterati, e mostrando la bellezza del
nostro idioma e la sua eccellente arte in quello, e diletto e
intendimento di sé diede agl'idioti, abbandonati per adrieto da
ciascheduno. La seconda ragione, che a questo il mosse, fu questa.
Vedendo egli li liberali studi del tutto abbandonati, e massimamente
da' prencipi e dagli altri grandi uomini, a' quali si soleano le
poetiche fatiche intitolare, e per questo e le divine opere di
Virgilio e degli altri solenni poeti non solamente essere in poco
pregio divenute, ma quasi da' piú disprezzate; avendo egli
incominciato, secondo che l'altezza della materia richiedea, in questa
guisa:
_Ultima regna canam, fluido contermina mundo,
spiritibus quae lata paient, quæ premia solvunt
pro meritis cuicumque suis,_ ecc.
il lasciò stare; e, immaginando invano le croste del pane porsi alla
bocca di coloro che ancora il latte suggano, in istile atto a' moderni
sensi ricominciò la sua opera e perseguilla in volgare.
Questo libro della _Comedia_, secondo il ragionare d'alcuno, intitolò
egli a tre solennissimi uomini italiani, secondo la sua triplice
divisione, a ciascuno la sua, in questa guisa: la prima parte, cioè lo
_'Nferno_, intitolò a Uguiccione della Faggiuola, il quale allora in
Toscana signore di Pisa era mirabilmente glorioso; la seconda parte,
cioè il _Purgatoro_, intitolò al marchese Moruello Malespina; la terza
parte, cioè il _Paradiso_, a Federigo terzo re di Cicilia. Alcuni
vogliono dire lui averlo intitolato tutto a messer Cane della Scala;
ma, quale si sia di queste due la veritá, niuna cosa altra n'abbiamo
che solamente il volontario ragionare di diversi; né egli è sí gran
fatto che solenne investigazione ne bisogni.
Similemente questo egregio autore nella venuta d'Arrigo settimo
imperadore fece un libro in latina prosa, il cui titolo è _Monarchia_,
il quale, secondo tre quistioni le quali in esso ditermina, in tre
libri divise. Nel primo, loicalmente disputando, pruova che a ben
essere del mondo sia di necessitá essere imperio; la quale è la prima
quistione. Nel secondo, per argomenti istoriografi procedendo, mostra
Roma di ragione ottenere il titolo dello imperio; ch'è la seconda
quistione. Nel terzo, per argomenti teologi pruova l'autoritá dello
'mperio immediatamente procedere da Dio, e non mediante alcuno suo
vicario, come li cherici pare che vogliano; ch'è la terza quistione.
Questo libro piú anni dopo la morte dell'autore fu dannato da messer
Beltrando cardinale del Poggetto e legato di papa nelle parti di
Lombardia, sedente Giovanni papa ventesimosecondo. E la cagione fu
però che Lodovico duca di Baviera, dagli elettori della Magna eletto
in re de' romani, e venendo per la sua coronazione a Roma, contra il
piacere del detto Giovanni papa essendo in Roma, fece contra gli
ordinamenti ecclesiastici un frate minore, chiamato frate Pietro della
Corvara, papa, e molti cardinali e vescovi; e quivi a questo papa si
fece coronare. E, nata poi in molti casi della sua autoritá quistione,
egli e' suoi seguaci, trovato questo libro, a difensione di quella e
di sé molti degli argomenti in esso posti cominciarono a usare; per la
qual cosa il libro, il quale infino allora appena era saputo, divenne
molto famoso. Ma poi, tornatosi il detto Lodovico nella Magna, e li
suoi seguaci, e massimamente i cherici, venuti al dichino e dispersi;
il detto cardinale, non essendo chi a ciò s'opponesse, avuto il
soprascritto libro, quello in publico, sí come cose eretiche
contenente, dannò al fuoco. E il simigliante si sforzava di fare
dell'ossa dell'autore a eterna infamia e confusione della sua memoria,
se a ciò non si fosse opposto un valoroso e nobile cavaliere
fiorentino, il cui nome fu Pino della Tosa, il quale allora a Bologna,
dove ciò si trattava, si trovò, e con lui messer Ostagio da Polenta,
potente ciascuno assai nel cospetto del cardinale di sopra detto.
Oltre a questi compose il detto Dante due egloghe assai belle, le
quali furono intitolate e mandate da lui, per risposta di certi versi
mandatigli, a maestro Giovanni del Virgilio, del quale di sopra altra
volta è fatta menzione.
Compuose ancora un comento in prosa in fiorentino volgare sopra tre
delle sue canzoni distese, comeché egli appaia lui avere avuto
intendimento, quando il cominciò, di commentarle tutte, benché poi, o
per mutamento di proposito o per mancamento di tempo che avvenisse,
piú commentate non se ne truovano da lui; e questo intitolò
_Convivio_, assai bella e laudevole operetta.
Appresso, giá vicino alla sua morte, compuose uno libretto in prosa
latina, il quale egli intitolò _De vulgari eloquentia_, dove intendea
di dare dottrina, a chi imprendere la volesse, del dire in rima; e
comeché per lo detto libretto apparisca lui avere in animo di dovere
in ciò comporre quattro libri, o che piú non ne facesse dalla morte
soprapreso, o che perduti sieno gli altri, piú non appariscono che due
solamente.
Fece ancora questo valoroso poeta molte pistole prosaiche in latino,
delle quali ancora appariscono assai. Compuose molte canzoni distese,
sonetti e ballate assai e d'amore e morali, oltre a quelle che nella
sua _Vita Nova_ appariscono; delle quali cose non curo di fare spezial
menzione al presente.
In cosí fatte cose, quali di sopra sono dimostrate, consumò il
chiarissimo uomo quella parte del suo tempo, la quale egli agli
amorosi sospiri, alle pietose lacrime, alle sollecitudini private e
publiche e a' vari fluttuamenti della iniqua fortuna poté imbolare:
opere troppo piú a Dio e agli uomini accettevoli che gl'inganni, le
fraudi, le menzogne, le rapine e' tradimenti, li quali la maggior
parte degli uomini usano oggi, cercando per diverse vie un medesimo
termine, cioè il divenire ricco, quasi in quelle ogni bene, ogni
onore, ogni beatitudine stea. Oh menti sciocche, una brieve particella
di una ora, separará dal caduco corpo lo spirito, e tutte queste
vituperevoli fatiche annullerá, e il tempo, nel quale ogni cosa suol
consumarsi, o annullerá prestamente la memoria del ricco, o quella per
alcuno spazio con gran vergogna di lui serverá! Che del nostro poeta
certo non avverrá, anzi, sí come noi veggiamo degli strumenti bellici
addivenire, che per l'usargli diventan piú chiari, cosí avverrá del
suo nome: egli, per essere stropicciato dal tempo, sempre diventerá
piú lucente. E perciò fatichi chi vuole nelle sue vanitá, e bastigli
l'esser lasciato fare, senza volere, con riprensione da se medesimo
non intesa, l'altrui virtuoso operare andar mordendo.


XXVII
RICAPITOLAZIONE

Mostrato è sommariamente qual fosse l'origine, gli studi e la vita e'
costumi, e quali sieno l'opere state dello splendido uomo Dante
Alighieri, poeta chiarissimo, e con esse alcuna altra cosa, facendo
transgressione, secondo che conceduto m'ha Colui che d'ogni grazia è
donatore. Ben so, per molti altri molto meglio e piú discretamente si
saria potuto mostrare; ma chi fa quel che sa, piú non gli è richiesto.
Il mio avere scritto come io ho saputo, non toglie il poter dire a un
altro, che meglio ciò creda di scrivere che io non ho fatto; anzi
forse, se io in parte alcuna ho errato, darò materia altrui di
scrivere, per dire il vero, del nostro Dante, ove infino a qui niuno
truovo averlo fatto. Ma la mia fatica non è ancora alla sua fine. Una
particella, nel processo promessa di questa operetta, mi resta a
dichiarare, cioè il sogno della madre del nostro poeta, quando in lui
era gravida, veduto da lei; del quale io, quanto piú brievemente saprò
e potrò, intendo di dilivrarmi, e porre fine al ragionare.


XXVIII
ANCORA IL SOGNO DELLA MADRE DI DANTE

Vide la gentil donna nella sua gravidezza sé a piè d'uno altissimo
alloro, allato a una chiara fontana partorire un figliuolo, il quale
di sopra altra volta narrai, in brieve tempo, pascendosi delle bache
di quello alloro cadenti e dell'onde della fontana, divenire un gran
pastore e vago molto delle frondi di quello alloro sotto il quale era;
alle quali avere mentre ch'egli si sforzava, le parea ch'egli cadesse;
e subitamente non lui, ma di lui un bellissimo paone le parea vedere.
Dalla qual maraviglia la gentil donna commossa, ruppe, senza vedere di
lui piú avanti, il dolce sonno.


XXIX
SPIEGAZIONE DEL SOGNO

La divina bontá, la quale _ab aeterno_, sí come presente ogni cosa
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