Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 1 - 11

[Similmente e Geronimo, dottore esimio e santissimo uomo,
maravigliosamente ammaestrato in tre linguaggi, il quale gli ignoranti
si sforzano di tirare in testimonio di ciò che essi non intendono, con
tanta diligenzia i versi de' poeti studiò e servò nella memoria, che
quasi paia nulla nelle sue opere non avere senza la testimonianza loro
fermata. E, se essi non credono questo, veggano, tra gli altri suoi
libri, il prologo del libro il quale egli chiama _Hebraicarum
quaestionum_, e considerino se quello è tutto terenziano. Veggano se
esso spessissime volte, quasi suoi assertori, induce Virgilio e
Orazio; e non solamente questi, ma Persio e gli altri minori poeti.
Leggano, oltre a questo, quella facundissima epistola da lui scritta a
sant'Agostino, e cerchino se in essa l'ammaestrato uomo pone i poeti
nel numero de' chiarissimi uomini, li quali essi si sforzano di
confondere.]
[Appresso, se essi nol sanno, leggano negli _Atti degli apostoli_ e
troveranno se Paolo, vaso d'elezione, studiò i versi poetici, e quegli
conobbe e seppe. Essi troveranno lui non avere avuto in fastidio,
disputando nello areopago contro la ostinazione degli ateniesi,
d'usare la testimonianza de' poeti; e in altra parte avere usato il
testimonio di Menandro comico poeta, quando disse: «_Corrumpunt mores
bonos colloquia mala_». E similmente, se io bene mi ricordo, egli
allega un verso di Epimenide poeta, il quale attissimamente si
potrebbe dire contro a questi sprezzatori de' poeti, quando dice:
«_Cretenses semper mendaces, malae bestiae, ventres pigri_». E cosí
colui, il quale fu rapito insino al terzo cielo, non estimò quello,
che questi piú santi di lui vogliono, cioè esser peccato o
abbominevole cosa aver letti e apparati i versi de' poeti. Oltre a
tutto questo, cerchino quello che scrisse Dionisio areopagita,
discepolo di Paolo e glorioso martire di Gesú Cristo, nel libro il
quale compose _Della celeste gerarchia_. Esso dice e proseguita e
pruova la divina teologia usare le poetiche fizioni, dicendo intra
l'altre cose cosí: «_Etenim valde artificialiter theologia poëticis
sacris formationibus, in non figuratis intellectibus usa est, nostram,
ut dictum est, animam relevans, et ipsi propria et coniecturali
reductione providens, et ad ipsum reformans anagogicas sanctas
Scripturas_»; ed altre cose ancora assai, le quali a questa somma
seguitano. E ultimamente, accioché io lasci star gli altri, li quali
io potrei inducere incontro a questi nemici del poetico nome, non esso
medesimo Gesú Cristo, nostro salvadore e signore, nella evangelica
dottrina parlò molte cose in parabole, le quali son conformi in parte
allo stilo comico? Non esso medesimo incontro a Paolo, abbattuto dalla
sua potenza in terra, usò il verso di Terenzio, cioè: «_Durum est tibi
contra stimulum calcitrare_»? Ma sia di lungi da me che io creda
Cristo queste parole, quantunque molto davanti fosse, da Terenzio
prendesse. Assai mi basta a confermare la mia intenzione, il nostro
Signore aver voluto alcuna volta usare la parola e la sentenzia
prolata giá per la bocca di Terenzio, accioché egli appaia che del
tutto i versi de' poeti non sono cibo del diavolo. Che adunque diranno
questi li quali cosí presuntuosamente s'ingegnano di scalpitare il
nome poetico? Certo, al giudicio mio, e' non gli possono giustamente
dannare, se non che co' versi poetici non si guadagnan danari, che
credo sia quello che in tanta abbominazione gli ha loro messi nel
petto, perché a' loro desidèri non sono conformi.]
[Resta a spezzare l'ultima parte delle loro armi, le quali in gran
parte deono esser rotte, se a quel si riguarda che alla sentenza di
Platone fu risposto di sopra. Essi vogliono che la filosofia abbia
cacciate le muse poetiche da Boezio, sí come femmine meretrici e
disoneste, e i conforti delle quali conducono chi l'ascolta, non a
sanitá di mente, ma a morte. Ma quel testo, male inteso, fa errare chi
reca quel testo in argomento contro a' poeti. Egli è senza alcun
dubbio vero la filosofia esser venerabile maestra di tutte le scienze
e di ciascuna onesta cosa; e in quello luogo, dove Boezio giaceva
della mente infermo, turbato e commosso dello esilio a gran torto
ricevuto, egli, sí come impaziente, avendo per quello cacciata da sé
ogni conoscenza del vero, non attendeva colla considerazione a trovare
i rimedi opportuni a dover cacciar via le noie che danno gl'infortuni
della presente vita; anzi cercava di comporre cose, le quali non
liberasson lui, ma il mostrassero afflitto molto, e per conseguente
mettessero compassion di lui in altrui. E questa gli pareva sí soave
operazione che (senza guardare che egli in ciò faceva ingiuria alla
filosofica veritá, la cui opera è di sanare, non di lusingare il
passionato), che esso, con la dolcezza delle lusinghe del potersi
dolere, insino alla sua estrema confusione avrebbe in tale impresa
proceduto; e, peroché questo è esercizio de' comici di sopra detti (a
fine di guadagnare), di lusingare e di compiacere alle inferme menti,
chiama la Filosofia queste muse «_meretriculae scenicae_», non perché
ella creda le muse esser meretrici, ma per vituperare con questo
vocabolo l'ingegno dell'artefice che nelle disoneste cose le induce.
Assai è manifesto non esser difetto del martello fabbrile, se il
fabbro fa piú tosto con esso un coltello, col quale s'uccidono gli
uomini, che un bómere, col quale si fende la terra, e rendesi abile a
ricevere il seme del frutto, del quale noi poscia ci nutrichiamo. E
che le Muse sieno qui istrumento adoperante secondo il giudicio
dell'artefice, e non secondo il loro, ottimamente il dimostra la
Filosofia, dicendo in quel medesimo luogo che è disopra mostrato,
quando dice:--Partitevi di qui, Serene dolci infino alla morte, e
lasciate questo infermo curare alle mie muse, cioè alla onestá e alla
integritá del mio stilo, nel quale mediante le mie muse io gli
mostrerò la veritá, la quale egli al presente non conosce, sí come
uomo passionato e afflitto.--Nelle quali parole si può comprendere non
essere altre muse, quelle della filosofia, che quelle de' comici
disonesti e degli elegiaci passionati, ma essere d'altra qualitá
l'artefice, il quale questo istrumento dee adoperare. Non adunque nel
disonesto appetito di queste muse, le quali chiama la Filosofia
«meretricule», sono vituperate le muse, ma coloro che in disonesto
esercizio l'adoperano.]
[Restavano sopra la presente materia a dir cose assai, ma percioché in
altra parte piú distesamente di questo abbiamo scritto, basti questo
averne detto al presente, e alla nostra impresa ne ritorniamo. Fu
adunque Virgilio, poeta, e non fu popolar poeta, ma solennissimo, e le
sue opere e la sua fama chiaro il dimostrano agl'intendenti.]
[Lez. IV]
«E cantai». Usa Virgilio questo vocabolo in luogo di «composi [versi»;
e la ragione in parte si dimostrò, dove di sopra si disse perché
«cantiche» si chiamano l'opere de' poeti; alla quale si puote
aggiugnere una usanza antica de' greci, dalla qual credo non meno
esser mossa la ragione perché «cantare» si dicono i versi poetici, che
da quella che giá è detta. E l'usanza era questa: ch'e' nobili giovani
greci si reputavano quasi vergogna il non saper cantare e sonare, e
questi loro canti e suoni usavano molto ne' lor conviti. E non erano
li lor canti di cose vane, come il piú delle canzoni odierne sono,
anzi erano versi poetici, ne' quali d'altissime materie o di laudevoli
operazioni da valenti uomini adoperate, sí come noi possiam vedere
nella fine del primo dell'_Eneida_ di Virgilio, dove, dopo la notabile
cena di Didone fatta ad Enea, Iopa, sonando la cetera, canta gli
errori del sole e della luna, e la prima generazione degli uomini e
degli altri animali, e donde fosse l'origine delle piove e del fuoco,
e altre simili cose: dal quale atto poté nascere il dirsi che i
poetici versi si cantino. E per conseguente Virgilio, dell'opere da sé
composte dice «cantai». Il qual non solamente compuose l'_Eneida_, ma
molti altri libri, si come, secondoché Servio scrive, l'_Ostirina_,
l'_Ethna_, il _Culice_, la _Priapea_, il _Cathalecthon_, le _Dire_,
gli _Epigrammati_, la _Copa_, il _Moreto_ e altri; ma sopra tutti fu
l'_Eneida_, la quale in laude d'Ottaviano compuose. Poi, partendosi da
Napoli, e andandone ad Atene ad udir filosofia, non avendo corretto il
detto _Eneida_, quello lasciò a due suoi amici valenti poeti, cioè a
Tucca e a Varrone, con questo patto che, se avvenisse che egli avanti
la tornata sua morisse, che essi il dovessero ardere; per che, essendo
a Brandizio morto, senza potere esser pervenuto ad Atene, e Tucca e
Varrone sappiendo questo libro in laude di Ottaviano essere stato
composto, e che esso il sapeva, temettero d'arderlo senza coscienza
d'Ottaviano; e perciò, raccontata a lui la intenzion di Virgilio,
ebbero in comandamento di non doverlo ardere per alcuna cagione, ma il
correggessero, con questo patto, che essi alcuna cosa non
v'aggiugnessero, e, se vi trovasser cosa da doverne sottrarre,
potessero. Il che essi con fede fecero. Poi Ottaviano, fatte recare le
sue ossa da Brandizio a Napoli, vicino al luogo dove gli era dilettato
di vivere, il fece seppellire, cioè infra 'l secondo miglio da Napoli,
lungo la via che si chiamava Puteolana, accioché esso quivi giacesse
morto, dove gli era dilettato di vivere.]
«Di quel giusto Figliuol d'Anchise», cioè d'Enea, del quale Virgilio
nel primo dell'_Eneida_ fa ad Ilioneo dire alla reina Dido queste
parole:
_Rex erat Aeneas nobis, quo iustior alter
nec pietate fuit, nec bello maior et armis,_
nelle quali testimonia Enea essere stato giustissimo. Anchise fu della
schiatta de' re di Troia, figliuolo di Capis, figliuolo di Assaraco,
figliuolo di Troio, e fu padre d'Enea, come qui si dice, «che venne da
Troia». Troia è una provincia nella minore Asia, vicina d'Ellesponto,
alla quale è di ver' ponente il mare Egeo, dal mezzodí Meonia, da
levante Frigia maggiore, da tramontana Bitinia, cosí dinominata da
Troio, re di quella. «Poi che il superbo Ilión fu combusto». Ilione fu
una cittá di Troia, cosí nominata da Ilio, re di Troia, e fu la cittá
reale, e quella, secondo che Pomponio Mela scrive nel primo della sua
_Cosmografia_, che fu da' greci assediata, e ultimamente presa e arsa
e disfatta. Chiamalo «superbo» dall'altezza dello stato del re Priamo
e de' suoi predecessori.
E poi che manifestato s'è, egli fa una breve domanda all'autore,
dicendo:--«Ma tu perché ritorni a tanta noia?» quanta è a essere nella
selva, della quale partito ti se';--e quinci segue e fanne
un'altra:--«Perché non sali al dilettoso monte, Ch'è principio e
cagion di tutta gioia?».--
Espedite queste parole di Virgilio, segue la terza parte di questa
seconda, nella qual dissi che con ammirazion l'autore rispondeva, e,
col commendar Virgilio, s'ingegnava d'accattare la sua benivolenza. E,
rispondendo alla dimanda di lui, gli mostra quello per che al monte
non sale, e il suo aiuto addimanda, e dice:--«Or se' tu quel Virgilio
e quella fonte, Che spande di parlar sí largo fiume?».--Commendalo qui
l'autore dell'amplitudine della sua facundia, quella facendo
simigliante ad un fiume. «Rispos'io lui con vergognosa fronte».
Vergognossi l'autore d'essere da tanto uomo veduto in sí miserabile
luogo, e dice «con vergognosa fronte», percioché in quella parte del
viso prima appariscano i segni del nostro vergognarci; comeché qui si
può prendere il tutto per la parte, cioè tutto il viso per la
fronte.--«O degli altri poeti» latini «onore», percioché per Virgilio
è tutto il nome poetico onorato, «e lume». Sono state l'opere di
Virgilio a' poeti, che appresso di lui sono stati, un esempio, il
quale ha dirizzate le loro invenzioni a laudevole fine, come la luce
dirizza i passi nostri in quella parte dove d'andare intendiamo.
«Vagliami il lungo studio e il grande amore». Poi che l'autore ha
poste le laude di Virgilio, accioché per quelle il muova al suo
bisogno, ora il priega per li meriti di se medesimo, per li quali
estima Virgilio sí come obbligatogli il debba aiutare, e dice:
«Vagliami», a questo bisogno, «il lungo studio». Vuol mostrare d'avere
l'opera di Virgilio studiata, non discorrendo, ma con diligenza. «E 'l
grande amore». E per questo intende mostrare un atto caritativo, che
fatto gli ha studiare il libro di Virgilio, e non, come molti fanno,
averlo studiato per trovarvi che potere mordere e biasimare. «Che m'ha
fatto cercare il tuo volume», l'_Eneida_.
«Tu se' lo mio maestro». Qui con reverirlo vuol muover Virgilio
chiamandolo «maestro», «e 'l mio autore». In altra parte si legge
«signore», e credo che stia altresí bene; percioché qui, umiliandosi,
vuol pretendere il signore dovere ne' bisogni il suo servidore
aiutare. «Tu se' solo colui da cui io tolsi», cioè presi, «il bello
stilo», del trattato, e massimamente dello _'Nferno_, «che m'ha fatto
onore», cioè fará. E pon qui il preterito per lo futuro, facendo
solecismo.
«Vedi la bestia», e mostragli la lupa, della quale di sopra è detto,
«per cui io mi volsi», dal salire al dilettoso monte. E qui gli
risponde all'interrogazion fatta; appresso il priega dicendo: «Aiutami
da lei, famoso saggio»; nelle quali parole vuol mostrare colui
veramente esser saggio, il quale non solamente è saggio nel suo
segreto, ma eziandio nel giudicio degli altri per lo quale esso
diventa famoso. «Ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi». Triemano le
vene e' polsi quando dal sangue abbandonate sono, il che avviene
quando il cuore ha paura; percioché allora tutto il sangue si ritrae a
lui ad aiutarlo e riscaldarlo, e il rimanente di tutto l'altro corpo
rimane vacuo di sangue, e freddo e palido.
--«A te convien tenere altro viaggio». In questa quarta particella fa
l'autore due cose: prima dichiara ciò che Virgilio dice della natura
di quella lupa, e il suo futuro disfacimento; appresso gli dimostra
Virgilio quel cammino che gli par da tenere, accioché egli possa di
quello luogo pericoloso uscire. La seconda quivi: «Ond'io per lo tuo
me'». Dice dunque:--«A te convien tenere altro viaggio», che quello il
quale di tenere ti sforzi,--«rispose» Virgilio, «poi che lagrimar mi
vide,--Se vuoi campar», senza morte uscire, «d'esto loco selvaggio»,
come di sopra è dimostrato. E, seguendo, Virgilio gli dice la cagione
perché a lui convien tenere altro cammino, dicendo: «Ché quella
bestia», cioè quella lupa, «per la qual tu gride», domandando
misericordia, «Non lascia altrui passar per la sua via», non della
lupa, ma di colui che andar vuole; «Ma tanto lo 'mpedisce», ora in una
maniera e ora in un'altra, «che l'uccide. Ed ha», questa lupa, «natura
sí malvagia e ria, Che mai non empie la bramosa voglia» del divorare,
«Ma dopo il pasto ha piú fame che pria». Vuole Virgilio per queste
parole rimuovere un pensier vano, il quale potrebbe cadere
nell'autore, dicendo:--Quantunque questa bestia sia bramosa e abbia la
fame grande, egli potrá avvenire che ella prenderá alcuno animale e
pascerassi, e, pasciuta, mi lascerá andare dove io disidero;--il qual
avviso si rimuove per quelle parole: «E dopo il pasto ha piú fame che
pria».
«Molti son gli animali a cui s'ammoglia», cioè co' quali si congiugne.
Questo è fuori dell'uso della natura di qualunque animale,
congiugnersi con molti animali di diverse spezie; ma con alcuno assai
bestie il fanno, sí come il cavallo coll'asino, la leonessa col
leopardo e la lupa col cane. E questo non è da dubitare che l'autore
non sapesse; per che, avendol posto, assai bene possiam comprendere
l'autore volere altro sentire che quello che semplicemente suona la
lettera, e cosí in ciò che sèguita del rimettimento di questa lupa in
inferno: la sposizione delle quali cose a suo tempo riserberemo. «E
piú saranno ancora», che stati non sono, «infin che 'l veltro Verrá».
È il veltro una spezie di cani, maravigliosamente nimica de' lupi, de'
quali veltri dice, come appare, doverne venire uno, «che la fará morir
con doglia».
«Questi», cioè questo veltro, «non ciberá», cioè mangerá, «terra né
peltro». Peltro è una spezie vile di metallo composta d'altri. «Ma
sapienza, amore e virtute». Questi non sogliono essere cibi de' cani;
e perciò assai chiaro appare lui intendere altro che non par che dica
la lettera. «E sua nazion sará tra feltro e feltro». È il feltro
vilissima spezie di panno, come ciascun sa manifestamente.
«Di quella umile». Usa qui l'autore un tropo, il quale si chiama
«ironia», per vocabolo contrario mostrando quello che egli intende di
dimostrare; cioè per «umile», «superba», sí come noi tutto 'l dí
usiamo, dicendo d'un pessimo uomo:--Or questi è il buono uomo;--d'un
traditore:--Questi è il leale uomo;--e simili cose. Dice adunque: «Di
quella umile», cioè superba, «Italia fia salute». È Italia una gran
provincia, nominata da Italo, figliuolo di Corito re e fratello di
Dardano (del quale piú distesamente diremo appresso nel quarto canto),
terminata dall'Alpi e dal mare Tirreno e dall'Adriano, contenente in
sé molte province; e perciò, a voler dimostrare di qual parte di
questa Italia dice, soggiugne: «Per cui morí», cioè fu uccisa, «la
vergine Camilla».
Fu questa Camilla, secondo che Virgilio scrive nell'undicesimo
dell'_Eneida_, figliuola di Metabo, re di Priverno, e di Casmilla, sua
moglie. E, percioché nel partorire questa fanciulla morí la madre,
piacque al padre di levare una lettera sola, cioè quella «s», che era
nel nome di Casmilla, sua moglie, e nominare la figliuola Camilla. La
quale essendo ancora piccolissima, avvenne, per certe divisioni de'
privernati, Metabo re a furore fu cacciato di Priverno. Il quale, non
avendo spazio di potere alcun altra cosa prendere, prese questa
piccola sua figliuola e una lancia, e con essa, essendo dai privernati
seguito, si mise in fuga; e, pervegnendo a un fiume, il quale si
chiamava Amaseno, e trovandol per una grandissima piova cresciuto
molto, e sé veggendo convenirgli lasciar la fanciulla, se notando il
volea trapassare, subitamente prese consiglio d'involgere questa
fanciulla in un suvero e legarla alla sua lancia, e quella lanciare di
lá dal fiume e poi esso notando passarlo. Per che, legatola e
dovendola gittare oltre, umilemente la raccomandò a Diana, a lei
botandola, se ella salva gliela facesse dall'altra parte del fiume
ritrovare; e lanciatola e poi notando seguitola, e dall'altra parte
trovata senza alcuna lesione la figliuola, andatosene con essa in
certe selve vicine, allevò questa sua figliuola alle poppe d'una
cavalla. Alla quale, come crescendo venne, appiccò una faretra alle
spalle, e posele un arco in mano, e insegnolle non filare, ma saettare
e gittar le pietre con la rombola, e correr dietro agli animali [e i
suoi vestimenti erano di pelli d'animali] salvatichi. Ne' quali
esercizi costei giá divenuta grande fu maravigliosa femmina; e fu in
correre di tanta velocitá, che, correndo, ella pareva si lasciasse
dietro i venti; e fu sí leggiera, che Virgilio, iperbolicamente
parlando, dice che ella sarebbe corsa sopra l'onde del mare senza
immollarsi le piante de' piedi. Costei da molti nobili uomini
addomandata in matrimonio, mai alcuna cosa non ne volle udire, ma,
virginitá servando, si dilettava d'abitar le selve nelle quali era
stata allevata e di cacciare. Poi pare che richiamata fosse nel regno
paterno; e, ritornatavi, e sentendo la guerra di Turno con Enea, da
Turno richiesta, con molti de' suoi volsci andò in aiuto di lui; dove
un dí, fieramente contro a' troiani combattendo, fu fedita d'una
saetta nella poppa da uno che avea nome Arruns; della qual fedita essa
morí incontanente.
«Eurialo, Turno e Niso di ferute». Eurialo e Niso furono due giovani
troiani, li quali in Italia aveano seguito Enea. Ed essendo insieme
con Ascanio, figliuolo d'Enea, rimasi a guardia del campo d'Enea, il
quale era andato a cercare aiuto contro a Turno a certi popoli
circunvicini, avvenne che, premendo Turno molto Ascanio, si dispose
Ascanio, per téma di non poter sofferire la forza di Turno, di far
sentire ad Enea come da assedio era gravemente stretto, accioché di
tornare in soccorso di lui il padre s'affrettasse. Alla qual cosa fare
Niso si profferse, e ingegnavasi di farlo occultamente da Eurialo;
percioché conosceva il pericolo esser grande, ed Eurialo ancora un
garzone, ed egli nol voleva mettere a quel pericolo. Ma non seppe sí
fare che Eurialo nol sentisse; per la qual cosa convenne che Eurialo
andasse con lui. E, usciti una notte del campo d'Ascanio, convenendo
loro passar per lo mezzo de' nemici, e tacitamente andando e
trovandogli tutti dormire, n'uccison molti. Ed Eurialo, vago come i
garzon sono, di certe armadure belle, tratte a coloro li quali uccisi
aveano, carico, seguitando Niso, avvenne che si scontrarono in una
grande quantitá di nemici, li quali come Niso vide, tantosto si
ricolse in un bosco, credendo avere appresso di sé Eurialo; ma egli
era rimaso, e giá intorniato da' nimici, quando Niso lui non esser
seco si avvide. Per che voltosi, e vedendol nel mezzo de' nemici, e
loro correntigli addosso per ucciderlo, tornando addietro, cominciò a
gridare che perdonassero ad Eurialo, sí come a non colpevole, e
uccidesson lui, il quale aveva tutto quello male fatto. Ma poco valse:
essi uccisono Eurialo e poi ucciser lui; e cosí amenduni quivi morti
rimasero.
«Turno». Costui fu figliuolo di Dauno, re d'Ardea, e nepote carnale
d'Amata, moglie di Latino, re de' laurenti, giovane ardentissimo e di
gran cuore; il quale, vedendo Latino re avere data Lavina sua
figliuola per moglie ad Enea, la qual prima avea promessa a lui,
sdegnato, avea mosso guerra ad Enea, e per questo molte battaglie
aveano fatte; ultimamente, secondo che Virgilio scrive nel fine del
dodicesimo dell'_Eneida_, soprastandogli Enea in una singular
battaglia stata fra loro, e veggendogli cinto il balteo, il quale era
stato di Pallante, cui ucciso avea, lui addomandante perdono, uccise.
E cosí dalle morti di costoro ha l'autore discritta di qual parte
d'Italia intenda, cioè di quella lá dove è Roma, con alcune piccole
circustanze: la quale in tanta superbia crebbe, che le parve poco il
voler soprastare a tutto il mondo; né per la ruina del romano imperio
cessò però la romana superbia, perseverando in essa la sede
apostolica. Nella quale, al tempo che l'autore di prima pose mano alla
presente opera, sedeva Bonifazio papa ottavo, il quale, quantunque
altiero signor fosse molto, parve per avventura ancor molto piú
all'autore, in quanto piegare non fu potuto a' piaceri né alle domande
fatte da quegli della setta della quale fu l'autore.
«Questi», cioè questo veltro, «la caccerá per ogni villa», cioè
estermineralla del mondo, «Finché l'avrá rimessa nell'inferno, Lá onde
invidia prima dipartilla». In queste parole chiaramente si può
intendere, l'autore dire una cosa e sentire un'altra; conciosiacosaché
manifesto sia in inferno non generarsi lupi, e perciò di quello non
poterne essere stato tratto alcuno, per doverlo in questa vita menare.
«Ond'io per lo tuo me'». In questa particella seconda della quarta,
dice l'autore il consiglio preso da Virgilio per sua salute, e,
secondo l'usanza poetica, mostra in poche parole ciò che dee trattare
in tutto questo suo volume; e dice cosí: «Ond'io», considerata la
natura di questa lupa che t'impedisce, «per lo tuo me', penso e
discerno», giudico, «Che tu mi segua, ed io sarò tua guida, E
trarrotti di qui», cioè di questo luogo pericoloso, «per luogo
eterno», cioè per lo 'nferno e per lo purgatorio, i quali son luoghi
eterni; «Dove», cioè in quel luogo, «udirai le dispietate strida», in
quanto paiono d'uomini crudeli e senza alcuna umanitá; «E vederai gli
spiriti dolenti, Che la seconda morte ciascun grida»; cioè la morte
dell'anima, percioché quella del corpo, la quale è la prima, essi
l'hanno avuta. Addomandano adunque la seconda, credendo per quella le
pene, che sentono, non dover poscia sentire. [Ma i nostri teologi
tengono che, quantunque essi la spiritual morte domandino, non perciò,
potendola avere, la vorrebbono, percioché per alcuna cagione non
vorrebbon perdere l'essere. Deesi adunque intendere li dannati chiamar
la seconda morte, sí come noi mortali spesse volte chiamiamo la prima;
la quale se venir la vedessimo, senza alcun dubbio a nostro potere la
fuggiremmo. O puossi sporre cosí: tiensi per li teologi esser piú
spezie di morte, delle quali è la prima quella della quale tutti
corporalmente moiamo; la seconda dicono che è morte di miseria, la
qual veramente io credo essere infissa ne' dannati, in tanta
tribulazione e angoscia sono: e questo è quello che ciascun dannato
grida, non dimandandola, ma dolendosi.]
«E vederai color che son contenti Nel fuoco», della penitenza; e dice
«contenti», percioché quella penitenza, che non si facesse con
contentamento d'animo di colui che la facesse, non varrebbe alcuna
cosa a salute; «perché speran di venire, Quando che sia», finito il
tempo della penitenzia, «alle beate genti. Alle quali» beate genti,
«se tu vorrai salire», però che sono in cielo, «Anima fia a ciò di me
piú degna: [Con lei ti lascerò nel mio partire». E questa fia quella
di Stazio poeta, con la quale egli poscia il lasciò in su la sommitá
del monte di purgatorio, sopra la riva del fiume di Lete, come nel
trentesimo canto del _Purgatorio_ si legge.] «Ché quello imperador»,
cioè Iddio, «che lassú», cioè in cielo, «regna, Perch'io fui
ribellante», non seguendola, «alla sua legge», a' suoi comandamenti,
«Non vuol che in sua cittá», in paradiso, «per me si vegna. In tutte
parti impera», comandando, «e quivi», nel cielo empireo, «regge: Quivi
è la sua cittá», nel cielo, «e l'alto seggio», reale. «O felice colui,
cui quivi elegge!», per abitatore di quello, come i beati sono.--
«Io cominciai:--Poeta». In questa quinta particella l'autore, udito il
consiglio di Virgilio, e approvandolo, lo scongiura che quivi il meni,
dicendo: «io ti richieggio, Per quello Iddio», cioè Gesú Cristo, «che
tu non conoscesti, Accioch'io fugga questo male», cioè il pericolo nel
quale al presente sono, «e peggio», cioè la morte, «Che tu mi meni lá
ove or dicesti», cioè in inferno e in purgatorio, «Sí ch'i' vegga la
porta di san Pietro», cioè la porta del purgatorio, dove sta il
vicario di san Piero: «Con quelli i quai tu fai», cioè di' essere,
«cotanto mesti», cioè dolorosi, dannati alle pene eterne.--
«Allor si mosse», entrando nel cammino dimostrato; ed è atto d'uomo
disposto a quello di che è richiesto, che senza eccezione il mette ad
esecuzione. Ed è questa l'ultima particella delle sei, che dissi esser
partita la seconda parte principale del primo canto. «Ed io gli tenni
dietro», cioè il seguitai.


II
SENSO ALLEGORICO

[Lez. V]
«Nel mezzo del cammin di nostra vita», ecc. Poi che, per la grazia di
Dio, è quello, che secondo il senso litterale si può, dimostrato, è da
tornarsi al principio di questo canto, e quello che sotto la rozza
corteccia delle parole è nascoso, cioè il senso allegorico, aprire e
dichiarare. Intorno alla qual cosa credo udirete cose per le quali vi
si potrebbe forse meritamente dire le parole che l'autore medesimo
dice nel secondo canto del _Paradiso_, cioè: «Que' gloriosi che
passâro a Colco, Non s'ammiraron, come voi farete, Quando vider Giason
fatto bifolco». Percioché allora per effetto potrete vedere quanto
d'arte e quanto di sentimento sia stato e sia nello stilo poetico,
oltre alla stima che molti fanno. E peroché gustando con lo 'ntelletto
il mellifluo e celestial sapore, nascoso sotto il velo del favoloso
discrivere, forse vi dorrete il nostro poeta e gli altri avere tanta
soavitá riposta, in guisa che senza difficultá aver non si puote; e
direte:--Perché non diedono i poeti la loro dottrina libera e aperta
ed espedita, come molti altri fanno la loro, sí che, chi volesse, ne
potesse prendere frutto piú tosto?--In risponsione della qual cosa si
possono due ragioni dimostrare: e la prima può esser questa.
Costume generale è, di tutte le cose meritamente da aver care, il
discreto uomo non tenerle in piazza, ma sotto il piú forte serrame
c'ha nella sua casa, e con grandissima diligenza guardarle, e ad