Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 1 - 10

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tutti rendere affamati, e per conseguente feroci, e la stagione del
tempo gli soglia render innamorati piú che alcun altra stagion del
tempo; e gli animali sogliono per queste due cose, per lo cibo e per
venere, esser ferocissimi, e massimamente la lonza, la quale è di sua
natura lussuriosissimo animale: e cosí pare che di quello, di che si
conforta, si dovesse piú tosto sconfortare. Puossi nondimeno cosí
rispondere: che, conceduto quello, che detto è, essere negli animali
bruti, è credibile negli uomini similemente in questo tempo crescere
il vigore, in quanto essi, che razionali sono, veggendo partire le
tenebre della notte, le quali sogliono essere e sono piene di paura,
nel tempo lucido veggono come possano l'arti del loro ingegno usare a
vincere, e in che guisa possano i pericoli e l'esser vinti fuggire. E
il tempo della primavera, secondo i fisici, è conforme alla
compression sanguinea, e però in quella il sangue è piú chiaro, piú
caldo e piú ardire amministra al cuore e forze al corpo; e quinci per
avventura si puote nell'autore accendere ottima speranza di vittoria.
«Ma non sí», gli diede speranza l'ora del tempo ecc., «Che paura non
mi desse La vista», cioè la veduta, «che m'apparve», appresso la
lonza, «d'un leone. Questi parea che contr'a me venesse» (e cosí
appare questo leone essere il secondo ostaculo, il quale il suo
cammino di salire al monte impedí) «Colla test'alta», nel qual atto si
mostrava audace, «e con rabbiosa fame» (questo il faceva meritamente
da temere, come di sopra è detto), «Sí che parea che l'aer ne
temesse», in quanto l'aere, impulso dall'impeto del venire del leone,
indietro si traeva, il quale è atto di chi fugge. Con questo mostrava,
impropriamente parlando, di aver paura di lui.
«Ed una lupa» (questo è il terzo ostaculo, il quale il suo salire
impediva) «che di tutte brame Pareva carca nella sua magrezza». Brama
è propriamente il bestiale appetito di manicare, peroché oltremodo
pieno di voler si mostra; lo quale essere in questa lupa testimonia la
magrezza sua, della quale noi prosumiamo quello animale, in cui la
veggiamo, esser male stato pasciuto, e per conseguente magro e indi
bramoso. «Che molte genti fe' giá viver grame», cioè dolorose.
«Questa» lupa «mi porse tanto di gravezza», cioè di noia, «Colla paura
ch'uscía di sua vista», cioè era sí orribile nello aspetto, che ella
porgea paura altrui, «Ch'io perdei la speranza dell'altezza», cioè di
poter pervenire alla sommitá del monte, sopra le cui spalle avea
veduti i raggi del sole.
«E quale è que' che volentieri acquista». Per questa comparazione ne
dimostra l'autore qual divenisse per lo impedimento pórtogli da questa
bestia, dicendo: «E quale è que'», o mercatante o altro, «che
volentieri acquista», cioè guadagna, «E giugne 'l tempo che perder lo
face», qual che sia la cagione, «Che 'n tutti i suoi pensier», ne'
quali si solea guadagnando rallegrare, perdendo «piange e s'attrista;
Tal mi fece la bestia senza pace», cioè questa lupa, la qual dice
esser animale senza pace, percioché la notte e 'l dí sempre sta
attenta e sollecita a poter predare e divorare: «Che venendomi
incontro», come soglion fare le bestie che vogliono altrui assalire,
«a poco a poco», tirandom'io indietro, «Mi ripignea lá ove il sol
tace», cioè nella oscura selva, della quale io era uscito. Ed è
questo, cioè «dove 'l sol tace», improprio parlare, e non l'usa
l'autore pur qui, ma ancora in altre parti in questa opera, sí come
nel canto quinto quando dice: «I' venni in luogo d'ogni luce muto».
Assai manifesta cosa è che il sole non parla, né similemente alcuno
luogo, de' quai dice qui che l'un tace, cioè il sole, e il luogo è
muto di luce; e sono questi due accidenti, il tacere e l'esser muto,
propriamente dell'uomo (quantunque il Vangelo dica che uno avea un
dimonio addosso, e quello era muto): ma questo modo di parlare si
scusa per una figura, la qual si chiama «acirologia». Vuole adunque
dir qui l'autore, che la paura, ch'egli avea di questo animale, il
ripignea lá dove il sol non luce, cioè in quella oscuritá, la quale
egli disiderava di fuggire.
«Mentre ch'io rovinava in basso loco». Qui dissi si cominciava la
seconda parte di questo canto, nella quale l'autor dimostra il
soccorso venutogli ad aiutarlo uscire di quella valle. E fa in questa
parte sei cose: egli primieramente chiede misericordia a Virgilio
quivi apparitogli, quantunque nol conoscesse; appresso, senza
nominarsi, per piú segni dimostra Virgilio chi egli è; poi l'autore,
estollendo con piú titoli Virgilio, s'ingegna di accattare la
benivolenza sua, e mostragli di quello che egli teme; oltre a ciò,
Virgilio gli dichiara la natura di quella lupa, e il disfacimento di
lei, consigliandolo della via, la quale dee tenere; appresso, l'autore
priega Virgilio che gli mostri quello che detto gli ha; ultimamente,
movendosi Virgilio, l'autore il segue. E segue la seconda quivi: «Ed
egli a me»; la terza quivi: «Or se' tu quel Virgilio»; la quarta
quivi: «A te conviene»; la quinta quivi: «Ed io a lui:--Poeta»; la
sesta quivi: «Allor si mosse».
Dice adunque nella prima: «Mentre ch'io rovinava», cioè tornava, «in
basso loco», cioè nella valle della quale era cominciato a partire,
«Dinanzi agli occhi mi si fu offerto Chi per lungo silenzio parea
fioco». Il che avviene, o perché da alcuna secchezza intrinsica è sí
rasciutta la via del polmone, dal quale la prolazione si muove, che le
parole non ne possono uscire sonore e chiare, come fanno quando in
quella via è alquanta d'umiditá rivocata; o è talvolta che il lungo
silenzio, per alcun difetto intrinsico dell'uomo, provoca tanta
umiditá viscosa in questa via, che similemente rende l'uomo meno
espeditamente parlante, infino a tanto che o rasciutta o sputata non
è. [Ma non credo l'autore questo intenda qui, ma piú tosto, per
difetto delli nostri ingegni, i libri di Virgilio essere intralasciati
giá e tanto tempo, che la chiara fama di loro è quasi perduta o
divenuta piú oscura che esser non solea.]
[«Quando vidi costui», cioè Virgilio apparitogli dinanzi, «pel gran
diserto», cioè per quella tenebrosa valle, meritamente chiamata
dall'autore «diserto», sendo sí aspra, come di sopra ha detto, e priva
di luce; «-Miserere di me--gridai a lui». Sí come molte volte
gl'impauriti e sbigottiti usano, per essere del loro avvenuto caso
soccorsi, gridare; tale l'autore, nella paura presa della orribile
bestia, fece alla veduta di Virgilio, umilmente verso di lui
gridando:--Abbi misericordia di me,--quasi dicendo:--Aiutami,--come
piú innanzi si dichiarerá.]
«--Qual che tu sii, od ombra od uomo certo».--Non conosceva quivi
l'autore, per lo impedimento della paura, se costui, che apparito gli
era, era piú tosto spirito che uomo o uomo che spirito; e in questo
parlare in forse il chiama «ombra», il qual è vocabolo usitatissimo
de' poeti; e questo muove da ciò, che altrimenti prendere non si
possono, che l'uomo possa pigliare l'ombra che alcun corpo faccia. E,
percioché questa materia, cioè che cosa sia l'ombra ovvero anima, e
come l'ombra prenda quel corpo, il quale agli occhi nostri appare che
ella abbia, quando talvolta n'appaiono, si tratterá, sí come in luogo
ciò richiedente, nel venticinquesimo canto del _Purgatorio_, non curo
qui di farne piú luogo sermone.
«Risposemi:--Non uom». In questa seconda particella si dimostra chi
costui fosse che apparito gli era; e questo si dimostra per sei cose
spettanti al domandato. Dice adunque «non uomo», a dimostrare che
l'uomo è composto d'anima e di corpo, e però, separato l'uno
dall'altro, non rimane uomo, né il corpo per se medesimo, né l'anima
per sé; e in quanto dice «uomo giá fui», mostra sé essere spirito giá
stato congiunto con corpo.
«E li parenti miei». È colui che si manifesta qui, Virgilio; e prima
si manifesta dalla regione nella quale nacque, in quanto dice, «furon
lombardi». Dove è da sapere che Virgilio fu figliuolo di Virgilio
lutifigolo, cioè d'uomo il quale faceva quell'arte, cioè di comporre
diversi vasi di terra; e la madre di lui, secondo che dice Servio
_Sopra l'«Eneida»_, quasi nel principio, ebbe nome Maia. Dice adunque
che costoro furono lombardi, cosí dinominati da Lombardia, provincia
situata tra 'l monte Appennino e gli Alpi e 'l mare Adriano; e avanti
che Lombardia si chiamasse, fu chiamata Gallia, da' galli che quella
occuparono e cacciaronne i toscani; e prima che Gallia si chiamasse,
quella parte dove è Mantova, fu chiamata Venezia, da quegli èneti che
seguirono Antenore troiano dopo il disfacimento di Troia. La cagione
perché Lombardia si chiama, è che, partitisi certi popoli dell'isola
di Scandinavia, la quale è tra ponente e tramontana in Oceano,
chiamati dalle barbe grandi e da' capegli, li quali s'intorcevano
davanti al viso, «longobardi», e sotto diversi signori, e dopo
lunghissimo tempo in varie regioni venendo, dimorati, si fermarono in
Ungheria, e in quella stettero nel torno di quarantasei anni; poi, a'
tempi di Giustiniano imperadore, essendo patricio in Italia per lui un
suo eunuco, chiamato Narsete, e non essendo bene nella grazia di
Sofia, moglie di Giustiniano, ed essendo da lei minacciato che
richiamare il farebbe e metterebbelo a filare colle femmine sue,
sdegnato rispose che, s'ella sapesse filare, al bisogno le sarebbe
venuto, percioché egli ordirebbe tal tela, ch'ella non la fornirebbe
di tessere in vita sua; e carichi molti somieri di diversi frutti, con
una solenne ambasciata gli mandò in Ungheria ad Albuino, il quale
allora era re de' longobardi, mandandolo pregando che egli co' suoi
popoli venissero ad abitare quel paese, ove quegli frutti nascevano.
Albuino, che giá in Gallia era stato, ed era amico di Narsete,
lasciata Ungheria a certi popoli vicini, li quali si chiamavano ávari,
in Gallia con tutti i suoi maschi e femmine, piccoli e grandi, ne
venne, e con la loro forza, e col consiglio e aiuto di Narsete, tutto
il paese occuparono; e, toltogli il nome antico, da sé lo dinominarono
Lombardia, il qual nome infino a' nostri dí persevera.
«Mantovani, per patria, amendui». Mantova fu giá notabil cittá; ma,
percioché d'essa si tratterá nel ventesimo canto di questo pienamente,
qui non curo di piú scriverne.
«Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi». Qui dimostra Virgilio chi
egli fosse dal tempo della sua nativitá. E' pare che l'autore voglia
lui esser nato vicino al fine della dettatura di Giulio Cesare, la
qual cosa non veggo come esser potesse; percioché se al fine della
dettatura di Giulio nato fosse, ed essendo cinquantadue anni vissuto
come fece, sarebbe Cristo nato avanti la sua morte: dove Eusebio, in
libro _De temporibus_, scrive lui essere morto l'anno dello 'mperio
d'Ottaviano Cesare...[1], che fu avanti la nativitá di Cristo da
quattordici o quindici anni; e il predetto Eusebio scrive, nel detto
libro, della sua nativitá cosí: «_Virgilius Maro in vico Andes, haud
longe a Mantua natus, Crasso et Pompeio consulibus_»; il quale anno fu
avanti che Giulio Cesare occupasse la dettatura (la qual tenne quattro
anni e parte del quinto) bene venti anni.
«E vissi a Roma». Certa cosa è che Vergilio, avendo lo ingegno
disposto e acuto agli studi, primieramente studiò a Cremona, e di
quindi n'andò a Milano, lá dov'egli studiò in medicina; e, avendo lo
'ngegno pronto alla poesia, e vedendo i poeti esser nel cospetto
d'Ottaviano accetti, se n'andò a Napoli, e quivi si crede sotto
Cornuto poeta udisse alquanto tempo. E quivi similmente dimorando, sí
come egli medesimo testimonia nel fine del libro, avendo prima
composto la _Buccolica_, e racquistato per opera d'Ottaviano i campi
paterni, li quali a Mantova erano stati conceduti ad un centurione
chiamato Arrio, compose la _Georgica_. Poi, sí come Macrobio in libro
_Saturnaliorum_ scrive, mostra mentre che scrisse l'_Eneida_ si stesse
in villa: il dove non dice, ma, per quello che delle sue ossa fece
Ottaviano, si presume che questa villa fosse propinqua a Napoli, e
prossimana al promontorio di Posillipo, tra Napoli e Pozzuolo. [E
portò tanto amore a quella cittá che, essendo solennissimo astrolago,
vi fece certe cose notabili con l'aiuto della strologia; percioché,
essendo Napoli fieramente infestato da continua moltitudine di mosche,
di zenzare e di tafani, egli vi fece una mosca di rame, sotto sí fatta
costellazione che, postala sopra il muro della cittá, verso quella
parte onde le mosche e' tafani da un padule indi vicino, vi venivano,
mai, mentre star fu lasciata, in Napoli non entrò né mosca né tafano.
Fecevi similmente un cavallo di bronzo, il quale avea a far sano ogni
[Footnote 1: In bianco nei codd. [Ed.].] cavallo che avesse i dolori,
o altra naturale infermitá, avendo tre volte menatolo d'intorno a
questo. Fece, oltre a questo, due teste di marmo intagliate, delle
quali l'una piagnea e l'altra ridea, e posele ad una porta, la quale
si chiamava porta Nolana, l'una dall'un lato della porta, e l'altra
dall'altro; ed avevan questa proprietá, che chi veniva per alcuna sua
vicenda a Napoli, e disavvedutamente entrava per quella porta, se egli
passava dalla parte della porta dove era posta quella che piagnea, mai
non potea recare a fine quello per che egli venuto v'era, e se pure il
recava, penava molto, e con gran noia e fatica il faceva; se passava
dall'altra parte, dove era quella che rideva, di presente spacciava la
bisogna sua.] E però credo che egli vivesse poco a Roma, ma che egli
talvolta vi usasse, questo è credibile.
«Sotto il buono Augusto», cioè Ottaviano Cesare, il quale, essendo per
nazione della gente Ottavia, anticamente cittadina di Velletri,
d'Ottavio padre e di Giulia, sirocchia di Giulio Cesare, nacque; il
quale poi Giulio Cesare s'adottò in figliuolo e per testamento gli
lasciò questo nome di Cesare. Poi, avendo egli perseguitati e disfatti
tutti coloro li quali avevano congiurato contro a Giulio Cesare, e
finite nella morte d'Antonio e di Cleopatra le guerre cittadine, e
molte nazioni aggiunte allo 'mperio di Roma; ed essendo a Roma venuti
ambasciadori indiani e di Scizia, genti ancora appena da' romani
conosciute, a domandare l'amicizia e la compagnia sua e de' romani; e,
oltre a ciò, avendo i parti renduti i regni romani tolti a Crasso e ad
Antonio; parendo a' romani questo essere maravigliosa cosa, il
vollero, secondo che alcuni dicono, adorare per iddio: la qual cosa
egli rifiutò del tutto. E nondimeno, avendogli tutto il governo della
republica commesso, e tenendo ragionamento di doverlo cognominare
Romolo, per consiglio di Numacio Planco senatore fu cognominato
Augusto, cioè accrescitore. Ma, percioché in molte parti di questo
libro si fa di lui menzione, per questa credo assai sia detto.
Chiamalo il «buon Augusto» l'autore, percioché, quantunque crudel
giovane fosse, nella etá matura diventò umano e benigno prencipe e
buono per la republica.
«Nel tempo degl'iddii falsi e bugiardi». Sono falsi, non veri iddii,
«_quia dii gentium daemonia_»: «bugiardi» gli chiama, percioché il
demonio, sí come e' medesimo in altra parte dice, è padre di menzogna.
[Lez. III]
«Poeta fui». Apresi ancora qui Virgilio per questo nome di «poeta»
piú all'autore; [intorno al qual nome, chiamato da molti e conosciuto
da pochi, estimo sia alquanto da estendersi. È dunque da vedere donde
avesse la poesia e questo nome origine, qual sia l'uficio del poeta, e
che onore sia retribuito al buon poeta. Estimaron molti, forse piú da
invidia che da altro sentimento ammaestrati, questo nome «poeta»
venire da un verbo detto «_poio pois_», il quale, secondo che li
grammatici vogliono, vuol tanto dire, quanto «_fingo fingis_»: il qual
«_fingo_» ha piú significazioni; percioché egli sta per «comporre»,
per «ornare», per «mentire» e per altri significati. Quegli adunque
che dall'avvilire altrui credon sé esaltare, dissono e dicono che dal
detto verbo «_poio_» viene questo nome «poeta»; e percioché quello
suona «_poio_» che «_fingo_», lasciati stare gli altri significati di
«_fingo_», e preso quel solo nel quale egli significa «mentire»,
conchiudendo, vogliono che «poeta» e «mentitore» sieno una medesima
cosa; e per questo sprezzano e avviliscono e annullano in quanto
possono i poeti, ingegnandosi, oltre a questo, di scacciargli e di
sterminargli del mondo, nel cospetto del non intendente vulgo
gridando: i poeti per autoritá di Platone dover esser cacciati delle
cittá. E, oltre a ciò, prendendo d'una pistola di Geronimo a Damaso
papa _De filio prodigo_ questa parola: «_Carmina poëtarum sunt
cibus daemoniorum_»; quasi armati dell'arme d'Achille, con ardita fronte
contra i poeti tumultuosamente insultano; aggiugnendo a' loro argomenti
le parole della Filosofia a Boezio, dove dice:--«_Quis--inquit--has
scenicas meretriculas ad hunc aegrum permisit accedere, quae dolores
eius non modo nullis remediis foverent, verum dulcibus insuper alerent
venenis?_»--E, se piú alcuna cosa truovano, similmente, come contro a
nemici della repubblica, contro ad essi l'oppongono.]
[Ma, percioché a questi cotali a tempo sará risposto, vengo alla prima
parte, cioè donde avesse origine il nome del «poeta». Ad evidenza
della qual cosa è da sapere, secondo che il mio padre e maestro messer
Francesco Petrarca scrive a Gherardo suo fratello, monaco di Certosa,
gli antichi greci, poiché per l'ordinato movimento del cielo e
mutamento appo noi de' tempi dell'anno, e per altri assai evidenti
argomenti, ebbero compreso uno dover essere colui il quale con
perpetua ragione dá ordine a queste cose, e quello essere Iddio, e tra
loro gli ebbero edificati templi, e ordinati sacerdoti e sacrifici;
estimando di necessitá essere il dovere nelle oblazioni di questi
sacrifici dire alcune parole, nelle quali le laudi degne a Dio, e
ancora i lor prieghi a Dio si contenessero; e conoscendo non esser
degna cosa a tanta deitá dir parole simili a quelle che noi, l'uno
amico con l'altro, familiarmente diciamo o il signore al servo suo:
costituirono che i sacerdoti, li quali eletti e sommi uomini erano,
queste parole trovassero. Le quali questi sacerdoti trovarono; e, per
farle ancora piú strane dall'usitato parlare degli uomini,
artificiosamente le composero in versi. E perché in quelle si
contenevano gli alti misteri della divinitá, accioché per troppa
notizia non venissero in poco pregio appo il popolo, nascosero quegli
sotto fabuloso velame. Il qual modo di parlare appo gli antichi greci
fu appellato «_poetes_»; il qual vocabolo suona in latino, «esquisito
parlare»; e da «_poetes_» venne il nome del «poeta», il qual nulla
altra cosa suona che «esquisito parlatore». E quegli, che prima
trovarono appo i greci questo, furono Museo, Lino e Orfeo. E, perché
ne' lor versi parlavano delle cose divine, furono appellati non
solamente «poeti», ma «teologi»; e per le opere di costoro dice
Aristotile che i primi che teologizzarono furono i poeti. E, se bene
si riguarderá alli loro stili, essi non sono dal modo del parlare
differenti da' profeti, ne' quali leggiamo, sotto velamento di parole
nella prima apparenza fabulose, l'opere ammirabili della divina
potenza. È vero che coloro, spirati dallo Spirito santo, quel dissero
che si legge, il quale credo tutto esser vero, sí come da verace
dettatore stato dettato; quello, che i poeti finsero, fecero per forza
d'ingegno, e in assai cose non il vero, ma quello che essi secondo i
loro errori estimavan vero, sotto il velame delle favole ascosero. Ma
i poeti cristiani, de' quali sono stati assai, non ascosero sotto il
loro fabuloso parlare alcuna cosa non vera, e massimamente dove
fingessero cose spettanti alla divinitá e alla fede cristiana: la qual
cosa assai bene si può cognoscere per la _Buccolica_ del mio
eccellente maestro messer Francesco Petrarca, la quale chi prenderá e
aprirá, non con invidia, ma con caritevole discrezione, troverá sotto
alle dure cortecce salutevoli e dolcissimi ammaestramenti; e
similmente nella presente opera, sí come io spero che nel processo
apparirá. E cosí si cognoscerá i poeti non essere mentitori, come
gl'invidiosi e ignoranti li fanno.]
[Appresso l'uficio del poeta è, sí come per le cose sopradette assai
chiaro si può comprendere, questo nascondere la veritá sotto favoloso
e ornato parlare: il che avere sempre fatto i valorosi poeti si
troverá da chi con diligenza ne cercherá. Ma ciò che io ora ho detto,
è da intendere sanamente. Io dico «la veritá», secondo l'oppenione di
quegli tali poeti; percioché il poeta gentile, al quale niuna notizia
fu della cattolica fede, non poté la veritá di quella nascondere nelle
sue fizioni, nascosevi quelle che la sua erronea religione estimava
esser vere; percioché, se altro che quello, che vero avesse istimato,
avesse nascoso, non sarebbe stato buon poeta.]
[E, percioché i poeti furono estimati non solamente teologi, ma
eziandio esaltatori dell'opere de' valorosi uomini, per li quali li
stati de' regni, delle province e delle cittá si servano; e, oltre a
ciò, quegli ne' lor versi di fare eterni si sforzarono; e similemente
furono grandissimi commendatori delle virtú e vituperatori de' vizi:
estimarono lor dovere estollere con quel singulare onore che i
principi triunfanti per alcuna vittoria erano onorati; cioè che dopo
la vittoria d'alcuna loro laudevole impresa, in comporre alcun
singular libro, essi fossero coronati di alloro, a dimostrare che,
come l'alloro serva sempre la sua verdezza, cosí sempre era da
conservare la lor fama. Le fatiche de' quali, se molto laudevoli non
fossero, non è credibile che il senato di Roma, al qual solo
apparteneva il concedere, a cui degno ne reputava, la laurea, avesse
quella ad un poeta conceduta, ch'egli concedette ad Affricano, a
Pompeo, a Ottaviano e agli altri vittoriosi prencipi e solenni uomini:
la qual cosa per avventura non considerano coloro che meno
avvedutamente gli biasimano. E se per avventura volesson dire:--Noi
gli biasimiamo perché furon gentili, le scritture de' quali sono da
schifare sí come erronee;--direi che da tollerar fosse, se Platone,
Aristotile, Ipocrate, Galieno, Euclide, Tolomeo e altri simili assai,
cosí gentili come i poeti furono, fossero similemente schifati; il che
non avvenendo, non si può forse altro dire se non che singular
malivolenzia il faccia fare.]
[Ma da rispondere è alle obbiezioni di questi valenti uomini fatte
contro a' poeti.]
[Dicono adunque, aiutati dall'autoritá di Platone, che i poeti sono da
esser cacciati delle cittá, quasi corrompitori de' buoni costumi. La
qual cosa negare non si può che Plato nel libro della sua _Republica_
non lo scriva; ma le sue parole non bene intese da questi cotali fanno
loro queste cose senza sentimento dire. Fu ne' tempi di Platone, e
avanti, e poi perseverò lungamente, ed eziandio in Roma, una spezie di
poeti comici, li quali, per acquistare ricchezze e il favore del
popolo, componevan lor commedie, nelle quali fingevano certi adultèri
e altre disoneste cose, state perpetrate dagli uomini, li quali la
stoltizia di quella etá aveva mescolati nel numero degl'iddii; e
queste cotal commedie poi recitavano nella scena, cioè in una piccola
casetta, la quale era constituita nel mezzo del teatro, stando
dintorno alla detta scena tutto il popolo, e gli uomini e le femmine,
della cittá ad udire. E non gli traeva tanto il diletto e il disiderio
di udire, quanto di vedere i giuochi che dalla recitazione del commedo
procedevano; i quali erano in questa forma: che una spezie di buffoni,
chiamati «mimi», l'uficio de' quali è sapere contraffare gli atti
degli uomini, uscivano di quella scena, informati dal commedo in
quegli abiti ch'erano convenienti a quelle persone, gli atti delle
quali dovevano contraffare, e questi cotali atti, onesti o disonesti
che fossero, secondo che il commedo diceva, facevano. E, percioché
spesso vi si facevano intorno agli adultèri, che i commedi recitavano,
di disoneste cose, si movevano gli appetiti degli uomini e delle
femmine, riguardanti, a simili cose disiderare e adoperare; di che i
buon costumi e le menti sane si corrompevano, e ad ogni disonestá
discorrevano. Perciò, accioché questo cessasse, Platone, considerando,
se la republica non fosse onesta, non poter consistere, scrisse, e
meritamente, questi cotali dovere essere cacciati delle cittá. Non
adunque disse d'ogni poeta. Chi fia di sí folle sentimento, che creda
che Platone volesse che Omero fosse cacciato della cittá, il quale è
dalle leggi chiamato «padre d'ogni virtú»? chi Solone, che nello
estremo de' suoi dí, ogni altro studio lasciato, ferventissimamente
studiava in poesia? Le leggi del qual Solone, non solamente lo
scapestrato vivere degli ateniesi regolarono, ma ancora composero i
costumi de' romani, giá cominciati a divenire grandi. Chi crederá
ch'egli avesse cacciato Virgilio, chi Orazio o Giovenale, acerrimi
riprenditori de' vizi? chi crederá ch'egli avesse cacciato il
venerabile mio maestro messer Francesco Petrarca, la cui vita e i cui
costumi sono manifestissimo esemplo d'onestá? chi il nostro autore, la
cui dottrina si può dire evangelica? E se egli questi cosí fatti poeti
cacciasse, cui riceverá egli poi per cittadino? Sardanapalo, Tolomeo
Evergete, Lucio Catellina, Neron cesare? Ma in veritá questa
obbiezione potevano essi o potrebbono agevolmente tacere. Non è egli
sí gran calca fatta da' poeti onesti d'abitare nelle cittá: Omero
abitò il piú per li luoghi solitari d'Arcadia; Virgilio, come detto è,
in villa; messer Francesco Petrarca a Valchiusa, luogo separato d'ogni
usanza d'uomini; e, se investigando si verrá, questo medesimo si
troverá di molti altri.]
[Dicono oltre a questo, le parole scritte da san Girolamo: «_Daemonum
cibus sunt carmina poëtarum_». Le quali parole senza alcun dubbio son
vere. Ma chi avesse in questa medesima pístola letto, avrebbe potuto
vedere di quali versi san Girolamo avesse inteso; e massimamente nella
figura, la qual pone, d'una femmina non giudea, ma prigione de'
giudei, la qual dice che, avendo raso il capo, e posti giú i
vestimenti suoi, e toltesi l'unghie e i peli, potersi ad uno ismaelita
per via di matrimonio congiugnere: forse con minor fervore, avendo la
figura intesa, avrebbero quelle parole contro a' poeti allegate. E,
accioché questo piú apertamente s'intenda, non vuole altro la figura
posta da san Girolamo, se non, per quegli atti che la scrittura di Dio
dice dover fare, se non, una purgazione del paganesimo o d'altra setta
fatta, potere qualunque femmina nel matrimonio venir de' giudei: e
cosí, purgate certe inconvenienze del numero de' poeti, restare i
versi de' poeti non come cibo di dimonio, ma come angelico potersi da'
fedeli cristiani usare. E questa purgazione per la grazia di Dio si
può dir fatta, poi che Costantino imperadore, battezzato da san
Silvestro, diede luogo al lume della veritá; percioché per la santitá
e sollecitudine dei papi e degli altri ecclesiastici pastori,
scacciando i sopradetti comici e ogni disonesto libro ardendo, par
questa poesia antica purgata, e potersi, ne' libri autorevoli e
laudevoli rimasi, congiugnere con ogni cristiano.]
[Non dico perciò (che è quello, a che san Girolamo nella predetta
pistola attende molto) che il prete o il monaco, o qual altro
religioso voglian dire, al divino oficio obbligato, debba il breviario
posporre a Virgilio; ma, avendo con divozione e con lagrime il divino
oficio detto, non è peccare in Spirito santo il vedere gli onesti
versi di qualunque poeta. E, se questi cotali non fossero piú
religiosi o piú dilicati, che stati sieno i santi dottori, essi
ritroverebbero questo cibo, il quale dicono de' demòni, non solamente
non essere stato gittato via o messo nel fuoco, come alcuni per
avventura vorrebbono, ma essere stato con diligenzia servato, trattato
e gustato da Fulgenzio, dottore e pontefice cattolico, sí come appare
in quello libro, il quale esso appella delle _Mitologiae_, da lui con
elegantissimo stilo scritto, esponendo le favole de' poeti. E
similmente troverebbono sant'Agostino, nobilissimo dottore, non avere
avuto in odio la poesia, né i versi de' poeti, ma con solerte
vigilanza quegli avere studiati e intesi: il che se negare alcun
volesse, non puote; conciosiacosaché spessissime volte questo santo
uomo ne' suoi volumi induca Virgilio e gli altri poeti; né quasi mai
nomina Virgilio senza alcun titolo di laude.]
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