Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 1 - 01

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SCRITTORI D'ITALIA

G. BOCCACCIO

OPERE VOLGARI
XII


GIOVANNI BOCCACCIO
IL COMENTO ALLA DIVINA COMMEDIA
E GLI ALTRI SCRITTI INTORNO A DANTE
A CURA DI
DOMENICO GUERRI
VOLUME PRIMO

BARI
GIUS. LATERZA & FIGLI
TIPOGRAFI-EDITORI-LIBRAI
1918

PROPRIETÁ LETTERARIA
GIUGNO MCMXVIII--49326

A
PIO RAJNA E GIROLAMO VITELLI


I
VITA DI DANTE


I
PROPOSIZIONE

Solone, il cui petto un umano tempio di divina sapienzia fu reputato,
e le cui sacratissime leggi sono ancora alli presenti uomini chiara
testimonianza dell'antica giustizia, era, secondo che dicono alcuni,
spesse volte usato di dire ogni republica, sí come noi, andare e stare
sopra due piedi; de' quali, con matura gravitá, affermava essere il
destro il non lasciare alcun difetto commesso impunito, e il sinistro
ogni ben fatto remunerare; aggiugnendo che, qualunque delle due cose
giá dette per vizio o per nigligenzia si sottraeva, o meno che bene si
servava, senza niun dubbio quella republica, che 'l faceva, convenire
andare sciancata: e se per isciagura si peccasse in amendue, quasi
certissimo avea, quella non potere stare in alcun modo.
Mossi adunque piú cosí egregi come antichi popoli da questa laudevole
sentenzia e apertissimamente vera, alcuna volta di deitá, altra di
marmorea statua, e sovente di celebre sepultura, e tal fiata di
triunfale arco, e quando di laurea corona secondo i meriti precedenti
onoravano i valorosi: le pene, per opposito, a' colpevoli date non
curo di raccontare. Per li quali onori e purgazioni la assiria, la
macedonica, la greca e ultimamente la romana republica aumentate, con
l'opere le fini della terra, e con la fama toccaron le stelle. Le
vestigie de' quali in cosí alti esempli, non solamente da' successori
presenti, e massimamente da' miei fiorentini, sono male seguite, ma in
tanto s'è disviato da esse, che ogni premio di virtú possiede
l'ambizione; per che, sí come e io e ciascun altro che a ciò con
occhio ragionevole vuole guardare, non senza grandissima afflizione
d'animo possiamo vedere li malvagi e perversi uomini a' luoghi eccelsi
e a' sommi ofici e guiderdoni elevare, e li buoni scacciare, deprimere
e abbassare. Alle quali cose qual fine serbi il giudicio di Dio,
coloro il veggiano che il timone governano di questa nave: percioché
noi, piú bassa turba, siamo trasportati dal fiotto, della fortuna, ma
non della colpa partecipi. E, comeché con infinite ingratitudini e
dissolute perdonanze apparenti si potessero le predette cose
verificare, per meno scoprire li nostri difetti e per pervenire al mio
principale intento, una sola mi fia assai avere raccontata (né questa
fia poco o picciola), ricordando l'esilio del chiarissimo uomo Dante
Alighieri. Il quale, antico cittadino né d'oscuri parenti nato, quanto
per vertú e per scienzia e per buone operazioni meritasse, assai il
mostrano e mostreranno le cose che da lui fatte appaiono: le quali, se
in una republica giusta fossero state operate, niuno dubbio ci è che
esse non gli avessero altissimi meriti apparecchiati.
Oh scellerato pensiero, oh disonesta opera, oh miserabile esempio e di
futura ruina manifesto argomento! In luogo di quegli, ingiusta e
furiosa dannazione, perpetuo sbandimento, alienazione de' paterni
beni, e, se fare si fosse potuto, maculazione della gloriosissima
fama, con false colpe gli fûr donate. Delle quali cose le recenti orme
della sua fuga e l'ossa nelle altrui terre sepulte e la sparta prole
per l'altrui case, alquante ancora ne fanno chiare. Se a tutte l'altre
iniquitá fiorentine fosse possibile il nascondersi agli occhi di Dio,
che veggono tutto, non dovrebbe quest'una bastare a provocare sopra sé
la sua ira? Certo sí. Chi in contrario sia esaltato, giudico che sia
onesto il tacere. Sí che, bene ragguardando, non solamente è il
presente mondo del sentiero uscito del primo, del quale di sopra
toccai, ma ha del tutto nel contrario vòlti i piedi. Per che assai
manifesto appare che, se noi e gli altri che in simile modo vivono,
contro la sopra toccata sentenzia di Solone, sanza cadere stiamo in
piede, niuna altra cosa essere di ciò cagione, se non che o per lunga
usanza la natura delle cose è mutata, come sovente veggiamo avvenire,
o è speziale miracolo, nel quale, per li meriti d'alcuno nostro
passato, Dio, contra ogni umano avvedimento ne sostiene, o è la sua
pazienzia, la quale forse il nostro riconoscimento attende; il quale
se a lungo andare non seguirá, niuno dubiti che la sua ira, la quale
con lento passo procede alla vendetta, non ci serbi tanto piú grave
tormento, che appieno supplisca la sua tarditá. Ma, percioché, come
che impunite ci paiono le mal fatte cose, quelle non solamente
dobbiamo fuggire, ma ancora, bene operando, d'amendarle ingegnarci;
conoscendo io me essere di quella medesima cittá, avvegnaché picciola
parte, della quale, considerati li meriti, la nobiltá e la vertú,
Dante Alighieri fu grandissima, e per questo, sí come ciascun altro
cittadino, a' suoi onori sia in solido obbligato; comeché io a tanta
cosa non sia sofficiente, nondimeno secondo la mia picciola facultá,
quello ch'essa dovea verso lui magnificamente fare, non avendolo
fatto, m'ingegnerò di far io; non con istatua o con egregia sepoltura,
delle quali è oggi appo noi spenta l'usanza, né basterebbono a ciò le
mie forze, ma con lettere povere a tanta impresa. Di queste ho, e di
queste darò, accioché igualmente, e in tutto e in parte, non si possa
dire fra le nazioni strane, verso cotanto poeta la sua patria essere
stata ingrata. E scriverò in istilo assai umile e leggiero, peroché
piú alto nol mi presta lo 'ngegno, e nel nostro fiorentino idioma,
accioché da quello, ch'egli usò nella maggior parte delle sue opere,
non discordi, quelle cose le quali esso di sé onestamente tacette:
cioè la nobiltá della sua origine, la vita, gli studi, i costumi;
raccogliendo appresso in uno l'opere da lui fatte, nelle quali esso sé
sí chiaro ha renduto a' futuri, che forse non meno tenebre che
splendore gli daranno le lettere mie, come che ciò non sia di mio
intendimento né di volere; contento sempre, e in questo e in
ciascun'altra cosa, da ciascun piú savio, lá dove io difettuosamente
parlassi, essere corretto. Il che accioché non avvenga, umilemente
priego Colui che lui trasse per sí alta scala a vedersi, come
sappiamo, che al presente aiuti e guidi lo 'ngegno mio e la debole
mano.


II
PATRIA E MAGGIORI DI DANTE

Fiorenza, intra l'altre cittá italiane piú nobile, secondo che
l'antiche istorie e la comune opinione de' presenti pare che vogliano,
ebbe inizio da' romani; la quale in processo di tempo aumentata, e di
popolo e di chiari uomini piena, non solamente cittá, ma potente
cominciò a ciascun circunstante ad apparere. Ma qual si fosse, o
contraria fortuna o avverso cielo o li loro meriti, agli alti inizi di
mutamento cagione, ci è incerto; ma certissimo abbiamo, essa non dopo
molti secoli da Attila, crudelissimo re de' vandali e generale
guastatore quasi di tutta Italia, uccisi prima e dispersi tutti o la
maggior parte di quegli cittadini, che ['n] quella erano o per nobiltá
di sangue o per qualunque altro stato d'alcuna fama, in cenere la
ridusse e in ruine: e in cotale maniera oltre al trecentesimo anno si
crede che dimorasse. Dopo il qual termine, essendo non senza cagione
di Grecia il romano imperio in Gallia translatato, e alla imperiale
altezza elevato Carlo magno, allora clementissimo re de' franceschi;
piú fatiche passate, credo da divino spirito mosso, alla
reedificazione della desolata cittá lo 'mperiale animo dirizzò; e da
quegli medesimi che prima conditori n'erano stati, come che in picciol
cerchio di mura la riducesse, in quanto poté, simile a Roma la fe'
reedificare e abitare; raccogliendovi nondimeno dentro quelle poche
reliquie, che si trovarono de' discendenti degli antichi scacciati.
Ma intra gli altri novelli abitatori, forse ordinatore della
reedificazione, partitore delle abitazioni e delle strade, e datore al
nuovo popolo delle leggi opportune, secondo che testimonia la fama, vi
venne da Roma un nobilissimo giovane per ischiatta de' Frangiapani, e
nominato da tutti Eliseo; il quale per avventura, poi ch'ebbe la
principale cosa, per la quale venuto v'era, fornita, o dall'amore
della cittá nuovamente da lui ordinata, o dal piacere del sito, al
quale forse vide nel futuro dovere essere il cielo favorevole, o da
altra cagione che si fosse, tratto, in quella divenne perpetuo
cittadino, e dietro a sé di figliuoli e di discendenti lasciò non
picciola né poco laudevole schiatta: li quali, l'antico sopranome de'
loro maggiori abbandonato, per sopranome presero il nome di colui che
quivi loro aveva dato cominciamento, e tutti insieme si chiamâr gli
Elisei. De' quali di tempo in tempo, e d'uno in altro discendendo, tra
gli altri nacque e visse uno cavaliere per arme e per senno
ragguardevole e valoroso, il cui nome fu Cacciaguida; al quale nella
sua giovanezza fu data da' suo' maggior per isposa una donzella nata
degli Aldighieri di Ferrara, cosí per bellezza e per costumi, come per
nobiltá di sangue pregiata, con la quale piú anni visse, e di lei
generò piú figliuoli. E comeché gli altri nominati si fossero, in uno,
sí come le donne sogliono esser vaghe di fare, le piacque di rinnovare
il nome de' suoi passati, e nominollo Aldighieri; comeché il vocabolo
poi, per sottrazione di questa lettera «d» corrotto, rimanesse
Alighieri. Il valore di costui fu cagione a quegli che discesero di
lui, di lasciare il titolo degli Elisei, e di cognominarsi degli
Alighieri; il che ancora dura infino a questo giorno. Del quale,
comeché alquanti figliuoli e nepoti e de' nepoti figliuoli
discendessero, regnante Federico secondo imperadore, uno ne nacque, il
cui nome fu Alighieri, il quale piú per la futura prole che per sé
doveva esser chiaro; la cui donna gravida, non guari lontana al tempo
del partorire, per sogno vide quale doveva essere il frutto del ventre
suo; comeché ciò non fosse allora da lei conosciuto né da altrui, ed
oggi, per lo effetto seguíto, sia manifestissimo a tutti.
Pareva alla gentil donna nel suo sonno essere sotto uno altissimo
alloro, sopra uno verde prato, allato ad una chiarissima fonte, e
quivi si sentia partorire un figliuolo, il quale in brevissimo tempo,
nutricandosi solo dell'orbache, le quali dell'alloro cadevano, e
dell'onde della chiara fonte, le parea che divenisse un pastore, e
s'ingegnasse a suo potere d'avere delle fronde dell'albero, il cui
frutto l'avea nudrito; e, a ciò sforzandosi, le parea vederlo cadere,
e nel rilevarsi non uomo piú, ma uno paone il vedea divenuto. Della
qual cosa tanta ammirazione le giunse, che ruppe il sonno; né guari di
tempo passò che il termine debito al suo parto venne, e partorí uno
figliuolo, il quale di comune consentimento col padre di lui per nome
chiamaron Dante: e meritamente, percioché ottimamente, sí come si
vedrá procedendo, seguí al nome l'effetto.
Questi fu quel Dante, del quale è il presente sermone; questi fu quel
Dante, che a' nostri seculi fu conceduto di speziale grazia da Dio;
questi fu quel Dante, il qual primo doveva al ritorno delle muse,
sbandite d'Italia, aprir la via. Per costui la chiarezza del
fiorentino idioma è dimostrata; per costui ogni bellezza di volgar
parlare sotto debiti numeri è regolata; per costui la morta poesí
meritamente si può dir suscitata: le quali cose, debitamente guardate,
lui niuno altro nome che Dante poter degnamente avere avuto
dimostreranno.


III
SUOI STUDI

Nacque questo singulare splendore italico nella nostra cittá, vacante
il romano imperio per la morte di Federigo giá detto, negli anni della
salutifera incarnazione del Re dell'universo MCCLXV, sedente Urbano
papa quarto nella cattedra di san Piero, ricevuto nella paterna casa
da assai lieta fortuna: lieta, dico, secondo la qualitá del mondo che
allora correa. Ma, quale che ella si fosse, lasciando stare il
ragionare della sua infanzia, nella quale assai segni apparirono della
futura gloria del suo ingegno, dico che dal principio della sua
puerizia, avendo giá li primi elementi delle lettere impresi, non,
secondo il costume de' nobili odierni, si diede alle fanciullesche
lascivie e agli ozi, nel grembo della madre impigrendo, ma nella
propia patria tutta la sua puerizia con istudio continuo diede alle
liberali arti, e in quelle mirabilmente divenne esperto. E crescendo
insieme con gli anni l'animo e lo 'ngegno, non a' lucrativi studi,
alli quali generalmente oggi corre ciascuno, si dispose, ma da una
laudevole vaghezza di perpetua fama [tratto], sprezzando le
transitorie ricchezze, liberamente si diede a volere aver piena
notizia delle fizioni poetiche e dell'artificioso dimostramento di
quelle. Nel quale esercizio familiarissimo divenne di Virgilio,
d'Orazio, d'Ovidio, di Stazio e di ciascun altro poeta famoso; non
solamente avendo caro il conoscergli, ma ancora, altamente cantando,
s'ingegnò d'imitarli, come le sue opere mostrano, delle quali appresso
a suo tempo favelleremo. E, avvedendosi le poetiche opere non essere
vane o semplici favole o maraviglie, come molti stolti estimano, ma
sotto sé dolcissimi frutti di veritá istoriografe o filosofiche avere
nascosti; per la quale cosa pienamente, sanza le istorie e la morale e
naturale filosofia, le poetiche intenzioni avere non si potevano
intere; partendo i tempi debitamente, le istorie da sé, e la filosofia
sotto diversi dottori s'argomentò, non sanza lungo studio e affanno,
d'intendere. E, preso dalla dolcezza del conoscere il vero delle cose
racchiuse dal cielo, niuna altra piú cara che questa trovandone in
questa vita, lasciando del tutto ogni altra temporale sollecitudine,
tutto a questa sola si diede. E, accioché niuna parte di filosofia non
veduta da lui rimanesse, nelle profonditá altissime della teologia con
acuto ingegno si mise. Né fu dalla intenzione l'effetto lontano,
percioché, non curando né caldi né freddi, vigilie né digiuni, né
alcun altro corporale disagio, con assiduo studio pervenne a conoscere
della divina essenzia e dell'altre separate intelligenzie quello che
per umano ingegno qui se ne può comprendere. E cosí come in varie
etadi varie scienze furono da lui conosciute studiando, cosí in vari
studi sotto vari dottori le comprese.
Egli li primi inizi, sí come di sopra è dichiarato, prese nella propia
patria, e di quella, sí come a luogo piú fertile di tal cibo, n'andò a
Bologna; e giá vicino alla sua vecchiezza n'andò a Parigi, dove, con
tanta gloria di sé, disputando, piú volte mostrò l'altezza del suo
ingegno, che ancora, narrandosi, se ne maravigliano gli uditori. E di
tanti e sí fatti studi non ingiustamente meritò altissimi titoli:
percioché alcuni il chiamarono sempre «poeta», altri «filosofo» e
molti «teologo», mentre visse. Ma, percioché tanto è la vittoria piú
gloriosa al vincitore, quanto le forze del vinto sono state maggiori,
giudico esser convenevole dimostrare, di come fluttuoso e tempestoso
mare costui, gittato ora in qua ora in lá, vincendo l'onde parimente
e' venti contrari, pervenisse al salutevole porto de' chiarissimi
titoli giá narrati.


IV
IMPEDIMENTI AVUTI DA DANTE AGLI STUDI

Gli studi generalmente sogliono solitudine e rimozione di
sollecitudine e tranquillitá d'animo disiderare, e massimamente gli
speculativi, a' quali il nostro Dante, sí come mostrato è, si diede
tutto. In luogo della quale rimozione e quiete, quasi dallo inizio
della sua vita infino all'ultimo della morte, Dante ebbe fierissima e
importabile passione d'amore, moglie, cura familiare e publica, esilio
e povertá; l'altre lasciando piú particulari, le quali di necessitá
queste si traggon dietro: le quali, accioché piú appaia della loro
gravezza, partitamente convenevole giudico di spiegarle.


V
AMORE PER BEATRICE

Nel tempo nel quale la dolcezza del cielo riveste de' suoi ornamenti
la terra, e tutta per la varietá de' fiori mescolati fra le verdi
frondi la fa ridente, era usanza della nostra cittá, e degli uomini e
delle donne, nelle loro contrade ciascuno in distinte compagnie
festeggiare; per la qual cosa, infra gli altri per avventura, Folco
Portinari, uomo assai orrevole in que' tempi tra' cittadini, il primo
dí di maggio aveva i circustanti vicini raccolti nella propia casa a
festeggiare, infra li quali era il giá nominato Alighieri. Al quale,
sí come i fanciulli piccoli, e spezialmente a' luoghi festevoli,
sogliono li padri seguire, Dante, il cui nono anno non era ancora
finito, seguito avea; e quivi mescolato tra gli altri della sua etá,
de' quali cosí maschi come femmine erano molti nella casa del
festeggiante, servite le prime mense, di ciò che la sua picciola etá
poteva operare, puerilmente si diede con gli altri a trastullare.
Era intra la turba de' giovinetti una figliuola del sopradetto Folco,
il cui nome era Bice, comeché egli sempre dal suo primitivo, cioè
Beatrice, la nominasse, la cui etá era forse d'otto anni, leggiadretta
assai secondo la sua fanciullezza, e ne' suoi atti gentilesca e
piacevole molto, con costumi e con parole assai piú gravi e modeste
che il suo picciolo tempo non richiedea; e, oltre a questo, aveva le
fattezze del viso dilicate molto e ottimamente disposte, e piene,
oltre alla bellezza, di tanta onesta vaghezza, che quasi una
angioletta era reputata da molti. Costei adunque, tale quale io la
disegno, o forse assai piú bella, apparve in questa festa, non credo
primamente, ma prima possente ad innamorare, agli occhi del nostro
Dante: il quale, ancoraché fanciul fosse, con tanta affezione la bella
imagine di lei ricevette nel cuore, che da quel giorno innanzi, mai,
mentre visse, non se ne dipartí. Quale ora questa si fosse, niuno il
sa; ma, o conformitá di complessioni o di costumi o speziale
influenzia del cielo che in ciò operasse, o, sí come noi per
esperienza veggiamo nelle feste, per la dolcezza de' suoni, per la
generale allegrezza, per la dilicatezza de' cibi e de' vini, gli animi
eziandio degli uomini maturi, non che de' giovinetti, ampliarsi e
divenire atti a poter essere leggiermente presi da qualunque cosa che
piace; è certo questo esserne divenuto, cioè Dante nella sua
pargoletta etá fatto d'amore ferventissimo servidore. Ma, lasciando
stare il ragionare de' puerili accidenti, dico che con l'etá
multiplicarono l'amorose fiamme, in tanto che niun'altra cosa gli era
piacere o riposo o conforto, se non il vedere costei. Per la qual
cosa, ogni altro affare lasciandone, sollecitissimo andava lá dovunque
credeva potere vederla, quasi del viso o degli occhi di lei dovesse
attignere ogni suo bene e intera consolazione.
Oh insensato giudicio degli amanti! chi altri che essi estimerebbe per
aggiugnimento di stipa fare le fiamme minori? Quanti e quali fossero
li pensieri, li sospiri, le lagrime e l'altre passioni gravissime poi
in piú provetta etá da lui sostenute per questo amore, egli medesimo
in parte il dimostra nella sua _Vita nova_, e però piú distesamente
non curo di raccontarle. Tanto solamente non voglio che non detto
trapassi, cioè che, secondo che egli scrive e che per altrui, a cui fu
noto il suo disio, si ragiona, onestissimo fu questo amore, né mai
apparve, o per isguardo o per parola o per cenno, alcuno libidinoso
appetito né nello amante né nella cosa amata: non picciola maraviglia
al mondo presente, del quale è sí fuggito ogni onesto piacere, e
abituatosi l'avere prima la cosa che piace conformata alla sua
lascivia che diliberato d'amarla, che in miracolo è divenuto, sí come
cosa rarissima, chi amasse altramente. Se tanto amore e sí lungo poté
il cibo, i sonni e ciascun'altra quiete impedire, quanto si dee potere
estimare lui essere stato avversario agli sacri studi e allo 'ngegno?
Certo, non poco; comeché molti vogliano lui essere stato incitatore di
quello, argomento a ciò prendendo dalle cose leggiadramente nel
fiorentino idioma e in rima, in laude della donna amata, e accioché li
suoi ardori e amorosi concetti esprimesse, giá fatte da lui; ma certo
io nol consento, se io non volessi giá affermare l'ornato parlare
essere sommissima parte d'ogni scienza; che non è vero.


VI
DOLORE DI DANTE PER LA MORTE DI BEATRICE

Come ciascuno puote evidentemente conoscere, niuna cosa è stabile in
questo mondo; e, se niuna leggermente ha mutamento, la nostra vita è
quella. Un poco di soperchio freddo o di caldo che noi abbiamo,
lasciando stare gli altri infiniti accidenti e possibili, da essere a
non essere sanza difficultá ci conduce; né da questo gentilezza,
ricchezza, giovanezza, né altra mondana dignitá è privilegiata; della
quale comune legge la gravitá convenne a Dante prima per l'altrui
morte provare che per la sua. Era quasi nel fine del suo
vigesimoquarto anno la bellissima Beatrice, quando, sí come piacque a
Colui che tutto puote, essa, lasciando di questo mondo l'angosce,
n'andò a quella gloria che li suoi meriti l'avevano apparecchiata.
Della qual partenza Dante in tanto dolore, in tanta afflizione, in
tante lagrime rimase, che molti de' suoi piú congiunti e parenti ed
amici niuna fine a quelle credettero altra che solamente la morte; e
questa estimarono dover essere in brieve, vedendo lui a niun conforto,
a niuna consolazione pórtagli dare orecchie. Gli giorni erano alle
notte iguali e agli giorni le notti; delle quali niuna ora si
trapassava senza guai, senza sospiri e senza copiosa quantitá di
lagrime; e parevano li suoi occhi due abbondantissime fontane d'acqua
surgente, in tanto che piú si maravigliarono donde tanto umore egli
avesse che al suo pianto bastasse. Ma, sí come noi veggiamo, per lunga
usanza le passioni divenire agevoli a comportare, e similmente nel
tempo ogni cosa diminuire e perire; avvenne che Dante infra alquanti
mesi apparò a ricordarsi, senza lagrime, Beatrice esser morta, e con
piú dritto giudicio, dando alquanto il dolore luogo alla ragione, a
conoscere li pianti e li sospiri non potergli, né ancora alcuna altra
cosa, rendere la perduta donna. Per la qual cosa con piú pazienza
s'acconciò a sostenere l'avere perduta la sua presenzia; né guari di
spazio passò che, dopo le lasciate lagrime, li sospiri, li quali giá
erano alla loro fine vicini, cominciarono in gran parte a partirsi
sanza tornare.
Egli era sí per lo lagrimare, sí per l'afflizione che il cuore sentiva
dentro, e sí per lo non avere di sé alcuna cura, di fuori divenuto
quasi una cosa salvatica a riguardare: magro, barbuto e quasi tutto
trasformato da quello che avanti esser solea; intanto che 'l suo
aspetto, nonché negli amici, ma eziandio in ciascun altro che il
vedea, a forza di sé metteva compassione; comeché egli poco, mentre
questa vita cosí lagrimosa durò, altrui che ad amici veder si
lasciasse.
Questa compassione e dubitanza di peggio facevano li suoi parenti
stare attenti a' suoi conforti; li quali, come alquanto videro le
lagrime cessate e conobbero li cocenti sospiri alquanto dare sosta al
faticato petto, con le consolazioni lungamente perdute rincominciarono
a sollecitare lo sconsolato; il quale, come che infino a quella ora
avesse a tutte ostinatamente tenute le orecchie chiuse, alquanto le
cominciò non solamente ad aprire, ma ad ascoltare volentieri ciò che
intorno al suo conforto gli fosse detto. La qual cosa veggendo i suoi
parenti, accioché del tutto non solamente de' dolori il traessero, ma
il recassero in allegrezza, ragionarono insieme di volergli dar
moglie; accioché, come la perduta donna gli era stata di tristizia
cagione, cosí di letizia gli fosse la nuovamente acquistata. E,
trovata una giovane, quale alla sua condizione era decevole, con
quelle ragioni che piú loro parvero induttive, la loro intenzion gli
scoprirono. E, accioché io particularmente non tocchi ciascuna cosa,
dopo lunga tenzone, senza mettere guari di tempo in mezzo, al
ragionamento seguí l'effetto: e fu sposato.


VII
DIGRESSIONE SUL MATRIMONIO

Oh menti cieche, oh tenebrosi intelletti, oh argomenti vani di molti
mortali, quanto sono le riuscite in assai cose contrarie a' vostri
avvisi, e non sanza ragion le piú volte! Chi sarebbe colui che del
dolce aere d'Italia, per soperchio caldo, menasse alcuno nelle cocenti
arene di Libia a rinfrescarsi, o dell'isola di Cipri, per riscaldarsi,
nelle eterne ombre de' monti Rodopei? qual medico s'ingegnerá di
cacciare l'aguta febbre col fuoco, o il freddo delle medolla dell'ossa
col ghiaccio o con la neve? Certo, niuno altro, se non colui che con
nuova moglie crederá l'amorose tribulazion mitigare. Non conoscono
quegli, che ciò credono fare, la natura d'amore, né quanto ogni altra
passione aggiunga alla sua. Invano si porgono aiuti o consigli alle
sue forze, se egli ha ferma radice presa nel cuore di colui che ha
lungamente amato. Cosí come ne' princípi ogni picciola resistenza è
giovevole, cosí nel processo le grandi sogliono essere spesse volte
dannose. Ma da ritornare è al proposito, e da concedere al presente
che cose sieno, le quali per sé possano l'amorose fatiche fare
obliare.
Che avrá fatto però chi, per trarmi d'un pensiero noioso, mi metterá
in mille molto maggiori e di piú noia? Certo niuna altra cosa, se non
che per giunta del male che m'avrá fatto, mi fará disiderare di
tornare in quello, onde m'ha tratto; il che assai spesso veggiamo
addivenire a' piú, li quali o per uscire o per essere tratti d'alcune
fatiche, ciecamente o s'ammogliano o sono da altrui ammogliati; né
prima s'avveggiono, d'uno viluppo usciti, essere intrati in mille, che
la pruova, sanza potere, pentendosi, indietro tornare, n'ha data
esperienza. Dierono gli parenti e gli amici moglie a Dante, perché le
lagrime cessassero di Beatrice. Non so se per questo, comeché le
lagrime passassero, anzi forse eran passate, sí passò l'amorosa
fiamma; ché nol credo; ma, conceduto che si spegnesse, nuove cose e
assai poterono piú faticose sopravvenire. Egli, usato di vegghiare ne'
santi studi, quante volte a grado gli era, cogl'imperadori, co' re e
con qualunque altri altissimi prencipi ragionava, disputava co'
filosofi, e co' piacevolissimi poeti si dilettava, e l'altrui angosce
ascoltando, mitigava le sue. Ora, quanto alla nuova donna piace, è con
costoro, e quel tempo, ch'ella vuole tolto da cosí celebre compagnia,
gli conviene ascoltare i femminili ragionamenti, e quegli, se non vuol
crescer la noia, contra il suo piacere non solamente acconsentir, ma
lodare. Egli, costumato, quante volte la volgar turba gli rincresceva,
di ritrarsi in alcuna solitaria parte e, quivi speculando, vedere
quale spirito muove il cielo, onde venga la vita agli animali che sono
in terra, quali sieno le cagioni delle cose, o premeditare alcune
invenzioni peregrine o alcune cose comporre, le quali appo li futuri
facessero lui morto viver per fama; ora non solamente dalle
contemplazioni dolci è tolto quante volte voglia ne viene alla nuova
donna, ma gli conviene essere accompagnato di compagnia male a cosí
fatte cose disposta. Egli, usato liberamente di ridere, di piagnere,
di cantare o di sospirare, secondo che le passioni dolci e amare il
pungevano, ora o non osa, o gli conviene non che delle maggiori cose,
ma d'ogni picciol sospiro rendere alla donna ragione, mostrando che 'l
mosse, donde venne e dove andò; la letizia cagione dell'altrui amore,
la tristizia esser del suo odio estimando.
Oh fatica inestimabile, avere con cosí sospettoso animale a vivere, a
conversare, e ultimamente a invecchiare o a morire! Io voglio lasciare
stare la sollecitudine nuova e gravissima, la quale si conviene avere
a' non usati (e massimamente nella nostra cittá), cioè onde vengano i
vestimenti, gli ornamenti e le camere piene di superflue dilicatezze,
le quali le donne si fanno a credere essere al ben vivere opportune;
onde vengano li servi, le serve, le nutrici, le cameriere; onde
vengano i conviti, i doni, i presenti che fare si convengono a'
parenti delle novelle spose, a quegli che vogliono che esse credano da
loro essere amate; e appresso queste, altre cose assai prima non
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