Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 1 - 12

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alquanti suoi amici, ma a pochi e rade volte, mostrarle; e questo fa,
accioché il troppo farne copia non faccia quelle divenire piú vili. Il
che per atto possiam tutto il dí vedere avvenire; e, se in ogni altra
cosa nascosa ci fosse questa veritá, guardiamo al sole, del quale
alcuna cosa sí bella, non che piú, veggiamo, né alcuna sí chiara
muoversi, non tirato né sospinto, se non dal divino ordine impostogli;
pieno di tanta luce, che ogni altro lucido corpo illumina, ogni
terrena cosa vivifica, accresce e nutrica e al suo fine conduce: il
quale, per troppo mostrarsi, è non solamente poco prezzato, ma son di
quegli che di vederlo ischifano. Per la qual cosa, accioché questo non
seguiti, non so qual altra cosa noi possiamo con piú certa ragion dire
che sia piú cara, piú da gradire e meglio da riporre e da guardare,
che sono gli alti effetti della natura e i secreti misteri e i sublimi
della divinitá. Questi, se negl'intelletti universalmente del vulgo
divenissero, in poco tempo ne seguirebbe che sarebbon pregiati meno
che non è il sole, o che i ragionamenti meccanici e le favole delle
femminelle. E per questo lo Spirito santo, d'ogni cosa dottissimo, gli
alti segreti della divina mente nascose, come noi possiam vedere,
nelle figure del _Vecchio Testamento_, nelle _Visioni_ di certi
profeti, e ancora nell'_Apocalissi_ di Giovanni evangelista, sotto
parole tanto nella prima faccia differenti dal vero e meno conformi
nell'apparenza a' sensi nascosi, che per poco piú esser non
potrebbono. Le vestigie del quale, con quelle forze che possono gli
umani ingegni seguir la divinitá, con ogni arte s'ingegnarono di
seguitare i poeti, quelle cose che essi estimavano piú degne sotto
favoloso parlare nascondendo, accioché dove carissime sono, non
divenissero vili ad ogni uomo, aperte lasciandole. Il che assai bene
pare ne dimostri Macrobio, nel primo libro _De somnio Scipionis_, cosí
dicendo: «_De diis autem, ut dixi, caeteris et de anima, non frustra
se, nec ut oblectent, ad fabulosa convertunt, sed quia sciunt inimicam
esse naturae apertam nudamque expositionem sui: quae, sicut vulgaribus
hominum sensibus intellectum sui vario rerum tegmine operimentoque
subtraxit, ita a prudentibus arcana sua voluit per fabulosa tractari.
Sic ipsa mysteria figurarum cuniculis operiuntur, ne vel hoc adeptis
nudam rerum talium natura se praebeat, sed summatibus tantum viris,
sapientia interprete, veri arcani consciis. Contenti sint reliqui ad
venerationem, figuris defendentibus a vilitate secretum_», ecc.
La seconda ragione può essere questa. Suole quello, che con difficultá
s'acquista, piacer piú e guardarsi meglio che quello che senza alcuna
fatica o poca si truova; e questo le grandi ereditá rimase a' nostri
giovani cittadini hanno mostrato. Non essendo adunque alcun dubbio
esser molta malagevolezza il trarre la nascosa veritá di sotto al
fabuloso parlare, dee seguire essere incomparabile diletto, a colui
che, per suo studio, vede averla saputa trovare; laonde non solamente
ogni affanno avutone se ne dimentica, ma ne rimane una dolcezza
nell'animo, la quale quasi con legame indissolubile ferma, nella
memoria di colui che ritrovata l'ha, la veritá: dove quella che senza
alcuna difficultá s'acquista, come leggiermente venne, cosí
leggiermente si parte. Di che séguita che dell'avere faticato
s'acquista, dove del non avere studiato l'uomo si ritruova di scienza
vòto.
[La terza ragione mi pare dovere esser questa. E' non pare che alcun
dubbio sia li cieli, i pianeti e le stelle esser ministri della divina
potenza, e, secondo la virtú loro attribuita, i corpi inferiori
generare, mediante quelle cagioni che dalla natura sono ordinate, e
quegli nutrire e nel lor fine menargli. E, percioché essi corpi
superiori sono in continuo moto e in diversi modi si congiungono e si
separano l'uno dall'altro, par di necessitá che gli effetti da lor
prodotti in diversi tempi e in materie diverse, debbano esser diversi
e a diverse cose disposti; e quinci par che séguiti la diversitá degli
aspetti degli uomini, de' quali non pare che alcuno alcun altro
somigli; e similmente degli ofici, li quali veggiam manifestamente
essere, eziandio naturalmente, diversi negli uomini. Dalla qual cosa
mosso, dice il nostro autore nel _Paradiso_:
Un ci nasce Solone, ed altro Serse,
altri Melchisedech, ed altri quello
che, volando per l'aere, il figlio perse.
E questo si dee cognoscere muovere dal divino intelletto, il quale
cognosce una universitá, come è quella dell'umana generazione, non
poter consistere in sé, se non avesse diversitá d'ufici. E perciò,
accioché dell'altre cose lasciamo al presente stare, alcun ci nasce
atto a filosofia, alcuno ad astrologia, alcuno a poesia e alcuni altri
ad altre scienze. Colui, che nasce atto a poesia, séguita, quanto può
e sa, d'esercitarsi nel poetico oficio; e, quantunque da Dio sia alle
nostre anime, le quali esso _immediate_ crea, data la ragione e il
libero arbitrio, per lo quale, non ostante la forza de' cieli, ciascun
può far quello che piú gli aggrada, pare che il piú seguitin gli
uomini quello a che essi sono atti nati. Laonde quegli che al poetico
oficio è nato, eziandio volendo, non pare che possa fare altro che
quello che a tale oficio s'appartiene; e, percioché a quello oficio
s'appartiene quello che di sopra è detto, se egli in quello
laudevolmente s'esercita, non è per avventura da maravigliarsene]. E
perciò non si rammarichi alcuno, se dai poeti è sotto favole nascosa
la veritá, ma piú tosto si dolga della sua negligenza, per la quale e'
perde o ha perduto quello che il farebbe lieto, faticandosi d'avere
ritrovata la cara gemma nella spazzatura nascosa. E questo basti avere
a questa parte risposto.
Fu adunque il nostro poeta, sí come gli altri poeti sono,
nasconditore, come si vede, di cosí cara gioia, come è la cattolica
veritá, sotto la volgare corteccia del suo poema. [Per la qual cosa si
può meritamente dire questo libro essere poliseno, cioè di piú sensi.
De' quali è il primo senso quello il quale egli ha nelle cose
significate per la lettera, sí come voi potete aver di sopra, nella
esposizion litterale, udito; e chiamasi questo senso «litterale», e
cosí è. Il secondo senso è allegorico o vero morale, il quale,
accioché voi comprendiate meglio, esemplificando vel dichiarerò in
questi versi: «_In exitu Israël de Aegypto, domus Iacob de populo
barbaro: facta est Iudea sanctificatio eius, Israël potestas eius_».
Da' quali, se noi guarderemo a quello che la lettera suona solamente,
vedremo esserci significato l'uscimento de' figliuoli di Israel
d'Egitto al tempo di Moisé; e se noi guarderemo alla alligoria,
vedremo esserci mostrata la nostra redenzione fatta per Cristo; e se
noi guarderemo al senso morale, vedremo esserci mostrata la
conversione dell'anima nostra dal pianto e dalla miseria del peccato
allo stato della grazia; e se noi guarderemo al senso anagogico,
vedremo esserci dimostrato l'uscimento dell'anima santa dalla
corruzione della presente servitudine alla libertá della gloria
eternale. E cosí come questi sensi mistici sono generalmente per vari
nomi appellati, tutti nondimeno si possono appellare «allegorici»,
conciosiacosaché essi sieno diversi dal senso litterale o vero
istoriale: e questo è, percioché «allegoria» è detta da un vocabolo
greco, detto «_aileon_», il quale in latino suona «alieno», ovvero
diverso; e perciò dissi questo libro esser poliseno, percioché tutti
questi sensi, da chi tritamente volesse guardare, gli si potrebbono in
assai parti dare]. E per questo, agutamente pensando, forse potremmo
del presente libro dir quello che san Gregorio dice, nel proemio de'
suoi _Morali_, della Santa Scrittura, cosí scrivendo: «_Sacra
Scriptura locutionis suae morem transcendit, quia in uno eodemque
sermone dum narrat textum prodit mysterium, et sic mysterio sapientes
exercet, sic superficie simplices refovet. Habet in publico unde
parvulos nutriat, servat in secreto unde mentes sublimium in
admiratione suspendat. Quasi quidem quippe est fluvius, ut ita
dixerim, planus et allus, in quo et agnus ambulet, et elephans
natet_», ecc.; percioché, recitando della presente opera la corteccia
litterale, con quella insieme narriamo il misterio delle cose divine e
umane, sotto quella artificiosamente nascose, e in questa maniera
intorno al senso allegorico si possono i savi esercitare, e intorno
alla dolcezza testuale nudrire i semplici, cioè quelli li quali ancora
tanto non sentono, che essi possano al senso allegorico trapassare:
cosí possiam vedere questo libro avere in publico donde nutrir possa
gl'ingegni di quegli che meno sentimento hanno, e donde egli sospenda
con ammirazione le menti de' piú provetti. E ancora, quantunque alla
Sacra Scrittura del tutto agguagliar non si possa, se non in quanto di
quella favelli, come in assai parti fa, nondimeno, largamente
parlando, dir si può di questo, quello esserne che san Gregorio
afferma di quello: cioè questo libro essere un fiume piano e profondo,
nel quale l'agnello puote andare e il leofante notare, cioè in esso si
possono i rozzi dilettare e i gran valenti uomini esercitare.
Ma, avendo giá l'una delle due parti in questo primo canto mostrata,
cioè come quegli, che di minor sentimento sono, si possano intorno al
senso litterale non solamente dilettare, ma ancora e nudrire e le lor
forze crescere in maggiori; è da dimostrare la seconda, intorno alla
quale si possano gl'ingegni piú sublimi esercitare: la qual cosa si
fará aprendo quello che sotto la crosta della lettera sta nascoso.
Intorno alla qual cosa sono da considerare, quanto è alla prima parte
del presente canto, dieci cose: delle quali la prima será il veder
quello che il nostro autore voglia sentire per lo sonno, il quale dice
che ricordar nol lascia come nella selva oscura s'entrasse; la
seconda, come noi in questo sonno ci leghiamo; la terza, qual fosse la
diritta via la quale per questo sonno dice d'avere smarrita; la
quarta, qual cosa potesse essere quella che il movesse a ravvedersi
che esso avesse la diritta via smarrita; la quinta, perché piú nel
mezzo del cammino di nostra vita che in altra etá; la sesta, quello
che egli intenda per quella selva tanto oscura e malagevole, quanto
dimostra esser quella nella quale dice si ritrovò; la settima, perché
piú nel principio del dí che ad altra ora scriva d'essersi ravveduto;
la ottava, quello che vuole s'intenda per li raggi del sole
apparitigli e per lo monte nella sommitá del quale gli apparvero; la
nona, quello che esso senta per la considerazione avuta, poi che
alquanto la paura gli cessò; la decima, quello che noi dobbiam sentire
per le tre bestie le quali lo impedivano a salire al monte. E, queste
vedute, procederemo alla seconda parte del presente canto.
La prima cosa, la qual dissi si voleva investigare, accioché il senso
allegorico, nascoso sotto la lettera della prima parte di questo
canto, si manifesti, è quello che il nostro autore voglia sentire per
lo sonno, il qual dice che ricordar nol lascia come egli entrasse
nell'oscura selva. Ad evidenzia della quale è da sapere che 'l sonno,
che alla presente materia appartiene, è di due maniere: l'una è sonno
corporale, l'altra è sonno mentale. Il sonno corporale si può in due
maniere distinguere. Delle quali l'una è naturale, e puossi dire esser
quella la quale naturalmente in noi si richiede in nudrimento e
conservazione della nostra sanitá: il quale, occupandoci, lega e quasi
oziose rende tutte le nostre forze (ovvero potenze) sensitive e le
intellettive, percioché, perseverante esso, né sentiamo né intendiamo
alcuna cosa; di che a' morti simili divegnamo. Ma, poi che la natura
ha preso per la sua indigenza quello che l'è opportuno a restaurazione
delle virtú faticate nella vigilia e in conforto della vegetativa
virtú, eziandio senza essere da alcuno escitati, da questo per noi
medesimi ci sciogliamo. E di questo alcuna cosa piú distesamente
diremo nel principio del quarto canto del presente libro. L'altra
maniera del corporal sonno è quella, dalla quale vinta ogni corporal
potenza, si separa l'anima dal corpo, e senza alcuna cosa sentire o
potere o sapere, immobili giacciamo, e giaceremo infino al dí
novissimo, senza poterci levare. E di questo intende il salmista,
quando dice: «_Cum dederit dilectis suis somnum_».
Il sonno mentale, allegoricamente parlando, è quello quando l'anima,
sottoposta la ragione a' carnali appetiti, vinta dalle concupiscenze
temporali, s'addormenta in esse, e oziosa e negligente diventa, e del
tutto dalle nostre colpe legata diviene, quanto è in potere alcuna
cosa a nostra salute operare. E questo è quel sonno, dal quale ne
richiama san Paolo, dicendo: «_Hora est iam nos de somno surgere_». E
questo sonno può essere temporale e può esser perpetuo. Temporale è
quando ne' peccati e nelle colpe nostre inviluppati dormiamo; e il
salmista dice: «_Surgite postquam sederitis, qui manducatis panem
doloris_»; e in altra parte san Paolo, dicendo: «_Surge, qui dormis,
et exurge a mortuis, et illuminabit te Christus_». E talvolta avviene
per sola benignitá di Dio che noi ci risvegliamo, e, riconosciuti i
nostri errori e le nostre colpe, per la penitenzia levandoci, ci
riconciliamo a Dio, il quale non vuole la morte dei peccatori; e, a
lui riconciliati, ripognamo, mediante la sua grazia, la ragione, sí
come donna e maestra della nostra vita, nella suprema sedia
dell'anima, ogni scellerata operazione per lo suo imperio scalpitando
e discacciando da noi. Perpetuo è quel sonno mentale, il quale, mentre
che ostinatamente ne' nostri peccati perseveriamo, ne sopraggiugne
l'ora ultima della presente vita, e in esso addormentati, nell'altra
passiamo, lá dove, non meritata la misericordia di Dio, in sempiterno
coi miseri in tal guisa passati, dimoriamo. Li quali si dicon «dormire
nel sonno della miseria», in quanto hanno perduto il poter vedere,
conoscere e gustare il bene dello 'ntelletto, nel qual consiste la
gloria de' beati. È adunque questo sonno mentale quello del quale il
nostro autor vuole che qui allegoricamente s'intenda; nel qual,
ciascuno che si diletta piú di seguir l'appetito che la ragione, è
veramente legato, e ismarrisce, anzi perde la via della veritá, alla
quale in eterno non può ritornare.
La seconda cosa che era da vedere dissi che era come noi in questo
sonno mentale ci leghiamo. E, percioché i lacciuoli sono infiniti, li
quali la carne, il mondo e 'l dimonio tendono alla nostra sensualitá,
pienamente dire non se ne potrebbe per lingua d'uomo; ma ad un de'
modi, il quale è quasi universale, riducendoci, dico che, dalla nostra
puerizia, noi il piú dirizziamo i piedi, cioè le nostre affezioni, in
questi lacci, e, quasi non accorgendocene (percioché piú i sensi che
la ragione abbiamo allora per guida), sí c'inveschiamo, che poi o non
ci sciogliamo da quegli, o non senza grande difficultá, volendo, ce ne
sviluppiamo. A questa etá i nostri tre predetti nemici con ogni
sollecitudine stendono le reti loro. E la ragione è questa: l'etá,
come detto è, è tenera e nuova e vaga, e la sensualitá è in essa
fortissima, percioché la ragione non v'è ancora assai perfetta; e,
secondo che pare che la esperienza ne dimostri, dalla gola, alla quale
quella etá è inchinevole, par che prenda inizio la nostra ruina. E la
ragione pare assai manifesta: sono generalmente i fanciulli vaghi del
cibo, sospignendogli a ciò la natura che il suo aumento disidera; e
gustando, come spesso avviene, le saporite e dilicate vivande e i vini
esquisiti, a pian passo procedendo ed ausando il gusto a quello che
non gli bisognerebbe, cominciano, quantunque piccoli e fanciulli
sieno, ad aver men cari quegli cibi, che, quantunque rozzi, soleano
satisfare alla fame e alla sete loro, e i piú preziosi desiderano e
domandano, e dal disiderio ad ottenergli si sforzano; e con questo
nella etá piú piena procedendo, quasí come da naturale ordine tirati,
nel vizio della lussuria discorrono. Questa, la quale non solamente i
giovani, ma i vecchi fa se medesimi sovente dimenticare, loro con
tante e tali lusinghe diletica, che, potendo all'appetito la vigorosa
etá dell'adolescenza sodisfare, con ogni pensiero e con ardentissima
affezione quello vituperevole diletto seguendo, tutti si mettono. E
quinci, per compiacere, negli ornamenti del corpo discorrono, non
altrimenti assai sovente ornandosi, che se vender si volessono al
mercato de' poco savi. Le quali cose, percioché senza denari esercitar
pienamente non si possono, gli sospingono nel disiderio d'aver denari,
e, per quegli ogni coscienza posposta, senza alcuna difficultá ad ogni
disonesto guadagno si dispongono, e quinci giucatori, ladri,
barattieri, simoniaci, ruffiani e disleali divengono. E giá ad etá piú
piena d'anni venuti, veggendo gli onori, la pompa, la potenza e la
grandigia de' re, de' signori, de' gran cittadini, di quegli
s'accendono, e quinci invidiosi, superbi, crudeli e ambiziosi
divengono. Le quali cose, e altre molte, cosí successivamente, e
talora con altro ordine cresciute, e multiplicate e abituate in noi,
nel sonno della oblivione dei comandamenti di Dio ci legano e tengon
sí stretti, che, quasi convertite in natura, per romore che fatto ci
sia in capo, destare non ci lasciano. Le quali cose accioché a'
lacedemoni avvenir non potessero, per legge comandò Licurgo che i lor
figliuoli, ecc. (vedi Giustino, nel terzo libro, poco dopo il
principio). [Né è mia intenzione il modo da addormentare i miseri nel
sonno de' peccati lasciare.] Percioché molti aguati hanno gli
avversari nostri, con li quali, se creduti sono, ogni matura e robusta
etá adoppiano: ma perciò mi piacque far singular menzione di questa,
perché, in questo modo presi, ci abituiamo ne' peccati; e por giú
l'abito preso è difficilissimo; e, se pur si rimuove l'uomo talvolta
dal peccare, con molta meno difficultá v'è rivocato colui che abituato
vi fu, che colui che non vi fu abituato, e alcuna volta da essa
memoria delle colpe giá commesse v'è ritirato.
La terza cosa, la qual dissi era da cercare, è di veder qual sia la
via la quale l'autore dice d'avere per questo sonno smarrita. Egli è
il vero che le vie son molte, ma tra tutte non è che una che a porto
di salute ne meni, e quella è esso Iddio, il quale di sé dice
nell'Evangelio: «_Ego sum via, veritas et vita_»; e questa via tante
volte si smarrisce (dico «smarrisce», perché poi chi vuole la può
ritrovare, mentre nella presente vita stiamo), quante le nostre
iniquitá dai piaceri di Dio ne trasviano, mostrandoci nelle cose
labili e caduche esser somma e vera beatitudine. E questa via, per la
quale i nostri avversari ci ritorcono, danna il salmista, dicendo:
«_Beatus vir qui non abiit in consilio impiorum, et in via peccatorum
non stetit_», ecc.; ed in altra parte dice pregando: «_Viam
iniquitatis amove a me, et in lege tua miserere mei_». Chiamasi ancora
la vita presente «via»; e di questa dice il salmista: «_Beati
immaculati in via_»; e in altra parte: «_De torrente in via bibit_».
Ma, come detto è, accioché di molt'altre lasciamo istare il ragionare,
la prima è quella per la quale, se la gloria eterna vogliamo, ci
conviene andare: e da questa si smarrisce ciascuno il quale nel sonno
de' peccati si lega. E, percioché, come di sopra è mostrato,
lusinghevolmente sottentrano i vizi, e cominciano in etá nella quale
pienamente conosciuti non sono, dice l'autore non ricordarsí come
questa via diritta abbandonasse. E credibile è. Chi sará colui che
pienamente della origine delle sue colpe si possa ricordare?
Conciosiacosaché esse vengano con diletto della sensualitá, e, quel
passato, quasi state non fossero, leggiermente in dimenticanza si
mettono.
La quarta cosa, la qual propuosi da essere da investigare, fu qual
cosa potesse esser quella che l'autor movesse a ravvedersi che esso
avesse la diritta via smarrita. E questa, senza alcun dubbio, si dee
credere che fosse la grazia di Dio, il quale ci ama assai piú che non
ci amiamo noi medesimi, e sempre è alla nostra salute sollecito; il
che assai bene ne mostra Giovenale, dicendo:
_Nam pro iocundis aptissima quaeque dabunt dii:
carior est homo illis, quam sibi_, ecc.
Ma, accioché noi cognosciamo qual fosse la grazia di Dio, dalla quale
l'autore tócco si movesse a destarsi del sonno mortale, nel quale la
mente sua era legata, e a ravvedersi in qual pericolo fosse l'anima
sua è da sapere, sí come il «maestro delle sentenze» afferma, esser
quattro grazie quelle che la divina bontá ci presta alla nostra
salute: delle quali la prima è chiamata grazia «operante», della quale
dice san Paolo: «Per la grazia di Dio io sono quello che io sono»; la
seconda grazia si chiama grazia «cooperante», e di questa dice san
Paolo medesimo: «La grazia di Dio non fu in me vacua»; la terza grazia
si chiama «perseverante», della qual dice il salmista: «_Et
misericordia eius subsequatur me omnibus diebus vitae meae_»; la
quarta grazia si chiama «salvante», della quale si legge
nell'Evangelio: «_De plenitudine eius omnes accepimus gratiam per
gratiam_». Fa adunque la prima grazia, del malvagio uomo, buono, sí
come nel _Libro della sapienza_ si scrive: «_Verte ipsum, et non
erit_»; e san Paolo dice: «_Fuistis aliquando tenebrae, nunc autem lux
in Domino_». La seconda, cioè la cooperante, fa del buono, migliore; e
di ciò dice il salmo: «_Ibunt de virtute in virtutem_». La terza, cioè
la perseverante, ne trasporta della via nella patria, della quale dice
l'Evangelio: «_Qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit_»;
nell'_Apocalissi_ si legge: «_Quicumque vicerit, dabo ei edere de
ligno vitae, quod est in paradiso Dei mei_»; e in altra parte
nell'_Apocalissi_ medesimo: «_Quicumque vicerit, faciam illum columnam
in templo Dei mei_». La quarta, cioè la salvante, secondo i meriti
guiderdona i faticanti; di che l'Evangelio dice: «_Quid hic statis
quotidie ociosi? ite et vos in vineam meam, et quod iustum fuerit dabo
vobis_»; e san Paolo: «_ut recipiat unusquisque secundum ea quae
fecit_». Di queste quattro grazie, delle quali ho alquanto parlato,
percioché piú volte nel processo di questo libro se n'ará a ragionare,
piú diffusamente se ne vorrebbe esser detto; nondimeno questo basti al
presente. E dico che la prima grazia senza alcun merito di colui che
la riceve si dona; di che dice san Paolo: «_Non secundum opera quae
fecimus nos, sed secundum suam misericordiam salvos nos fecit_». Le
qualitá delle quali grazie considerate, assai manifestamente appare la
prima delle quattro essere stata quella che al nostro autore (e
similemente a ciascun altro che in simile caso si truova), fu
conceduta da Dio, per la quale esso il suo misero stato conobbe.
Ma potrebbe alcun domandare: in che maniera tocca Domeneddio i
peccatori con questa sua grazia? Le maniere son molte, percioché a
tanto artefice, quanto Iddio è, non mancò mai modo a quello che egli
volesse adoperare. Dice il salmista: «_Dixit et facta sunt: mandavit
et creata sunt_». Esso primieramente alcuna volta con visioni tocca le
menti di coloro che di questa grazia hanno bisogno, sí come noi
leggiamo di Costantino imperadore, il quale, dormendo, vide san Pietro
e san Paolo, e il loro ammaestramento udí, e poi si destò dal corporal
sonno e dal mentale, quello seguí, e gli errori del paganesimo tutti
da sé cacciò. Tocca alcuna volta con aperta visione, come fece san
Paolo quando andava a Damasco; e fu di sí fatta forza questo
toccamento, che esso divenne subitamente, di lupo, agnello e vaso di
elezione pieno di Spirito santo. Tocca ancora co' suoi messaggeri, sí
come fece David, il quale per l'omicidio d'Uria e per l'adulterio
commesso in Bersabé, essendosi dal suo piacer partito, mandatogli
Nathan profeta, il fece riconoscere; il quale, piangendo, e in quel
salmo allora da lui composto, cioè «_Miserere mei, Deus_», la sua
misericordia addomandando, impetrò del commesso perdonanza; e
similemente Ezechia re, nunziatagli per comandamento di Dio da Isaia
profeta la sua morte, pianse e pregò, e impetrò quindici anni di vita.
Tocca ancora con tribulazioni intorno alle cose mondane; perché gli
uomini, sentendosi affliggere nella perdita de' figliuoli e delle
possessioni, delle mercatanzie, degli stati e di simili cose, quasi
desti dal mortal sonno si ritornano verso Iddio, e ingegnansi d'uscire
della via delle tenebre e tornare alla luce. E quantunque saper non
possiamo qual si fosse, di queste o forse d'alcuna altra, la maniera
con la quale la grazia di Dio toccò l'autore addormentato dal sonno
mentale, credesi nondimeno per molti che da tribulazioni fosse tócco;
giá aveggendosi in questo tempo, nel quale la presente opera
incominciò, di quello che poi quasi a mano a mano gli avvenne, cioè di
dover perdere lo stato suo, e di dovere andar in esilio, e di dovere
nelle proprie cose ricever danno. Per la qual cosa, da questa grazia
operante tócco, cominciò a pensare, e pensando a conoscere le cose
presenti non avere alcuna stabilitá, esser piene d'invidia e di
pericoli, e nulla altra cosa in sé aver fermezza se non il servire e
amare Iddio. Dal quale pensiero fu cominciata a rompere la nuvola
della ignoranza, la quale infino a quella ora l'avea occupato, e
cominciò a conoscere la miseria dello stato de' peccati, e ad
avvedersi in quanti e quali fosse inviluppato, e in quanto pericolo
esso fosse lungamente dimorato d'andare ad eterna perdizione.
La quinta cosa, che dissi era da vedere, è perché piú nel mezzo della
nostra vita che in altra etá questo avvenisse. Intorno alla qual cosa
è da sapere questo vocabol «mezzo» potersi prendere in due modi. L'un
modo è quello che nella esposizione litterale dicemmo, cioè puntale;
il quale mezzo è dirittamente quel punto che igualmente è distante a
due estremitá. Verbigrazia: egli è una verga lunga due braccia, cioè
dall'una estremitá della verga all'altra sono due braccia; per che il
mezzo puntale di questa verga sara lá dove, dall'una estremitá
cominciandosi e andando verso l'altra la lunghezza d'un braccio, lá
dove egli finirá, sia puntalmente il mezzo di questa verga. E possiamo
ancor dire il mezzo puntale esser quel punto il quale la sesta fa,
quando alcun cerchio discriviamo; percioché questo in ogni parte del
cerchio è igualmente distante dalla circunferenza. La seconda maniera
del mezzo s'intende assai sovente ciò che si contiene intra due
estremi, o infra la circunferenza del cerchio; sí come Niccolaio di
Tamech sopra il Tito Livio dice che Arno è un fiume posto nel mezzo
tra Fiesole e Arezzo; e in alcun luogo dice la Scrittura, Ierusalem
essere nel mezzo del mondo: per lo qual mezzo molti intendono il mezzo
puntale, e ciò, come i geometri sanno, non è vero. E perciò in questa
parte è da prendere la parola dell'autore, quanto alla persona sua,
per lo mezzo puntale; percioché, come di sopra mostrammo, egli era di
etá di trentacinque anni, ch'è il mezzo puntale della vita nostra,
quando, tócco dalla grazia di Dio, si ravvide dove l'aveva la
ignoranza menato. Ma, percioché a ciascuno uomo, in che etá egli si
sia, può avvenire, anzi avviene tutto il dí, che, abbandonata la via
della veritá, s'entra ne' vizi, e similemente, per la grazia di Dio,
il ravvedersi; si può per gli altri, i quali in altra etá che l'autore
si ravveggono, intender questo mezzo quello spazio che è posto in fra
il dí della nostra nativitá e il dí della morte. E puossi quel mezzo
il quale per l'autore s'intende, che è intorno all'etá de'
trentacinque anni, moralmente prendere, secondo che in quella etá ogni
corporale virtú è a sua perfezion venuta; e cosí, in qualunque tempo
l'uomo si ravvede del suo mal vivere e al ben vivere si converte, si
può dire ogni potenzia animale esser venuta in perfetta virtú; e cosí
nella buona disposizione, aiutato dalla grazia cooperante,
perseverando, va di questa virtú in altra maggiore, e di quell'altra
in un'altra, tanto che egli perviene dove ciascun discreto disidera al
suo fine di venire.
La sesta cosa, la qual dissi che era da investigare, era quello
ch'egli intendesse per quella selva oscura e malagevole nella quale
dice si ritrovò. È adunque questa selva, per quello che io posso
comprendere, lo 'nferno, il quale è casa e prigione del diavolo, nella
quale ciascun peccatore cade ed entra, sí tosto come cade in peccato
mortale. E che ella sia lo 'nferno, la discrizion di quella il
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