Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 1 - 05

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futura previde, suole, da sua propra benignitá mossa, qualora la
natura, sua generale ministra, è per producere alcuno inusitato
effetto infra' mortali, di quello con alcuna dimostrazione o in segno
o in sogno o in altra maniera farci avveduti, accioché dalla
predimostrazione argomento prendiamo ogni conoscenza consistere nel
Signore della natura producente ogni cosa; la quale predimostrazione,
se ben si riguarda, ne fece nella venuta del poeta, del quale tanto di
sopra è parlato, nel mondo. E a quale persona la poteva egli fare che
con tanta affezione e veduta e servata l'avesse, quanto colei che
della cosa mostrata doveva essere madre, anzi giá era? Certo a niuna.
Mostrollo dunque a lei, e quello ch'egli a lei mostrasse ci è giá
manifesto per la scrittura di sopra; ma quello ch'egli intendesse con
piú aguto occhio è da vedere. Parve adunque alla donna partorire un
figliuolo, e certo cosí fece ella infra picciolo termine dalla veduta
visione. Ma che vuole significare l'alto alloro sotto il quale il
partorisce, è da vedere.
Opinione è degli astrologi e di molti naturali filosofi, per la vertú
e influenzia de' corpi superiori gl'inferiori e producersi e
nutricarsi, e, se potentissima ragione da divina grazia illuminata non
resiste, guidarsi. Per la qual cosa, veduto quale corpo superiore sia
piú possente nel grado che sopra l'orizzonte sale in quella ora che
alcun nasce, secondo quello cotal corpo piú possente, anzi secondo le
sue qualitá, dicono del tutto il nato disporsi. Per che per lo alloro,
sotto il quale alla donna pareva il nostro Dante dare al mondo, mi
pare che sia da intendere la disposizione del cielo la quale fu nella
sua nativitá, mostrante sé essere tale che magnanimitá e eloquenzia
poetica dimostrava; le quali due cose significa l'alloro, álbore di
Febo, e delle cui fronde li poeti sono usi di coronarsi, come di sopra
è giá mostrato assai.
Le bache, delle quali nutrimento prendeva il fanciullo nato, gli
effetti da cosí fatta disposizione di cielo, quale è mostrata, giá
proceduti, intendo; li quali sono i libri poetici e le loro dottrine,
da' quali libri e dottrine fu altissimamente nutricato, cioè
ammaestrato il nostro Dante.
Il fonte chiarissimo, della cui acqua le parea che questi bevesse,
niuna altra cosa giudico che sia da intendere se non l'ubertá della
filosofica dottrina morale e naturale; la quale sí come dalla ubertá
nascosa nel ventre della terra procede, cosí e queste dottrine dalle
copiose ragioni dimostrative, che terrena ubertá si possono dire,
prendono essenza e cagione: senza le quali, cosí come il cibo non può
bene disporsi, senza bere, negli stomaci di chi 'l prende, non si può
alcuna scienzia bene negl'intelletti adattare di nessuno, se dalli
filosofici dimostramenti non v'è ordinata e disposta. Per che
ottimamente possiamo dire, lui con le chiare onde, cioè con la
filosofia, disporre nel suo stomaco, cioè nel suo intelletto, le bache
delle quali si pasce, cioè la poesia, la quale, come giá è detto, con
tutta la sua sollecitudine studiava.
Il divenire subitamente pastore ne mostra la eccellenzia del suo
ingegno, in quanto subitamente; il quale fu tanto e tale, che in
brieve spazio di tempo comprese per istudio quello che opportuno era a
divenire pastore, cioè datore di pastura agli altri ingegni di ciò
bisognosi. E sí come assai leggermente ciascuno può comprendere, due
maniere sono di pastori: l'una sono pastori corporali, l'altra
spirituali. Li corporali pastori sono di due maniere, delle quali la
prima è quella di coloro che volgarmente da tutti sono appellati
«pastori», cioè i guardatori delle pecore o de' buoi o di qualunque
altro animale; la seconda maniera sono i padri delle famiglie, dalla
sollecitudine de' quali convegnono essere e pasciuti e guardati e
governati la gregge de' figliuoli e de' servidori e degli altri
suggetti di quegli. Li spirituali pastori similmente si possono dire
di due maniere, delle quali l'una è quella di coloro li quali
pascolano l'anime de' viventi della parola di Dio; e questi sono i
prelati, li predicatori e' sacerdoti, nella cui custodia sono commesse
l'anime labili di qualunque sotto il governo a ciascuno ordinato
dimora: l'altra è quella di coloro li quali, d'ottima dottrina, o
leggendo quello che gli passati hanno scritto, o scrivendo di nuovo
ciò che loro pare o non tanto chiaro mostrato o omesso, informano e
l'anime e gl'intelletti degli ascoltanti o de' leggenti, li quali
generalmente dottori, in qual che facultá si sia, sono appellati. Di
questa maniera di pastori subitamente, cioè in poco tempo, divenne il
nostro poeta. E che ciò sia vero, lasciando stare l'altre opere
compilate da lui, riguardisi la sua _Comedia_, la quale con la
dolcezza e bellezza del testo pasce non solamente gli uomini, ma i
fanciulli e le femine; e con mirabile soavitá de' profondissimi sensi
sotto quella nascosi, poi che alquanto gli ha tenuti sospesi, ricrea e
pasce gli solenni intelletti.
Lo sforzarsi ad avere di quelle frondi, il frutto delle quali l'ha
nutricato, niun'altra cosa ne mostra che l'ardente disiderio avuto da
lui, come di sopra si dice, della corona laurea; la quale per nulla
altro si disidera, se non per dare testimonianza del frutto. Le quali
frondi mentre ch'egli piú ardentemente disiderava, lui dice che vide
cadere; il quale cadere niuna altra cosa fu se non quello cadimento
che tutti facciamo senza levarci, cioè il morire; il quale, se bene si
ricorda di ciò che di sopra è detto, gli avvenne quando piú la sua
laureazione disiava.
Seguentemente dice che di pastore subitamente il vide divenuto un
paone; per lo qual mutamento assai bene la sua posteritá comprendere
possiamo, la quale, come che nell'altre sue opere stea, sommamente
vive nella sua _Comedia_, la quale, secondo il mio giudicio,
ottimamente è conforme al paone, se le propietá de l'uno e de l'altra
si guarderanno. Il paone tra l'altre sue propietá, per quello che
appaia, n'ha quattro notabili. La prima si è ch'egli si ha penna
angelica, e in quella ha cento occhi; la seconda si è ch'egli ha sozzi
piedi e tacita andatura; la terza si è ch'egli ha voce molto orribile
a udire; la quarta e ultima si è che la sua carne è odorifera e
incorruttibile. Queste quattro cose pienamente ha in sé la _Comedia_
del nostra poeta; ma, percioché acconciamente l'ordine posto di quelle
non si può seguire, come verranno piú in concio or l'una ora l'altra
le verrò adattando, e comincerommi da l'ultima.
Dico che il senso della nostra _Comedia_ è simigliante alla carne del
paone, percioché esso, o morale o teologo che tu il déi a quale parte
piú del libro ti piace, è semplice e immutabile veritá, la quale non
solamente corruzione non può ricevere, ma quanto piú si ricerca,
maggiore odore della sua incorruttibile soavitá porge a' riguardanti.
E di ciò leggermente molti esempli si mostrerebbero, se la presente
materia il sostenesse; e però, senza porne alcuno, lascio il cercarne
agl'intendenti.
Angelica penna dissi che copría questa carne; e dico «angelica», non
perché io sappia se cosí fatte o altramenti gli angeli n'abbiano
alcuna, ma, congetturando a guisa de' mortali, udendo che gli angeli
volino, avviso loro dovere avere penne; e, non sappiendone alcuna fra
questi nostri uccelli piú bella, né piú peregrina, né cosí come quella
del paone, imagino loro cosí doverle avere fatte; e però non quelle da
queste, ma queste da quelle dinomino, perché piú nobile uccello è
l'angelo che 'l paone. Per le quali penne, onde questo corpo si
cuopre, intendo la bellezza della peregrina istoria, che nella
superficie della lettera della _Comedia_ suona: sí come l'essere
disceso in inferno e veduto l'abito del luogo e le varie condizioni
degli abitanti; essere ito su per la montagna del purgatorio, udite le
lagrime e i lamenti di coloro che sperano d'essere santi; e quindi
salito in paradiso e la ineffabile gloria de' beati veduta: istoria
tanto bella e tanto peregrina, quanto mai da alcuno piú non fu pensata
non che udita, distinta in cento canti, sí come alcuni vogliono il
paone avere nella coda cento occhi. Li quali canti cosí
provvedutamente distinguono le varietá del trattato opportune, come
gli occhi distinguono i colori o la diversitá delle cose obiette.
Dunque bene è d'angelica penna coperta la carne del nostro paone.
Sono similmente a questo paone li piè sozzi e l'andatura queta: le
quali cose ottimamente alla _Comedia_ del nostro autore si confanno,
percioché, sí come sopra i piedi pare che tutto il corpo si sostenga,
cosí _prima facie_ pare che sopra il modo del parlare ogni opera in
iscrittura composta si sostenga: e il parlare volgare, nel quale e
sopra il quale ogni giuntura della _Comedia_ si sostiene, a rispetto
dell'alto e maestrevole stilo letterale che usa ciascun altro poeta, è
sozzo, comeché egli sia piú che gli altri belli agli odierni ingegni
conforme. L'andar queto significa l'umiltá dello stilo, il quale nelle
commedie di necessitá si richiede, come color sanno che intendono che
vuole dire «comedia».
Ultimamente dico che la voce del paone è orribile; la quale, come che
la soavitá delle parole del nostro poeta sia molta quanto alla prima
apparenza, sanza niuno fallo a chi bene le medolle dentro ragguarderá,
ottimamente a lui si confá. Chi piú orribilmente grida di lui, quando
con invezione acerbissima morde le colpe di molti viventi, e quelle
de' preteriti gastiga? Qual voce è piú orrida che quella del
gastigante a colui ch'è disposto a peccare? Certo niuna. Egli a un'ora
colle sue dimostrazioni spaventa i buoni e contrista i malvagi; per la
qual cosa quanto in questo adopera, tanto veramente orrida voce si può
dire avere. Per la qual cosa, e per l'altre di sopra toccate, assai
appare, colui, che fu vivendo pastore, dopo la morte essere divenuto
paone, sí come credere si puote essere stato per divina spirazione nel
sonno mostrato alla cara madre.
Questa esposizione del sogno della madre del nostro poeta conosco
essere assai superficialmente per me fatta; e questo per piú cagioni.
Primierarmente, perché forse la sufficienzia, che a tanta cosa si
richiederebbe, non c'era; appresso, posto che stata ci fosse, la
principale intenzione nol patía; ultimamente, quando e la sufficienzia
ci fosse stata e la materia l'avesse patito, era ben fatto da me non
essere piú detto che detto sia, accioché ad altrui piú di me
sofficiente e piú vago alcuno luogo si lasciasse di dire. E perciò
quello, che per me detto n'è, quanto a me dee convenevolmente bastare,
e quel, che manca, rimanga nella sollecitudine di chi segue.


XXX
CONCLUSIONE

La mia piccioletta barca è pervenuta al porto, al quale ella dirizzò
la proda partendosi dallo opposito lito: e comeché il peleggio sia
stato picciolo, e il mare, il quale ella ha solcato, basso e
tranquillo, nondimeno, di ciò che senza impedimento è venuta, ne sono
da rendere grazie a Colui che felice vento ha prestato alle sue vele.
Al quale con quella umiltá, con quella divozione, con quella affezione
che io posso maggiore, non quelle, né cosí grandi come si converrieno,
ma quelle che io posso, rendo, benedicendo in eterno il suo nome e 'l
suo valore.


II
REDAZIONI COMPENDIOSE DELLA VITA DI DANTE
(PRIMO E SECONDO COMPENDIO)


AVVERTENZA
Nel testo si è dato il secondo compendio: le varianti del primo sono
riferite a piè di pagina.


I
PROPOSIZIONE

Solone, il cui petto un umano tempio di divina sapienza fu reputato, e
le cui sacratissime leggi sono ancora testimonianza dell'antica
giustizia e della sua gravitá, era, secondo che dicono alcuni, usato
talvolta di dire ogni republica, sí come noi, andare e stare sopra due
piedi; de' quali con maturitá affermava essere il destro il non
lasciare alcun difetto commesso impunito, e il sinistro ogni ben fatto
remunerare; aggiugnendo che, qualunque delle due cose mancava, senza
dubbio da quel piè la republica zoppicare.
Dalla quale laudevole sentenza mossi alcuni cosí egregi come antichi
popoli, alcuna volta di deitá, altra di marmorea statua, e sovente di
celebre sepoltura, di triunfale arco, di laurea corona o d'altra
spettabile cosa, secondo i meriti, onoravano i valorosi; per opposito
agrissime pene a' colpevoli infligendo. Per li quali meriti l'assiria,
la macedonica e ultimamente la romana republica aumentate, con l'opere
li fini della terra, e con la fama toccaron le stelle. Le vestigie de'
quali non solamente da' successor presenti, e massimamente da' miei
fiorentini, sono mal seguite, ma in tanto s'è disviato da esse, che
ogni premio di virtú possiede l'ambizione. Il che, se ogni altra cosa
occultasse, non lascerá nascondere l'esilio ingiustamente dato al
chiarissimo uomo Dante Alighieri, uomo di sangue nobile, ragguardevole
per scienza e per operazioni laudevole e degno di glorioso onore.
Intorno alla quale opera pessimamente fatta non è la presente mia
intenzione di volere insistere con debite riprensioni, ma piú tosto in
quella parte, che le mie piccole forze possono, quella emendare;
percioché, quantunque picciol sia, pur di quella [cittá] son
cittadino, e agli onor d'essa mi conosco in solido obbligato.
Quello adunque che la nostra cittá dovria verso il suo valoroso
cittadino magnificamente operare, accioché in tutto non sia detto noi
esorbitare dagli antichi, intendo di fare io, non con istatua o con
egregia sepoltura, delle quali è oggi dell'una appo noi spenta
l'usanza, né all'altra basterieno le mie facultadi, ma con povere
lettere a tanta impresa, volendo piú tosto di presunzione che
d'ingratitudine potere esser ripreso. Scriverò adunque in istilo assai
umile e leggiero, peroché piú sublime nol mi presta lo 'ngegno, e nel
nostro fiorentino idioma, accioché da quello che Dante medesimo usò
nella maggior parte delle sue opere non discordi, quelle cose, le
quali esso di sé onestamente tacette, cioè la nobiltá della sua
origine, la vita, gli studi e i costumi; raccogliendo appresso in uno
l'opere da lui fatte, nelle quali esso sé chiaro ha renduto a' futuri.
Il che accioché compiutamente si possa fare, umilmente priego Colui,
il quale di spezial grazia lui trasse, come leggiamo, per sí alta
scala a contemplarsi, che me al presente aiuti, e, in onore e gloria
del suo santissimo nome, e la debole mano guidi, e regga lo 'ngegno
mio.


II
PATRIA E MAGGIORI DI DANTE

Fiorenza, intra l'altre cittá italiane piú nobile, secondo la generale
opinione de' presenti, ebbe inizio da' romani; e in processo di tempo
aumentata di popoli e di chiari uomini e giá potente parendo, o
contrario cielo, o i lor meriti, che in sé l'ira di Dio provocassero,
non dopo molti secoli da Attila, crudelissimo re de' vandali e general
guastatore quasi di tutta Italia, molti de' cittadini uccisi, quella
ridusse in cenere e in ruine. Poi, trapassato giá il trecentesimo
anno, e Carlomagno, clementissimo re de' franceschi, essendo
all'altezza del romano imperio elevato, avvenne che, o per propio
movimento, forse da Dio a ciò spirato, o per prieghi pòrtigli da
alcuni, che il detto Carlo alla reedificazione della detta cittá
l'animo dirizzò, e a coloro medesimi, li quali primi conditori n'erano
stati, la fatica commise. Li quali in piccol cerchio riducendola,
quanto poterono, sí come ancora appare, a Roma la fêr simigliante,
seco raccogliendovi dentro quelle poche reliquie che de' discendenti
degli antichi scacciati si potêr ritrovare.
Vennevi, secondo che testimonia la fama, tra' novelli reedificatori un
giovane, per origine de' Frangiapani, nominato Eliseo; il quale, che
che cagion sel movesse, di quella divenne perpetuo cittadino; del
quale rimasi laudevoli discendenti ed onorati molto, non l'antico
cognome ritennero, ma, da colui, che quivi loro aveva dato principio,
prendendolo, si chiamâr gli Elisei. De' quali, di tempo in tempo e
d'uno in altro discendendo, tra gli altri nacque e visse un cavaliere
per arme e per senno ragguardevole, il cui nome fu Cacciaguida; il
quale per isposa ebbe una donzella nata degli Aldighieri di Ferrara,
della quale forse piú figliuoli ricevette. Ma, come che gli altri
nominati si fossero, in uno, sí come le donne sogliono esser vaghe di
fare, le piacque di rinnovare il nome de' suoi maggiori, e nominollo
Aldighieri; comeché il vocabol poi, per sottrazione d'alcuna lettera,
rimanesse Alighieri. Il valor del quale fu cagione a quegli, che
disceser di lui, di lasciare il titolo degli Elisei e di cognominarsi
degli Alighieri. Del quale, come che alquanti e figliuoli e nepoti e
de' nepoti figliuoli discendessero, regnante Federigo secondo
imperadore, uno ne nacque, il quale dal suo avolo nominato fu
Alighieri, piú per colui di cui fu padre che per sé chiaro. Questi
nella sua donna generò colui del quale dee essere il futuro sermone.
Né pretermise il nostro signore Iddio, che alla madre nel sonno non
dimostrasse cui ella portasse nel ventre. Il che allora poco inteso e
non curato, in processo di tempo e nella vita e nella morte di colui,
che nascer doveva di lei, chiarissimamente si manifestò, sí come con
la grazia di Dio mostreremo vicino al fine della presente operetta.
Venuto adunque il tempo del parto, partorí la donna questa futura
chiarezza della nostra cittá, e di pari consentimento il padre ed
ella, non senza divina disposizione, sí come io credo, il nominaron
Dante, volendone Iddio per cotal nome mostrare lui dovere essere di
maravigliosa dottrina datore.


III
SUOI STUDI

Nacque adunque questo singulare splendore italico nella nostra cittá,
vacante il romano imperio per la morte di Federigo, negli anni della
salutifera incarnazione del Re dell'universo MCCLXV, sedente Urbano
papa quarto, ricevuto nella paterna casa da assai lieta fortuna:
lieta, dico, secondo la qualitá del mondo che allora s'usava. E nella
sua puerizia cominciò a dare, a chi avesse a ciò riguardato, manifesti
segni qual dovea la sua matura etá divenire; peroché, lasciata ogni
pueril mollizie, nella propria patria con istudio continuo tutto si
diede alle liberali arti, e, in quelle giá divenuto esperto, non alle
lucrative facultadi, alle quali oggi ciascun cupido di guadagnare
s'avventa innanzi tempo, ma da laudevole vaghezza di perpetua fama
tratto, alle speculative si diede. E, peroché a ciò, sí come appare,
era dal ciel produtto, a vedere con aguto intelletto e le fizioni e
l'artificio mirabile de' poeti si mise; e in brieve tempo, non
trovandogli semplicemente favolosi, come si parla, familiarissimo
divenne di tutti, e massimamente de' piú famosi. E, come giá è detto,
conoscendo le poetiche opere non esser vane o stolte favole, come
molti dicono, ma sotto sé dolcissimi frutti di veritá istoriografe o
filosofiche aver nascosti, accioché piena notizia n'avesse, e alle
istorie e alla filosofia, i tempi debitamente partiti, si diede; e giá
divenuto di quelle e di questa esperto, cresciuta, con la dolcezza del
conoscere la veritá delle cose, la vaghezza del piú sapere, a voler
investigar quello che per umano ingegno se ne può comprendere delle
celestiali intelligenzie e della prima causa con ogni sollecitudine
tutto si diede. Né questi studi in picciol tempo sí feciono, né senza
grandissimi disagi s'esercitarono, né nella patria sola s'acquistò il
frutto di quegli. Egli, sí come a luogo piú fertile del cibo che 'l
suo alto intelletto disiderava, a Bologna andatone, non piccol tempo
vi spese; e, giá vicino alla sua vecchiezza, non gli parve grave
l'andarne a Parigi, dove, non dopo molta dimora, con tanta gloria di
sé, disputando, piú volte mostrò l'altezza del suo ingegno, che ancora
narrandosi se ne maravigliano gli uditori. Di tanti e sí fatti studi
non ingiustamente il nostro Dante meritò altissimi titoli: percioché
alcuni assai chiari uomini in scienza il chiamavano sempre «maestro»,
altri l'appellavan «filosofo», e di tali furono che «teologo» il
nominavano, e quasi generalmente ogn'uomo il diceva «poeta», sí come
ancora è appellato da tutti. Ma, percioché tanto è la vittoria piú
gloriosa quanto le forze del vinto sono state maggiori, giudico esser
convenevole dimostrare di come fluttuoso anzi tempestoso mare costui,
ora in qua e ora in lá ributtato, con forte petto parimente le
traverse onde e i contrari venti vincendo, pervenisse al salutevole
porto de' chiarissimi titoli giá narrati.


IV
IMPEDIMENTI AVUTI DA DANTE AGLI STUDI

Gli studi generalmente sogliono solitudine e rimozion di sollecitudine
disiderare e tranquillitá d'animo, e massimamente gli speculativi, a'
quali, sí come mostrato è, il nostro Dante, in quanto la possibilitá
permetteva, s'era donato. In luogo della quale rimozione e quiete,
quasi dallo inizio della sua puerizia infino allo stremo della sua
vita, Dante ebbe fierissima e importabile passion d'amore. Ebbe oltre
a ciò moglie; le quali chi 'l pruova sa come capitali nemiche sieno
dello studio della filosofia. Similmente ebbe ad aver cura della re
familiare e oltre a ciò della republica, e, sopr'a tutte queste,
lungamente sostenne esilio e povertá; accioché io lasci stare l'altre
particulari noie, che queste si tirano appresso. Le quali, per
mostrare quanta in sé superficialmente di gravezza portassono e
accioché per questo parte della promessa fatta s'osservi, giudico
convenevole sia alquanto piú distesamente spiegarle.


V
AMORE PER BEATRICE

Era usanza nella nostra cittá e degli uomini e delle donne, come il
dolce tempo della primavera ne veniva, nelle lor contrade ciascuno per
distinte compagnie festeggiare. Per la qual cosa infra gli altri Folco
Portinari, onorevole cittadino, il primo dí di maggio aveva i suoi
vicini nella propria casa raccolti a festeggiare, infra' quali era il
sopradetto Alighieri; e lui, sí come far sogliono i piccoli figliuoli
i lor padri, e massimamente alle feste, seguíto avea il nostro Dante,
la cui etá ancor non aggiungnea all'anno nono. Il quale con gli altri
della sua etá, che nella casa erano, puerilmente si diede a
trastullare.
Era tra gli altri una figliuola del detto Folco, chiamata Bice, la
quale di tempo non passava l'anno ottavo, leggiadretta assai e ne'
suoi costumi piacevole e gentilesca, bella nel viso, e nelle sue
parole con piú gravezza che la sua piccola etá non richiedea. La quale
riguardando Dante e una e altra volta, con tanta affezione, ancor che
fanciul fusse, piacendogli, la ricevette nell'animo, che mai altro
sopravvegnente piacere la bella imagine di lei spegnere né poté né
cacciare. E, lasciando stare de' puerili accidenti il ragionare, non
solamente continuandosi, ma crescendo di giorno in giorno l'amore, non
avendo niuno altro disidèro maggiore né consolazione se non di veder
costei, gli fu in piú provetta etá di cocentissimi sospiri e d'amare
lagrime assai spesso dolorosa cagione, sí come egli in parte nella sua
_Vita nuova_ dimostra. Ma quello che rade volte suole negli altri cosí
fatti amori intervenire, in questo essendo avvenuto, non è senza dirlo
da trapassare. Fu questo amor di Dante onestissimo, qual che delle
parti, o forse amendue, fosse di ciò cagione. Egli quantunque, almeno
dalla parte di Dante, ardentissimo fosse, niuno sguardo, niuna parola,
niun cenno, niun sembiante, altro che laudevole, per alcun se ne vide
giammai. Che piú? Dal viso di questa giovine donna, la quale non Bice,
ma dal suo primitivo sempre chiamò Beatrice, fu primieramente nel
petto suo desto lo 'ngegno al dovere parole rimate comporre. Delle
quali, sí come manifestamente appare, in sonetti, ballate e canzoni e
altri stili, molte in laude di questa donna eccellentissimamente
compose, e tal maestro, sospingnendolo Amor, ne divenne, che, tolta di
gran lunga la fama a' dicitor passati, mise in opinion molti che niuno
nel futuro esser ne dovesse, che lui in ciò potesse avanzare.


VI
DOLORE DI DANTE PER LA MORTE DI BEATRICE

Gravi erano stati i sospiri e le lagrime, mosse assai sovente dal non
potere aver veduto, quanto il concupiscibile appetito disiderava, il
grazioso viso della sua donna; ma troppo piú ponderosi gliele serbava
quella estrema e inevitabile sorte che, mentre viver dovesse, ne 'l
doveva privare. Avvenne adunque che, essendo quasi nel fine del suo
vigesimoquarto anno la bellissima Beatrice, piacque a Colui che tutto
puote di trarla delle temporali angosce e chiamarla alla sua eterna
gloria. La partita della quale tanto impazientemente sostenne il
nostro Dante, che, oltre a' sospiri e a' pianti continui, assai de'
suoi amici lui quel senza morte non dover finire estimarono. Lunghe
furono e molte [le sue lagrime], e per lungo spazio ad ogni conforto
datogli tenne gli orecchi serrati. Ma pur poi, in processo di tempo
maturatasi alquanto l'acerbitá del dolore, e facendo alquanto la
passion luogo alla ragione, cominciò senza pianto a potersi ricordare
che morta fosse la donna sua, e per conseguente ad aprir gli orecchi
a' conforti; ed essendo lungamente stato rinchiuso, incominciò ad
apparire in publico tra le genti. Né fu solo da questo amor passionato
il nostro poeta, anzi, inchinevole molto a questo accidente, per altri
obietti in piú matura etá troviam lui sovente aver sospirato, e
massimamente dopo il suo esilio, dimorando in Lucca, per una giovine,
la quale egli nomina Pargoletta. E oltre a ciò, vicino allo stremo
della sua vita, nell'alpi di Casentino per una alpigina, la quale, se
mentito non m'è, quantunque bel viso avesse, era gozzuta. E, per
qualunque fu l'una di queste, compose piú e piú laudevoli cose in
rima.


VII
MATRIMONIO DI DANTE

Agro e valido nemico degli studi è amore, come veramente testificar
può ciascuno che a tal passione è soggiaciuto; percioché, poi che con
lusinghevole speranza ha tutta la mente occupata di chi nel principio
non l'ha con forte resistenza scacciato, niun pensiero, niuna
meditazione, niuno appetito in quella patisce che stea se non quelle
sole, le quali esso medesimo vi reca; e chenti queste siano e come
contrarie allo specular filosofico o alle poetiche invenzioni, sí
manifesto mi pare, che superfluo estimo sarebbe il metterci tempo a
piú chiarirlo.
A questo stimolo un altro forse non minore se n'aggiunse; percioché,
poi che, allenate le lagrime della morte di Beatrice, diede agli amici
suoi alcuna speranza della sua vita, incontanente loro entrò
nell'animo che, dandogli per moglie una giovane, colei del tutto se ne
potesse cacciare, che, benché partita del mondo fosse, gli avea nel
petto la sua imagine lasciata perpetua donna: e, lui a ciò inclinato,
senza alcuno indugio misero ad effetto il lor pensiero.
Saranno per avventura di quegli che laudevole diranno cotal consiglio;
e questo avverrá perché non considereranno quanto pericolo porti lo
spegnere il fuoco temporal con l'eterno. Era a Dante l'amore, il quale
a Beatrice portava, per lo suo troppo focoso disiderio spesse volte
noioso e grave a sofferire; ma pur talvolta alcun soave pensiero,
alcuna dolce speranza, qualche dilettevole imaginazion ne traeva; dove
della compagnia della moglie, secondo che coloro afferman che 'l
pruovano, altro che sollecitudine continua e battaglia senza
intermission non si trae. Ma lasciamo star quello che la moglie in
qualunque meccanico possa adoperare, e a quel vegniamo che la presente
materia richiede.


VIII
DIGRESSIONE SUL MATRIMONIO

Quanto le mogli sieno nimiche degli studi assai leggermente puote
apparire a' riguardanti. Rincresce spesse volte a' filosofanti la
turba volgare: per che, da essa partendosi e raccoltosi in alcuna
solitaria parte della sua casa, sé contra sé con la considerazion
trasportando, talvolta ragguarda quale spirito muove il cielo, onde
venga la vita agli animali, quali sieno delle cose le prime cagioni; e
talvolta nello splendido consistoro de' filosofi mischiatosi col
pensiero, con Aristotile, con Socrate, con Platone e con gli altri
disputerá della veritá d'alcuna conclusione acutissimamente; e spesse
fiate con sottilissima meditazione se ne entrerá sotto la corteccia
d'alcuna poetica fizione, e, con grandissimo suo piacere, quanto sia
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