Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 1 - 07

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detto è, conosceranno quanta forza, piú trite, al mio argomento
aggiugnerieno. Assai adunque per le cose dette credo che è chiaro la
teologia e la poesia nel modo del nascondere i suoi concetti con
simile passo procedere, e però potersi dire simiglianti. È il vero che
il subietto della sacra teologia e quello della poesia de' poeti
gentili è molto diverso, percioché quella nulla altra cosa nasconde
che vera, ove questa assai erronee e contrarie alla cristiana
religione ne discrive: né è di ciò da maravigliarsi molto, peroché
quella fu dettata dallo Spirito santo, il quale è tutto veritá, e
questa fu trovata dallo 'ngegno degli uomini, li quali di quello
Spirito o non ebbono alcuna conoscenza o non l'ebbono tanto piena.]


XIX^bis
PERCHÉ I POETI NASCONDONO IL VERO SOTTO FIZIONI

Io poteva per avventura procedere ad altro, se alcuni disensati ancora
un pochetto intorno a questo ragionamento non mi avessero ritirato.
Sono adunque alcuni li quali, senza aver mai veduto o voluto vedere
poeta (o, se veduto n'hanno alcuno, non l'hanno inteso o non l'hanno
voluto intendere), e di ciò estimandosi molto reputati migliori, con
ampia bocca dannano quello che ancora conosciuto non hanno, cioè le
opere de' poeti e i poeti medesimi, dicendo le lor favole essere opere
puerili e a niuna veritá consonanti; e, oltre a ciò, se essi erano
uomini d'altissimo sentimento, in altra maniera che favoleggiando
dovevano la loro dottrina mostrare. Grande presunzione è quella di
molti volere delle questioni giudicare prima che abbiano conosciuti i
meriti delle parti: ma, poiché sofferire si conviene, a questi cotali,
senza altro martirio, confesso le fizioni poetiche nella prima faccia
avere niuna consonanza col vero. Ma, se per questo elle sono da
dannare, che diranno costoro delle visioni di Daniello, che di quelle
di Ezechiel, che dell'altre del vecchio Testamento, scritte con divina
penna, che di quelle di Giovanni evangelista? Diremo, percioché
somiglianza di vero in assai cose nella corteccia non hanno, sieno,
come stoltamente dette, da rifiutare? Nol consentirá mai chi ficcherá
gli occhi dello 'ntelletto nella midolla. E questo voglio ancora che
basti per risposta alla seconda opposizione a questi giudici senza
legge: cioè che, se lo Spirito santo è da commendare d'avere i suoi
alti misteri dato sotto coverta, accioché le gran cose poste con
troppa chiarezza nel cospetto di ogni intelletto non venissono in
vilipensione, e che la veritá, con fatica e perspicacitá d'ingegno
tratta di sotto le scrupolose ma ponderose parole, fosse piú cara e
piú e con piú diletto entrasse nella memoria del trovatore; perché
saranno da biasimare i poeti, se sotto favolosi parlari avranno
nascosi gli alti effetti della natura, le moralitá e i gloriosi fatti
degli uomini, mossi dalle sopradette cagioni? Certo io nol conosco.
Perché sotto cosí fatta forma i poeti dessero la loro dottrina, oltre
a ciò che detto n'è, ne possono le ragioni essere queste: o per
imitare piú nobile autore, o perché forse in altra forma non erano
ammaestrati. Ma di questo non mi pare da dovere far troppo agra
quistione, conciosiacosaché ciascuno in cosí fatte elezioni piú tosto
il suo giudicio séguiti che l'altrui; e però piú tosto si potrá
dimandare se cotal tradizione è utile o disutile. Alla quale mi pare
che rispondere si possa questa utile essere stata, dove i nostri
giudici nel gridare la dimostrano disutile; e la ragione puote essere
questa. Certissima cosa è che, come gli ingegni degli uomini sono
diversi, cosí esser convengono diverse le maniere del dare la
dottrina. Assai se ne sono giá veduti, a' quali niuna sillogistica
dimostrazione ha potuto far comprendere il vero d'alcuna conclusione;
la qual poi per ragioni persuasive hanno subitamente compresa. Che
dunque con questi cotali varrá il sillogizzare d'Aristotile? Certo,
niente. Cosí al contrario alcuni vilipendono tanto le persuasioni, che
nulla crederanno essere vero, se sillogizzando non ne son convinti.
Sono altri, li quali solo il nome della filosofia, non che la
dottrina, spaventa, e che con sommo diletto alle lezioni delle favole
correranno, non estimando sotto quella alcuna particella di filosofia
potersi nascondere; ché, se 'l credessero, non le vorrebbono udire. Di
questi cotali, non è dubbio, giá assai, dalla novitá delle favole
mossi, divennero investigatori della veritá e domestici della
filosofia, del cui nome altra volta aveano avuto paura. In questi
cotali adunque non furono dannosi i poeti, né disutile il modo del
loro trattare, il qual per certo, a chi non lo intende, non può dare
altro piacere che faccia il suono della cetera all'asino. E questo al
presente basti; e vegniamo a mostrare perché i poeti si coronino
d'alloro. _Tra l'altre genti_ ecc.]


XX
DELL'ALLORO CONCEDUTO AI POETI

Tra l'altre genti, alle quali piú aprí la filosofia i suoi tesori, i
greci si crede che fosser quegli li quali d'essi trassero la dottrina
militare e la vita politica, oltre alla notizia delle cose superiori;
e, tra l'altre cose, la santissima sentenzia di Solone nel principio
della presente operetta discritta; la quale ottimamente e lungo tempo
servarono, fiorendo la loro republica. Alla quale osservare,
considerati con gran diligenzia i meriti degli uomini, con publico
consentimento ordinarono che, per piú degno guidardon che alcuno
altro, sí come a piú utile e piú onorevole fatica alla republica, li
poeti dopo la vittoria delle lor fatiche, cioè dopo la perfezione de'
lor poemi, e, oltre a ciò, gl'imperadori dopo la vittoria avuta de'
nimici della republica, fossono coronati d'alloro; estimando dovere
d'un medesimo onore esser degno colui per la cui virtú le cose
publiche erano e servate e aumentate, e colui per li cui versi le ben
fatte cose eran perpetuate, e vituperate le avverse. La quale
remunerazione poi parimente con la gloria dell'arme trapassò a'
latini, e ancora, e massimamente nelle coronazioni de' poeti, come che
rarissimamente avvengano, vi dimora. Ma perché a tal coronazion piú
l'alloro, che fronda d'altro albero, eletto sia [_a_], pare la ragion
questa.
Vogliono coloro, li quali le virtú e le nature delle piante hanno
investigate, il lauro, sí come noi medesimi veggiamo, giammai verdezza
non perdere: per la quale perpetua viriditá vollero i greci intendere
la perpetuitá della fama di coloro che di coronarsi d'esso si fanno
degni. Appresso affermano li predetti investigatori non trovarsi il
lauro essere stato mai fulminato, il che d'alcuno altro albero non si
crede: e per questo vollono gli antichi mostrare che l'opere di
coloro, che di quello si coronano, esser di tanta potenza dotate da
Dio, che né il fuoco della 'nvidia, né la folgore della lunghezza del
tempo, la quale ogni altra cosa consuma, quelle debba potere
offuscare, rodere o diminuire. Dicono, oltre a ciò, i predetti quello
che noi tutto il giorno sentiamo, cioè il lauro essere odorifero
molto: e per quello vogliono intendere i passati, l'opere di colui,
che degnamente se ne corona, sempre dovere esser piacevoli e graziose
e odorifere di laudevole fama [_b_]. E perciò era non senza cagione
[Footnote _a_: non dovrá parere a udire rincrescevole.
Sono alcuni li quali credono, percioché Dafne, amata da Febo e in
lauro convertita, fu da lui eletta a coronare le sue vittorie, e i
poeti sono a lui consacrati, quindi tale coronazione avere origine
avuta: la quale opinione non mi spiace, né niego cosí poter essere
stato; ma tuttavia mi muove altra ragione. Secondo che _vogliono
coloro_, ecc.]
[Footnote _b_: Similemente una quarta proprietá, e maravigliosa, gli
aggiungono; e questa è che dicono essere una specie di lauro, la cui
pianta non fa mai che tre radici, delle frondi del quale qualunque
persona n'avesse alla testa legate e dormisse, vedrebbe veracissimi
sogni delle cose future mostranti: per la quale proprietá intesero i
nostri maggiori una dimostrarsene, la quale essere ne' poeti si vede.
Perciò i poeti, discrivendo l'operazioni d'alcuno, delle quali
solamente gli effetti nudi avrá uditi, cosí le particulari incidenzie
mai non vedute né udite discriverá, come se all'operazione fosse stato
presente; e percioché veridichi in ciò assai volte sono stati trovati,
parendo quella essere stata specie di divinazione, furono chiamati
«vati», cioè profeti, ed estimarono gli uomini loro di lauro coronare,
a mostrare la proprietá della divinazione, nella quale paiono al lauro
simiglianti. _E perciò_, ecc.] il nostro Dante, sí come merito poeta,
di questa laurea disioso. Della quale percioché assai avem parlato,
estimo sia onesto di tornare al proposito.


XXI
CARATTERE DI DANTE

Fu adunque il nostro poeta, oltre alle cose di sopra dette, d'animo
altiero e disdegnoso molto: tanto che, cercandosi per alcuno amico
come egli potesse in Firenze tornare, né altro modo trovandosi, se non
che egli per alcuno spazio di tempo stato in prigione, fosse
misericordievolmente offerto a San Giovanni, calcato ogni fervente
disio del ritornarvi, rispose che Iddio togliesse via che colui, che
nel seno della filosofia cresciuto era, divenisse cero del suo comune.
Oltre a questo, di se stesso presunse maravigliosamente tanto, che
essendo egli glorioso nel colmo del reggimento della republica, e
ragionandosi tra' maggior cittadini di mandar, per alcuna gran
bisogna, ambasciata a Bonifazio papa ottavo, e che prencipe
dell'ambasciata fosse Dante, ed egli a ciò in presenza di tutti
quegli, che sopra ciò consigliavan, richiesto, avvenne che,
soprastando egli alla risposta, alcun disse:--Che pensi?--Alle quali
parole egli rispose:--Penso: se io vo, chi rimane? e se io rimango,
chi va?--quasi esso solo fosse colui che tra tutti valesse e per cui
tutti gli altri valessero.
Appresso, comeché il nostro poeta nelle sue avversitá paziente o no si
fosse, in una fu impazientissimo: egli infino al cominciamento del suo
esilio, come i suoi passati, stato guelfissimo, non essendogli aperta
la via a ritornare in casa sua, sí fuor di modo diventò ghibellino,
che ogni femminella, ogni piccol fanciullo, e quante volte avesse
voluto, ragionando di parte e la guelfa preponendo alla ghibellina,
l'avrebbe non solamente fatto turbare, ma a tanta insania commosso,
che, se taciuto non fosse, a gittar le pietre l'avrebbe condotto.
Certo io mi vergogno di dovere con alcun difetto maculare la chiara
fama di cotanto uomo; ma il cominciato ordine delle cose in alcuna
parte il richiede, percioché, se nelle cose meno laudevoli mi tacerò,
io torrò molta fede alle laudevoli giá mostrate. A lui medesimo
adunque mi scuso, il quale per avventura me scrivente con isdegnoso
occhio d'alta parte del ciel mi riguarda.
Tra cotanta vertú, tra cotanta scienza, quanta dimostrato è di sopra
essere stata in questo mirifico poeta, trovò ampissimo luogo la
lussuria, e non solamente ne' giovani anni, ma ancora ne' maturi. E
questo basti al presente de' suoi costumi piú notabili aver contato, e
all'opere da lui composte vegniamo.


XXII
LA «VITA NUOVA» E LA «COMMEDIA» INCIDENTI OCCORSI NELLA COMPOSIZIONE
DI QUESTA OPERA

Compose questo glorioso poeta piú opere ne' suoi giorni, tra le quali
si crede la prima un libretto volgare, che egli intitola _Vita Nuova_:
nel quale egli e in prosa e in sonetti e in canzoni gli accidenti
dimostra dell'amore, il quale portò a Beatrice.
Appresso piú anni, guardando egli della sommitá del governo della sua
cittá, e veggendo in gran parte qual fosse la vita degli uomini,
quanti e quali gli error del vulgo, e i cadimenti ancora de' luoghi
sublimi come fussero inopinati, gli venne nell'animo quello laudevol
pensiero che a' compor lo 'ndusse la _Comedia_. E, lungamente avendo
premeditato quello che in essa volesse descrivere, in fiorentino
idioma e in rima la cominciò: ma non avvenne il poterne cosí tosto
vedere il fine, come esso per avventura imaginò; percioché, mentre
egli era piú attento al glorioso lavoro, avendo giá di quello sette
canti composti, de' cento che diliberato avea di farne, sopravvenne il
gravoso accidente della sua cacciata, ovver fuga, per la quale egli,
quella e ogni altra cosa abbandonata, incerto di se medesimo, piú anni
con diversi amici e signori andò vagando.
Ma non poté la nimica fortuna al piacer di Dio contrastare. Avvenne
adunque che alcun parente di lui, cercando per alcuna scrittura in
forzieri, che in luoghi sacri erano stati fuggiti nel tempo che
tumultuosamente la ingrata e disordinata plebe gli era, piú vaga di
preda che di giusta vendetta, corsa alla casa, trovò un quadernuccio,
nel quale scritti erano li predetti sette canti. Li quali con
ammirazion leggendo, né sappiendo che fossero, del luogo dove erano
sottrattigli, gli portò ad un nostro cittadino, il cui nome fu Dino di
messer Lambertuccio, in quegli tempi famosissimo dicitore in rima, e
gliel mostrò. Li quali avendo veduti Dino, e maravigliatosi sí per lo
bello e pulito stilo, sí per la profonditá del senso, il quale sotto
la ornata corteccia delle parole gli pareva sentire, senza fallo
quegli essere opera di Dante imaginò; e, dolendosi quella essere
rimasa imperfetta, e dopo alcuna investigazione avendo trovato Dante
in quel tempo essere appresso il marchese Moruello Malespina, non a
lui, ma al marchese, e l'accidente e il desiderio suo scrisse, e
mandògli i sette canti. Gli quali poi che il marchese, uomo assai
intendente, ebbe veduti, e molto seco lodatigli, gli mostrò a Dante,
domandandolo se esso sapea cui opera stati fossero. Li quali Dante
riconosciuti, subito rispose che sua. Allora il pregò il marchese
che gli piacesse di non lasciar senza debito fine sí alto
principio.--Certo--disse Dante--io mi credea nella ruina delle mie cose
questi con molti altri miei libri aver perduti; e perciò, sí per questa
credenza, e sí per la moltitudine delle fatiche sopravvenute per lo mio
esilio, del tutto avea la fantasia, sopra questa opera presa,
abbandonata. Ma, poiché inopinatamente innanzi mi son ripinti, e a voi
aggrada, io cercherò di rivocare nella mia memoria la imaginazione di
ciò prima avuta, e secondo che grazia prestata mi fia, cosí avanti
procederò.--Creder si dee lui non senza fatica aver la intralasciata
fantasia ritrovata; la qual seguitando, cosí cominciò:
Io dico, seguitando, ch'assai prima, ecc.;
dove assai manifestamente, chi ben guarda, può la ricongiunzione
dell'opera intermessa riconoscere.
Ricominciato adunque Dante il magnifico lavoro, non forse, secondo che
molti stimano, senza piú interromperlo il perdusse a fine; anzi piú
volte, secondo che la gravitá de' casi sopravvegnenti richiedea,
quando mesi e quando anni, senza potervi adoperare alcuna cosa,
interponeva; intanto che, piú avacciar non potendosi, avanti che tutto
il publicasse il sopraggiunse la morte. Egli era suo costume, come sei
o otto canti fatti n'avea, quegli, prima che alcun gli vedesse,
mandare a messer Can della Scala, il quale egli oltre ad ogni altro
uomo in reverenza avea; e, poi che da lui eran veduti, ne faceva copia
a chi la volea. E in cosí fatta maniera avendogliele tutti, fuori che
gli ultimi tredici canti, mandati, ancora che questi tredici fatti
avesse, avvenne che senza farne alcuna memoria si morí; né, piú volte
cercati da' figliuoli, mai furon potuti trovare; per che Iacopo e
Piero, suoi figliuoli, e ciascun dicitore, dagli amici pregati che
l'opera terminasser del padre, a ciò, come sapean, s'eran messi. Ma
una mirabile visione a Iacopo, che in ciò piú era fervente, apparita,
lui e 'l fratello non solamente della stolta presunzion levò, ma
mostrò dove fossero li tredici canti tanto da lor cercati.
Raccontava uno valente uom ravignano, il cui nome fu Pier Giardino,
lungamente stato discepolo di Dante, grave di costumi e degno di fede,
che dopo l'ottavo mese dal dí della morte del suo maestro, venne una
notte, vicino all'ora che noi chiamiamo «mattutino», alla casa sua
Iacopo di Dante, e dissegli sé quella notte poco avanti a quell'ora
avere nel sonno veduto Dante suo padre, vestito di candidissimi
vestimenti e d'una luce non usata risplendente nel viso, venire a lui;
il quale gli parea domandare se 'l vivea, e udire da lui per risposta
di sí, ma della vera vita, non della nostra. Per che, oltre a questo,
gli pareva ancor domandare se egli avea compiuta la sua opera avanti
il suo passare alla vera vita; e, se compiuta l'avea, dove fosse
quello che vi mancava, da loro giammai non potuto trovare. A questo
gli pareva similemente udir per risposta:--Sí, io la compie';--e
quinci gli parea che il prendesse per mano, e menasselo in quella
camera dove era uso di dormire quando in questa vita vivea, e toccando
una parte di quella, diceva:--Egli è qui quello che voi tanto avete
cercato.--E, questa parola detta, ad un'ora il sonno e Dante gli parve
che si partissono. Per la qual cosa affermava sé non esser potuto
stare senza venirgli a significare ciò che veduto avea, accioché
insieme andassero a cercare il luogo mostrato a lui, il quale egli
ottimamente nella memoria avea segnato, a vedere se vero spirito o
falsa delusione questo gli avesse disegnato. Per la qual cosa, comeché
ancora assai fosse di notte, mossisi insieme, vennero alla casa nella
quale Dante quando morí dimorava; e, chiamato colui che allora in essa
stava e dentro da lui ricevuti, al mostrato luogo n'andarono, e quivi
trovarono una stuoia al muro confitta, sí come per lo passato
continuamente veduta v'aveano. La quale leggiermente in alto levata,
vidon nel muro una finestretta da niun di loro mai piú veduta, né
saputo che ella vi fosse, e in quella trovaron piú scritte, tutte per
l'umiditá del muro muffate e vicino al corrompersi se guari piú state
vi fossero; e quelle pianamente dalla muffa purgate, vider segnate per
numeri, e conobbero quello, che in esse scritto era, esser de' rittimi
della _Comedia_: per che, secondo l'ordine dei numeri continuatele,
insieme li tredici canti, che alla _Comedia_ mancavan, ritrovâr tutti.
Per la qual cosa lietissimi quegli riscrissono e, secondo l'usanza
dell'autore, prima gli mandarono a messer Cane, e poi alla imperfetta
opera gli ricongiunson, come si convenía; e in cotal maniera l'opera,
in molti anni compilata, si vide finita.


XXIII
PERCHÉ DANTE COMPOSE LA «COMMEDIA» IN VOLGARE A CHI EGLI LA DEDICÒ

Muovon molti, e intra essi alcun savi uomini, una quistion cosí fatta:
che, conciofossecosaché Dante fosse in iscienza solennissimo uomo,
perché a comporre cosí grande opera e di sí alta materia, come la sua
_Comedia_ appare, si mosse piú tosto a scrivere in rittimi e nel
fiorentino idioma che in versi, come gli altri poeti giá fecero. Alla
quale si può cosí rispondere. Aveva Dante la sua opera cominciata per
versi in questa guisa:
_Ultima regna canam, fluido contermina mundo,
spiritibus quae lata patent, quae praemia solvunt
pro meritis cuicumque suis,_ ecc.
Ma, veggendo egli li liberali studi del tutto essere abbandonati, e
massimamente da' prencipi, a' quali si soleano le poetiche opere
intitolare, e che soleano essere promotori di quelle; e, oltre a ciò,
veggendo le divine opere di Virgilio e quelle degli altri solenni
poeti venute in non calere e quasi rifiutate da tutti, estimando non
dover meglio avvenir della sua, mutò consiglio e prese partito di
farla corrispondente, quanto alla prima apparenza, agl'ingegni dei
prencipi odierni; e, lasciati stare i versi, ne' rittimi la fece che
noi veggiamo. Di che seguí un bene, che de' versi non sarebbe seguito:
che, senza tôr via lo esercitare degl'ingegni de' letterati, egli a'
non letterati diede alcuna cagion di studiare, e a sé acquistò in
brevissimo tempo grandissima fama, e maravigliosamente onorò il
fiorentino idioma.
Questo libro della _Comedia_, secondo che ragionano alcuni, intitolò
egli a tre solennissimi italiani: la prima parte di quello, cioè lo
_'Nferno_, ad Uguiccion della Faggiuola, il quale allora in Toscana
era signor di Pisa; la seconda, cioè il _Purgatorio_, al marchese
Moruello Malespina; la terza, cioè il _Paradiso_, a Federico terzo, re
di Cicilia. Alcuni voglion dire lui averlo intitolato tutto a messer
Can della Scala; e io il credo piú tosto, per la maniera che tenne di
mandar prima a lui quello che composto avea che ad alcuno altro.


XXIV
ALTRE OPERE COMPOSTE DA DANTE

Compose ancora questo egregio autore nella venuta d'Arrigo settimo
imperadore un libro in latina prosa, nel quale, in tre libri distinto,
prova a bene esser del mondo dovere essere imperadore, e che Roma di
ragione il titolo dello imperio possiede, e ultimamente che l'autoritá
dello 'mperio procede da Dio senza alcun mezzo. Gli argomenti del
quale percioché usati furono in favore di Lodovico duca di Baviera
contro alla Chiesa di Roma, fu il detto libro, sedente Giovanni papa
ventiduesimo, da messer Beltrando cardinal dal Poggetto, allora per la
Chiesa di Roma legato in Lombardia, dannato sí come contenente cose
eretiche, e per lui proibito fu che studiare alcun nol dovesse. E se
un valoroso cavaliere fiorentino, chiamato messer Pino della Tosa, e
messer Ostagio da Polenta, li quali amenduni appresso del legato eran
grandi, non avessero al furor del legato obviato, egli avrebbe nella
cittá di Bologna insieme col libro fatte ardere l'ossa di Dante[_a_].
Oltre a questi, compose il detto Dante egloghe assai belle, le quali
furono intitolate e mandate da lui, per risposta di certi versi
mandatigli, a maestro Giovanni del Virgilio.
Compose ancora molte canzoni distese e sonetti e ballate, oltre a
quelle che nella sua _Vita nuova_ si leggono.
E sopra tre delle dette canzoni, comeché intendimento avesse sopra
tutte di farlo, compose uno scritto in fiorentin volgare, il quale
nominò _Convivio_, assai bella e laudevole operetta.
[Footnote _a_: Se giustamente o non, Iddio il sa di vero. _Oltre a
questi_ ecc.]
Appresso, giá vicino alla sua morte, compose un libretto in prosa
latina, il quale egli intitolò _De vulgari eloquentia_; e comeché per
lo detto libretto apparisca lui avere in animo di distinguerlo e
terminarlo in quattro libri, o che piú non ne facesse dalla morte
soprappreso, o che perduti sien gli altri, piú non appariscon che i
due primi.
In cosí fatte cose, quali di sopra narrate sono, consumò il
chiarissimo uomo quella parte del suo tempo, la quale egli agli
amorosi sospiri, alle pietose lagrime, alle sollecitudini private e
publiche e a' vari fluttuamenti della iniqua fortuna poté imbolare:
opere troppo piú a Dio e agli uomini accettevoli che gl'inganni, le
fraudi, le menzogne, le rapine e' tradimenti, li quali la maggior
parte degli uomini usano oggi, cercando per qualunque via un medesimo
fine, cioè di divenir ricchi, quasi nelle ricchezze ogni bene, ogni
onore, ogni beatitudine stea. Oh menti sciocche, una brieve particella
d'un'ora separará dal caduco corpo lo spirito, e tutte queste
vituperevoli fatiche annullerá; e il tempo, nel quale ogni cosa si
suol consumare, o senza indugio recherá a niente la memoria del ricco,
o quella per alcuno spazio con gran vergogna di lui serverá! Il che
del nostro poeta certo non avverrá; anzi, sí come noi veggiamo degli
strumenti bellici avvenir, che, usandogli, piú chiari diventano
ognora, cosí il suo nome, quanto piú sará stropicciato dal tempo,
tanto piú chiaro e piú lucente diventerá.


XXV
SPIEGAZIONE DEL SOGNO DELLA MADRE DI DANTE

Mostrato è sommariamente qual fosser l'origine, gli studi e la vita e'
costumi, e quali sieno l'opere state dello splendido uomo Dante
Alighieri, poeta chiarissimo, e con esse alcuna altra cosa, facendo
transgressione, secondo che conceduto m'ha Colui che d'ogni grazia è
donatore. Ma la mia fatica non è ancora al suo fine venuta,
rammemorandomi una particella nel processo promessa, cioè il sogno
della madre del nostro poeta, quando gravida era in lui, e il
significato di quello: nel quale se un pochetto mi stendessi, priego
pazientemente il sófferino i lettori.
Dico adunque che la madre del nostro poeta, essendo gravida di quella
gravidezza, della quale esso poi a debito tempo nacque, dormendo, le
parve nel sonno vedere sé essere al piè d'uno altissimo alloro, allato
a una chiara fontana, e quivi partorire un figliuolo, il quale le
pareva il piú pascersi delle bache che dello alloro cadevano, e bere
disiderosamente dell'acqua di quella fontana; e da questo cibo
nudrito, le parea che in piccol tempo crescesse e divenisse pastore, e
nella vista grandissima vaghezza mostrasse d'aver delle frondi di
quello alloro, le cui bache l'avean nutricato; e, sforzandosi d'aver
di quelle, avanti che ad esse giunto fosse, le pareva che egli
cadesse; e, aspettando ella di vederlo levare, non lui, ma in luogo di
lui le pareva vedere un bellissimo paone esser levato. Dalla qual
maraviglia la gentil donna commossa, senza piú avanti vedere, ruppe il
dolce sonno. Né tenne quello, che veduto aveva, nascoso, comeché,
recitatolo a molti, neuno ne fosse, che quello per quel comprendesse
che seguir ne dovea. Il che, poi che avvenuto è, piú leggiermente
conoscer si puote, sí come io appresso mi credo mostrare[_a_].
[Footnote _a_: Opinione è degli astrolagi e di molti filosofi
naturali, per la virtú e influenzia de' corpi superiori, gl'inferiori,
quali che essi si sieno, e producersi e nutricarsi, e ciascheduno,
secondo la qualitá della virtú infusa, essere piú utile ad alcuna o
alcune cose che al rimanente dell'altre: il che assai appare negli
uomini, se le loro attitudini guarderemo. Percioché noi tra molti ne
vedremo alcuno, che senza dottrina, senza maestro, senza alcuna
dimostrazione, sospinto solamente da uno istinto naturale, divenire
ottimo cantatore; e, se quanti fabbri furono mai gli fussono
d'intorno, non gli potrebbono insegnare tenere un martello in mano,
non che formare una spada; e, se pure, constretto, o per molta
consuetudine dell'arte fabbrile alcuna cosa imparasse o facesse, come
in suo arbitrio sará, al naturale suo intento, cioè al canto, si
tornerá, se da sé giá per forza della sua libertá non lasciasse il
canto, e al martello s'attenesse. Cosí alcuno altro nascerá a
disegnare e a intagliare sí disposto, che ogni piccola dimostrazione
il fará in ciò in brevissimo tempo sommo maestro, dove in qualunque
altra leggiera arte fia durissima cosa ad introdurlo. Che andrò io
della varietá delle singolari disposizioni degli uomini dicendo, se
non quello che il nostro poeta medesimo ne dice:
Un ci nasce Solone, ed altro Xerse,
altri Melchisedech, ed altri quello
che, volando per l'aere, il figlio perse?
Appare adunque varie constellazioni a varie cose disporre gli ingegni
degli uomini; e però, considerato chi fu Dante e quale la sua
principale affezione, assai bene si conoscerá il cielo nella sua
nativitá essere disposto a dover producere un poeta. E, perché
l'alloro, come davanti avemo mostrato, è quello albero, le cui frondi
testimoniano nella coronazione la facoltá del poeta, meritamente
possiamo dire, l'alloro dalla donna veduto significare e la
disposizione del cielo nella nativitá futura di Dante, e la precipua
affezione e studio di colui che nascere dovea, sí come chiaramente
n'ha dimostrato quello che appresso la nativitá di Dante è seguito.
_L'essersi colui_, ecc.]
Possiamo adunque, riguardando, come di sopra è detto, l'alloro esser
de' poeti ornamento, per quello dalla donna veduto intendere la
disposizion celeste esser stata atta, nella concezion di Dante, a
dover producere un poeta.
L'essersi colui, che nato era, delle bache che dello alloro cadevano
nudrito, assai chiaramente dimostra quali dovevano essere gli studi di
Dante; percioché, sí come il corpo si nutrica e cresce del cibo, cosí
gl'ingegni degli uomini si nutricano e aumentano degli studi. E le
bache, che frutto son dell'alloro, non vogliono altro significare che
i frutti della poesia nati, li quali sono i libri da' poeti composti,
e da' quali Dante senza dubbio e nutricò e aumentò il suo ingegno.
Il chiarissimo fonte, del quale pareva alla donna che bevesse il suo
figliuolo, niuna altra cosa credo che voglia significare se non il
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