Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 1 - 03

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al presente, seguendole. Niuna delle sette predette fu che o vera o
fittizia sepultura non facesse ad Omero. E chi dubita che i mantovani,
li quali ancora in Piettola onorano la povera casetta e i campi che
fûr di Virgilio, non avessero a lui fatta onorevole sepoltura, se
Ottaviano Augusto, il quale da Brandizio a Napoli le sue ossa avea
trasportate, non avesse comandato quello luogo dove poste l'avea,
volere loro essere perpetua requie? Sermona niun'altra cosa pianse
lungamente, se non che l'isola di Ponto tenga in certo luogo il suo
Ovidio; e cosí di Cassio Parma si rallegra tenendolo. Cerca tu adunque
di volere essere del tuo Dante guardiana; raddomandalo; mostra questa
umanitá, presupposto che tu non abbi voglia di riaverlo; togli a te
medesima con questa fizione parte del biasimo per adietro acquistato.
Raddomandalo. Io son certo ch'egli non ti fia renduto; e a una ora ti
sarai mostrata pietosa, e goderai, non riavendolo, della tua innata
crudeltá. Ma a che ti conforto io? Appena che io creda, se i corpi
morti possono alcuna cosa sentire, che quello di Dante si potesse
partire di lá dove è, per dovere a te tornare. Egli giace con
compagnia troppo piú laudevole che quella che tu gli potessi dare.
Egli giace in Ravenna, molto piú per etá veneranda di te; e comeché la
sua vecchiezza alquanto la renda deforme, ella fu nella sua giovanezza
troppo piú florida che tu non se'. Ella è quasi un generale sepolcro
di santissimi corpi, né niuna parte in essa si calca, dove su per
reverendissime ceneri non si vada. Chi dunque disidererebbe di tornare
a te per dovere giacere fra le tue, le quali si può credere che ancora
servino la rabbia e l'iniquitá nella vita avute, e male concorde
insieme si fuggano l'una da l'altra, non altramenti che facessero le
fiamme de' due tebani? E comeché Ravenna giá quasi tutta del prezioso
sangue di molti martiri si bagnasse, e oggi con reverenzia servi le
loro reliquie, e similemente i corpi di molti magnifici imperadori e
d'altri uomini chiarissimi e per antichi avoli e per opere virtuose,
ella non si rallegra poco d'esserle stato da Dio, oltre a l'altre sue
dote, conceduto d'essere perpetua guardiana di cosí fatto tesoro, come
è il corpo di colui, le cui opere tengono in ammirazione tutto il
mondo, e del quale tu non ti se' saputa far degna. Ma certo egli non è
tanta l'allegrezza d'averlo, quanta la invidia ch'ella ti porta che tu
t'intitoli della sua origine, quasi sdegnando che dove ella sia per
l'ultimo dí di lui ricordata, tu allato a lei sii nominata per lo
primo. E perciò con la tua ingratitudine ti rimani, e Ravenna de' tuoi
onori lieta si glori tra' futuri.


XIX
BREVE RICAPITOLAZIONE

Cotale, quale di sopra è dimostrata, fu a Dante la fine della vita
faticata da' vari studi; e, percioché assai convenevolemente le sue
fiamme, la familiare e la publica sollecitudine e il miserabile esilio
e la fine di lui mi pare avere secondo la mia promessa mostrate,
giudico sia da pervenire a mostrare della statura del corpo,
dell'abito, e generalmente de' piú notabili modi servati nella sua
vita da lui; da quegli poi immediatamente vegnendo all'opere degne di
nota, compilate da esso nel tempo suo, infestato da tanta turbine
quanta di sopra brievemente è dichiarata.


XX
FATTEZZE E COSTUMI DI DANTE

Fu adunque questo nostro poeta di mediocre statura, e, poi che alla
matura etá fu pervenuto, andò alquanto curvetto, ed era il suo andare
grave e mansueto, d'onestissimi panni sempre vestito in quell'abito
che era alla sua maturitá convenevole. Il suo volto fu lungo, e il
naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle
grandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore
era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre
nella faccia malinconico e pensoso. Per la qual cosa avvenne un giorno
in Verona, essendo giá divulgata pertutto la fama delle sue opere, e
massimamente quella parte della sua _Comedia_, la quale egli intitola
_Inferno_, ed esso conosciuto da molti e uomini e donne, che, passando
egli davanti a una porta dove piú donne sedevano, una di quelle
pianamente, non però tanto che bene da lui e da chi con lui era non
fosse udita, disse all'altre donne:--Vedete colui che va nell'inferno,
e torna quando gli piace, e qua su reca novelle di coloro che lá giú
sono?--Alla quale una dell'altre rispose semplicemente:--In veritá tu
déi dir vero: non vedi tu com'egli ha la barba crespa e il color bruno
per lo caldo e per lo fummo che è lá giú?--Le quali parole udendo egli
dir dietro a sé, e conoscendo che da pura credenza delle donne
venivano, piacendogli, e quasi contento ch'esse in cotale opinione
fossero, sorridendo alquanto, passò avanti.
Ne' costumi domestici e publici mirabilmente fu ordinato e composto, e
in tutti piú che alcun altro cortese e civile.
Nel cibo e nel poto fu modestissimo, sí in prenderlo all'ore ordinate
e sí in non trapassare il segno della necessitá, quel prendendo; né
alcuna curiositá ebbe mai piú in uno che in uno altro: li dilicati
lodava, e il piú si pasceva di grossi, oltremodo biasimando coloro, li
quali gran parte del loro studio pongono e in avere le cose elette e
quelle fare con somma diligenzia apparare; affermando questi cotali
non mangiare per vivere, ma piú tosto vivere per mangiare.
Niuno altro fu piú vigilante di lui e negli studi e in qualunque altra
sollecitudine il pugnesse; intanto che piú volte e la sua famiglia e
la donna se ne dolfono, prima che, a' suoi costumi adusate, ciò
mettessero in non calere.
Rade volte, se non domandato, parlava, e quelle pesatamente e con voce
conveniente alla materia di che diceva; non pertanto, lá dove si
richiedeva, eloquentissimo fu e facundo, e con ottima e pronta
prolazione.
Sommamente si dilettò in suoni e in canti nella sua giovanezza, e a
ciascuno che a que' tempi era ottimo cantatore o sonatore fu amico e
ebbe sua usanza; e assai cose, da questo diletto tirato compose, le
quali di piacevole e maestrevole nota a questi cotali facea rivestire.
Quanto ferventemente esso fosse ad amor sottoposto, assai chiaro è giá
mostrato. Questo amore è ferma credenza di tutti che fosse movitore
del suo ingegno a dovere, prima imitando, divenir dicitore in volgare;
poi, per vaghezza di piú solennemente mostrare le sue passioni, e di
gloria, sollecitamente esercitandosi in quella, non solamente passò
ciascuno suo contemporaneo, ma in tanto la dilucidò e fece bella, che
molti allora e poi di dietro a sé n'ha fatti e fará vaghi d'essere
esperti.
Dilettossi similemente d'essere solitario e rimoto dalle genti,
accioché le sue contemplazioni non gli fossero interrotte; e se pure
alcuna che molto piaciuta gli fosse ne gli veniva, essendo esso tra
gente, quantunque d'alcuna cosa fosse stato addomandato, giammai
infino a tanto che egli o fermata o dannata la sua imaginazione
avesse, non avrebbe risposto al dimandante: il che molte volte,
essendo egli alla mensa, ed essendo in cammino con compagni, e in
altre parti, domandato, gli avvenne.
Ne' suoi studi fu assiduissimo, quanto è quel tempo che ad essi si
disponea, in tanto che niuna novitá che s'udisse, da quegli il poteva
rimuovere. E, secondo che alcuni degni di fede raccontano di questo
darsi tutto a cosa che gli piacesse, egli, essendo una volta tra
l'altre in Siena, e avvenutosi per accidente alla stazzone d'uno
speziale, e quivi statogli recato uno libretto davanti promessogli, e
tra' valenti uomini molto famoso, né da lui stato giammai veduto, non
avendo per avventura spazio di portarlo in altra parte, sopra la panca
che davanti allo speziale era, si pose col petto, e, messosi il
libretto davanti, quello cupidissimamente cominciò a vedere. E comeché
poco appresso in quella contrada stessa, e dinanzi da lui, per alcuna
general festa de' sanesi si cominciasse da gentili giovani e facesse
una grande armeggiata, e con quella grandissimi romori da' circustanti
(sí come in cotal casi con istrumenti vari e con voci applaudenti suol
farsi), e altre cose assai v'avvenissero da dover tirare altrui a
vedersi, sí come balli di vaghe donne e giuochi molti di giovani; mai
non fu alcuno che muovere quindi il vedesse, né alcuna volta levare
gli occhi dal libro: anzi, postovisi quasi a ora di nona, prima fu
passato vespro, e tutto l'ebbe veduto e quasi sommariamente compreso,
che egli da ciò si levasse; affermando poi ad alcuni, che il
domandavano come s'era potuto tenere di riguardare a cosí bella festa
come davanti a lui s'era fatta, sé niente averne sentito; per che alla
prima maraviglia non indebitamente la seconda s'aggiunse a'
dimandanti.
Fu ancora questo poeta di maravigliosa capacitá e di memoria
fermissima e di perspicace intelletto, intanto che, essendo egli a
Parigi, e quivi sostenendo in una disputazione _de quolibet_ che nelle
scuole della teologia si facea, quattordici quistioni da diversi
valenti uomini e di diverse materie, con gli loro argomenti pro e
contra fatti dagli opponenti, senza mettere in mezzo raccolse, e
ordinatamente, come poste erano state, recitò; quelle poi, seguendo
quello medesimo ordine, sottilmente solvendo e rispondendo agli
argomenti contrari. La qual cosa quasi miracolo da tutti i circustanti
fu reputata.
D'altissimo ingegno e di sottile invenzione fu similmente, sí come le
sue opere troppo piú manifestano agl'intendenti che non potrebbono
fare le mie lettere.
Vaghissimo fu e d'onore e di pompa per avventura piú che alla sua
inclita virtú non si sarebbe richiesto. Ma che? qual vita è tanto
umile, che dalla dolcezza della gloria non sia tócca? E per questa
vaghezza credo che oltre a ogni altro studio amasse la poesia,
veggendo, comeché la filosofia ogni altra trapassi di nobiltá, la
eccellenzia di quella con pochi potersi comunicare, e esserne per lo
mondo molti famosi: e la poesia piú essere apparente e dilettevole a
ciascuno, e li poeti rarissimi. E perciò, sperando per la poesí allo
inusitato e pomposo onore della coronazione dell'alloro poter
pervenire, tutto a lei si diede e istudiando e componendo. E certo il
suo disiderio veniva intero, se tanto gli fosse stata la fortuna
graziosa, che egli fosse giammai potuto tornare in Firenze, nella
quale sola sopra le fonti di San Giovanni s'era disposto di coronare;
accioché quivi, dove per lo battesimo aveva preso il primo nome, quivi
medesimo per la coronazione prendesse il secondo. Ma cosí andò che,
quantunque la sua sufficienzia fosse molta, e per quella in ogni
parte, ove piaciuto gli fosse, avesse potuto l'onore della laurea
pigliare (la quale non iscienzia accresce, ma è dell'acquistata
certissimo testimonio e ornamento); pur, quella tornata, che mai non
doveva essere, aspettando, altrove pigliar non la volle; e cosí, senza
il molto disiderato onore avere, si morí. Ma, percioché spessa
quistione si fa tra le genti, e che cosa sia la poesí e che il poeta,
e donde sia questo nome venuto e perché di lauro sieno coronati i
poeti, e da pochi pare essere stato mostrato; mi piace qui di fare
alcuna transgressione, nella quale io questo alquanto dichiari,
tornando, come piú tosto potrò, al proposito.


XXI
DIGRESSIONE SULL'ORIGINE DELLA POESIA

La prima gente ne' primi secoli, comeché rozzissima e inculta fosse,
ardentissima fu di conoscere il vero con istudio, sí come noi veggiamo
ancora naturalmente disiderare a ciascuno. La quale veggendo il cielo
muoversi con ordinata legge continuo, e le cose terrene avere certo
ordine e diverse operazioni in diversi tempi, pensarono di necessitá
dovere essere alcuna cosa, dalla quale tutte queste cose procedessero,
e che tutte l'altre ordinasse, sí come superiore potenzia da
niun'altra potenziata. E, questa investigazione seco diligentemente
avuta, s'immaginarono quella, la quale «divinitá» ovvero «deitá»
nominarono, con ogni cultivazione, con ogni onore e con piú che umano
servigio esser da venerare. E perciò ordinarono, a reverenza del nome
di questa suprema potenzia, ampissime ed egregie case, le quali ancora
estimarono fossero da separare cosí di nome, come di forma separate
erano, da quelle che generalmente per gli uomini si abitavano; e
nominaronle «templi». E similmente avvisarono doversi [ordinar]
ministri, li quali fossero sacri e, da ogni altra mondana
sollecitudine rimoti, solamente a' divini servigi vacassero, per
maturitá, per etá e per abito, piú che gli altri uomini, reverendi;
gli quali appellarono «sacerdoti». E oltre a questo, in
rappresentamento della immaginata essenzia divina, fecero in varie
forme magnifiche statue, e a' servigi di quella vasellamenti d'oro e
mense marmoree e purpurei vestimenti e altri apparati assai pertinenti
a' sacrifici per loro istabiliti. E, accioché a questa cotale potenzia
tacito onore o quasi mutolo non si facesse, parve loro che con parole
d'alto suono essa fosse da umiliare e alle loro necessitá rendere
propizia. E cosí come essi estimavano questa eccedere ciascuna altra
cosa di nobilitá, cosí vollono che, di lungi da ogni plebeio o publico
stilo di parlare, si trovassero parole degne di ragionare dinanzi alla
divinitá, nelle quali le si porgessero sacrate lusinghe. E oltre a
questo, accioché queste parole paressero aver piú d'efficacia, vollero
che fossero sotto legge di certi numeri composte, per li quali alcuna
dolcezza si sentisse, e cacciassesi il rincrescimento e la noia. E
certo, questo non in volgar forma o usitata, ma con artificiosa ed
esquisita e nuova convenne che si facesse. La qual forma li greci
appellano «_poetes_»; laonde nacque, che quello che in cotale forma
fatto fosse s'appellasse «_poesis_»; e quegli, che ciò facessero o
cotale modo di parlare usassono, si chiamassero «poeti».
Questa adunque fu la prima origine del nome della poesia, e per
consequente de' poeti, comeché altri n'assegnino altre ragioni, forse
buone: ma questa mi piace piú.
Questa buona e laudevole intenzione della rozza etá mosse molti a
diverse invenzioni nel mondo multiplicante per apparere; e dove i
primi una sola deitá onoravano, mostrarono i seguenti molte esserne,
comeché quella una dicessono oltre ad ogni altra ottenere il
principato; le quali molte vollero che fossero il Sole, la Luna,
Saturno, Giove e ciascuno degli altri de' sette pianeti, dagli loro
effetti dando argomento alla loro deitá; e da questi vennero a
mostrare ogni cosa utile agli uomini, quantunque terrena fosse, deitá
essere, sí come il fuoco, l'acqua, la terra e simiglianti. Alle quali
tutte e versi e onori e sacrifici s'ordinarono. E poi susseguentemente
cominciarono diversi in diversi luoghi, chi con uno ingegno, chi con
un altro, a farsi sopra la moltitudine indòtta della sua contrada
maggiori; diffinendo le rozze quistioni, non secondo scritta legge,
ché non l'aveano ancora, ma secondo alcuna naturale equitá, della
quale piú uno che un altro era dotato; dando alla loro vita e alli
loro costumi ordine, dalla natura medesima piú illuminati; resistendo
con le loro corporali forze alle cose avverse possibili ad avvenire; e
a chiamarsi re; e mostrarsi alla plebe e con servi e con ornamenti non
usati infino a que' tempi dagli uomini a farsi ubbidire; e ultimamente
a farsi adorare. Il che, solo che fosse chi 'l presumesse, sanza
troppa difficultá avvenia; percioché a' rozzi popoli parevano, cosí
vedendogli, non uomini ma iddii. Questi cotali, non fidandosi tanto
delle lor forze, cominciarono ad aumentare le religioni, e con la fede
di quelle a impaurire i suggetti e a strignere con sacramenti alla
loro obbedienza quegli li quali non vi si sarebbono potuti con forza
costrignere. E oltre a questo diedono opera a deificare li lor padri,
li loro avoli e li loro maggiori, accioché piú fossero e temuti e
avuti in reverenzia dal vulgo. Le quali cose non si poterono
comodamente fare senza l'oficio de' poeti, li quali, sí per ampliare
la loro fama, sí per compiacere a' prencipi, sí per dilettare i
sudditi, e sí per persuadere il virtuosamente operare a ciascuno;
quello che con aperto parlare saria suto della loro intenzione
contrario, con fizioni varie e maestrevoli, male da' grossi oggi non
che a quel tempo intese, facevano credere quello che li prencipi
volevan che si credesse; servando negli nuovi iddii e negli uomini,
gli quali degl'iddii nati fingevano, quello medesimo stile che nel
vero Iddio solamente e nel suo lusingarlo avevan gli primi usato. Da
questo si venne allo adequare i fatti de' forti uomini a quegli
degl'iddii; donde nacque il cantare con eccelso verso le battaglie e
gli altri notabili fatti degli uomini mescolatamente con quegli
degl'iddii; il quale e fu ed è oggi, insieme con l'altre cose di sopra
dette, uficio ed esercizio di ciascuno poeta. E percioché molti non
intendenti credono la poesia niuna altra cosa essere che solamente un
fabuloso parlare, oltre al promesso mi piace brievemente quella essere
teologia dimostrare, prima ch'io vegna a dire perché di lauro si
coronino i poeti.


XXII
DIFESA DELLA POESIA

Se noi vorremo por giú gli animi e con ragion riguardare, io mi credo
che assai leggiermente potremo vedere gli antichi poeti avere imitate,
tanto quanto a lo 'ngegno umano è possibile, le vestigie dello Spirito
santo; il quale, sí come noi nella divina Scrittura veggiamo, per la
bocca di molti, i suoi altissimi secreti revelò a' futuri, facendo
loro sotto velame parlare ciò che a debito tempo per opera, senza
alcuno velo, intendeva di dimostrare. Impercioché essi, se noi
ragguarderemo ben le loro opere, accioché lo imitatore non paresse
diverso dallo imitato, sotto coperta d'alcune fizioni, quello che
stato era, o che fosse al loro tempo presente, o che disideravano o
che presumevano che nel futuro dovesse avvenire, discrissono; per che,
come che ad uno fine l'una scrittura e l'altra non riguardasse, ma
solo al modo del trattare, al che piú guarda al presente l'animo mio,
ad amendune si potrebbe dare una medesima laude, usando di Gregorio le
parole. Il quale della sacra Scrittura dice ciò che ancora della
poetica dir si puote, cioè che essa in un medesimo sermone, narrando,
apre il testo e il misterio a quel sottoposto; e cosí ad un'ora
coll'uno gli savi esercita e con l'altro gli semplici riconforta, e ha
in publico donde li pargoletti nutrichi, e in occulto serva quello
onde essa le menti de' sublimi intenditori con ammirazione tenga
sospese. Percioché pare essere un fiume, accioché io cosí dica, piano
e profondo, nel quale il piccioletto agnello con gli piè vada, e il
grande elefante ampissimamente nuoti. Ma da procedere è al verificare
delle cose proposte.
Intende la divina Scrittura, la qual noi «teologia» appelliamo, quando
con figura d'alcuna istoria, quando col senso d'alcuna visione, quando
con lo 'ntendimento d'alcun lamento, e in altre maniere assai,
mostrarci l'alto misterio della incarnazione del Verbo divino, la vita
di quello, le cose occorse nella sua morte, e la resurrezione
vittoriosa, e la mirabile ascensione, e ogni altro suo atto, per lo
quale noi ammaestrati, possiamo a quella gloria pervenire, la quale
Egli e morendo e resurgendo ci aperse, lungamente stata serrata a noi
per la colpa del primiero uomo. Cosí li poeti nelle loro opere, le
quali noi chiamiamo «poesia», quando con fizioni di vari iddii, quando
con trasmutazioni d'uomini in varie forme, e quando con leggiadre
persuasioni, ne mostrano le cagioni delle cose, gli effetti delle
virtú e de' vizi, e che fuggire dobbiamo e che seguire, accioché
pervenire possiamo, virtuosamente operando, a quel fine, il quale
essi, che il vero Iddio debitamente non conosceano, somma salute
credevano. Volle lo Spirito santo mostrare nel rubo verdissimo, nel
quale Moisé vide, quasí come una fiamma ardente, Iddio, la verginitá
di Colei che piú che altra creatura fu pura, e che dovea essere
abitazione e ricetto del Signore della natura, non doversi, per la
concezione né per lo parto del Verbo del Padre, contaminare. Volle per
la visione veduta da Nabucodonosor, nella statua di piú metalli
abbattuta da una pietra convertita in monte, mostrare tutte le
preterite etá dalla dottrina di Cristo, il quale fu ed è viva pietra,
dovere summergersi; e la cristiana religione, nata di questa pietra,
divenire una cosa immobile e perpetua, sí come gli monti veggiamo.
Volle nelle lamentazioni di Ieremia, l'eccidio futuro di Ierusalem
dichiarare.
Similemente li nostri poeti, fingendo Saturno avere molti figliuoli, e
quegli, fuori che quattro, divorar tutti, niuna altra cosa vollono per
tale fizione farci sentire, se non per Saturno il tempo, nel quale
ogni cosa si produce, e come ella in esso è prodotta, cosí è esso di
tutte corrompitore, e tutte le riduce a niente. I quattro suoi
figliuoli non divorati da lui, è l'uno Giove, cioè l'elemento del
fuoco; il secondo è Giunone, sposa e sorella di Giove, cioè l'aere,
mediante la quale il fuoco quaggiú opera li suoi effetti: il terzo è
Nettuno, iddio del mare, cioè l'elemento dell'acqua; e il quarto e
ultimo è Plutone, iddio del ninferno, cioè la terra, piú bassa che
alcuno altro elemento. Similemente fingono li nostri poeti Ercule
d'uomo essere in dio trasformato, e Licaone in lupo: moralmente
volendo mostrarci che, virtuosamente operando, come fece Ercule,
l'uomo diventa iddio per participazione in cielo; e, viziosamente
operando, come Licaone fece, quantunque egli paia uomo, nel vero si
può dire quella bestia, la quale da ciascuno si conosce per effetto
piú simile al suo difetto: sí come Licaone per rapacitá e per
avarizia, le quali a lupo sono molto conformi, si finge in lupo esser
mutato. Similemente fingono li nostri poeti la bellezza de' campi
elisi, per la quale intendo la dolcezza del paradiso; e la oscuritá di
Dite, per la quale prendo l'amaritudine dello 'nferno; accioché noi,
tratti dal piacere dell'uno, e dalla noia dell'altro spaventati,
seguitiamo le virtú che in Eliso ci meneranno, e i vizi fuggiamo che
in Dite ci farieno trarupare. Io lascio il tritare con piú particulari
esposizioni queste cose, percioché, se quanto si converrebbe e
potrebbe le volessi chiarire, comeché elle piú piacevoli ne
divenissero e piú facessero forte il mio argomento, dubito non mi
tirassero piú oltre molto che la principale materia non richiede e che
io non voglio andare. E certo, se piú non se ne dicesse che quello
ch'è detto, assai si dovrebbe comprendere la teologia e la poesia
convenirsi quanto nella forma dell'operare, ma nel suggetto dico
quelle non solamente molto essere diverse, ma ancora avverse in alcuna
parte: percioché il suggetto della sacra teologia è la divina veritá,
quello dell'antica poesí sono gl'iddii de' gentili e gli uomini.
Avverse sono, in quanto la teologia niuna cosa presuppone se non vera;
la poesia ne suppone alcune per vere, le quali sono falsissime ed
erronee e contra la cristiana religione. Ma, percioché alcuni
disensati si levano contra li poeti, dicendo loro sconce favole e male
a niuna veritá consonanti avere composte, e che in altra forma che con
favole dovevano la loro sofficienzia mostrare e a' mondani dare la
loro dottrina; voglio ancora alquanto piú oltre procedere col presente
ragionamento.
Guardino adunque questi cotali le visioni di Daniello, quelle d'Isaia,
quelle d'Ezechiel e degli altri del Vecchio Testamento con divina
penna discritte, e da Colui mostrate al quale non fu principio né sará
fine. Guardinsi ancora nel Nuovo le visioni dell'evangelista, piene
agl'intendenti di mirabile veritá; e, se niuna poetica favola si
truova tanto di lungi dal vero o dal verisimile, quanto nella
corteccia appaiono queste in molte parti, concedasi che solamente i
poeti abbiano dette favole da non potere dare diletto né frutto. Senza
dire alcuna cosa alla riprensione che fanno de' poeti, in quanto la
loro dottrina in favole ovvero sotto favole hanno mostrata, mi potrei
passare; conoscendo che, mentre che essi mattamente gli poeti
riprendono di ciò, incautamente caggiono in biasimare quello Spirito,
il quale nulla altra cosa è che via, vita e veritá: ma pure alquanto
intendo di soddisfargli.
Manifesta cosa è che ogni cosa, che con fatica s'acquista, avere
alquanto piú di dolcezza che quella che vien senz'affanno. La veritá
piana, percioch'è tosto compresa con piccole forze, diletta e passa
nella memoria. Adunque, accioché con fatica acquistata fosse piú
grata, e perciò meglio si conservasse, li poeti sotto cose molto ad
essa contrarie apparenti, la nascosero; e perciò favole fecero, piú
che altra coperta, perché la bellezza di quelle attraesse coloro, li
quali né le dimostrazion filosofiche, né le persuasioni avevano potuto
a sé tirare. Che dunque direm de' poeti? terremo ch'essi sieno stati
uomini insensati, come li presenti dissensati, parlando e non
sappiendo che, gli giudicano? Certo, no; anzi furono nelle loro
operazioni di profondissimo sentimento, quanto è nel frutto nascoso, e
d'eccellentissima e d'ornata eloquenzia nelle cortecce e nelle frondi
apparenti. Ma torniamo dove lasciammo.
Dico che la teologia e la poesia quasi una cosa si possono dire, dove
uno medesimo sia il suggetto; anzi dico piú, che la teologia
niun'altra cosa è che una poesia di Dio. E ch'altra cosa è che poetica
fizione nella Scrittura dire Cristo essere ora leone e ora agnello e
ora vermine, e quando drago e quando pietra, e in altre maniere molte,
le quali voler tutte raccontare sarebbe lunghissimo? che altro suonano
le parole del Salvatore nello evangelio, se non uno sermone da' sensi
alieno? il quale parlare noi con piú usato vocabolo chiamiamo
«allegoria». Dunque bene appare, non solamente la poesí essere
teologia, ma ancora la teologia essere poesia. E certo, se le mie
parole meritano poca fede in sí gran cosa, io non me ne turberò; ma
credasi ad Aristotile, degnissimo testimonio a ogni gran cosa, il
quale afferma sé aver trovato li poeti essere stati li primi
teologizzanti. E questo basti quanto a questa parte; e torniamo a
mostrare perché a' poeti solamente, tra gli scienziati, l'onore della
corona dell'alloro conceduto fosse.


XXIII
DELL'ALLORO CONCEDUTO AI POETI

Tra l'altre nazioni, le quali sopra il circuito della terra son molte,
li greci si crede che sieno quegli alli quali primieramente la
filosofia sé e li suoi segreti aprisse; de' tesori della quale essi
trassero la dottrina militare, la vita politica e altre care cose
assai, per le quali essi oltre a ogni altra nazione divennero famosi e
reverendi. Ma intra l'altre, tratte del costei tesoro da loro, fu la
santissima sentenzia di Solone nel principio posta di questa operetta;
e accioché la loro republica, la quale piú che altra allora fioriva,
diritta e andasse e stesse sopra due piedi, e le pene a' nocenti e i
meriti ai valorosi magnificamente ordinarono e osservarono. Ma, intra
gli altri meriti stabiliti da loro a chi bene adoperasse, fu questo il
precipuo: di coronare in publico, e con publico consentimento, di
frondi d'alloro li poeti dopo la vittoria delle loro fatiche, e
gl'imperadori, li quali vittoriosamente avessero la republica
aumentata; giudicando che igual gloria si convenisse a colui per la
cui virtú le cose umane erano e servate e aumentate, che a colui da
cui le divine eran trattate. E comeché di questo onore li greci
fossero inventori, esso poi trapassò a' latini, quando la gloria e
l'arme parimente di tutto il mondo diedero luogo al romano nome; e
ancora, almeno nelle coronazioni de' poeti, comeché rarissimamente
avvenga, vi dura. Ma, perché a tale coronazione piú il lauro che altra
fronda eletto sia, non dovrá essere a veder rincrescevole.


XXIV
ORIGINE DI QUESTA USANZA

Sono alcuni li quali credono, percioché sanno Danne amata da Febo e in
lauro convertita, essendo Febo e il primo autore e fautore de' poeti
stato e similmente triunfatore, per amore a quelle frondi portato, di
quelle le sue cetere e i triunfi aver coronati; e quinci essere stato
preso esempio dagli uomini, e per conseguente essere quello, che da
Febo fu prima fatto, cagione di tale coronazione e di tai frondi
infino a questo giorno a' poeti e agl'imperadori. E certo tale
opinione non mi spiace, né nego cosí poter essere stato; ma tuttavia
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