Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 1 - 18

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piú si potea, e perciò, nel centro della terra gittatolo, quivi la sua
prigione fece, e volle quella similmente esser prigione di tutti
quegli li quali contro alla sua deitá operassero; «il mio alto
Fattore», cioè Iddio; «Fecemi la divina Potestate», cioè Iddio Padre,
al quale è attribuita ogni potenza; «La somma Sapienzia», cioè il
Figliuolo, il quale è sapienza del Padre, «e 'l primo Amore», cioè lo
Spirito santo, il quale è perfettissima caritá, igualmente moventesi
dal Padre e dal Figliuolo. E cosí appare questa porta essere stata
fatta dalla Trinitá è a dimostrare che chi offende in alcuna cosa
Iddio offenda queste tre persone, e perciò da tutte e tre essere
quello luogo composto, dove gli offenditori in perpetuo fuoco sono
dannati.
«Dinanzi a me», porta, «non fûr cose create Se non eterne». Cosí
mostra questo luogo essere stato prima creato da Dio che fosse creato
l'uomo, il quale, quanto è al corpo, non è eterno; e che fosse creato
poi che fu creato il cielo e la terra e gli angioli, i quali sono
eterni. [E percioché come parte degli angioli peccarono, che peccarono
prima che l'uomo fosse fatto, fu, come detto è, di presente creato
questo luogo in lor prigione e supplicio; quantunque i santi tengano
questo aere tenebroso essere pieno di quegli, come appresso piú
distesamente alquanto si dirá.] E in quanto l'autore dice qui
«eterne», favella di licenza poetica impropriamente, come assai spesso
si fa: percioché l'essere eterno a cosa alcuna non s'appartiene, se
non a quella la quale non ebbe principio né dee aver fine, e questa è
solo Iddio; gli angioli e le nostre anime, e certe altre creature da
Dio immediatamente create, e quantunque mai fine aver non debbano,
percioché ebber principio, non si deono propriamente parlando dire
«eterne», ma «perpetue». «Ed io eterna duro», sí come opera creata da
Dio senza alcun mezzo; percioché per li dottori si tiene ciò, che
immediatamente fu o sará creato da Dio, è eterno. «Lasciate ogni
speranza, o voi ch'entrate», dentro di me, «_quia in inferno_ _nulla
est redemptio_», se ciò di potenza assoluta Iddio non facesse, come
fece de' santi padri, li quali ne trasse quando giá risuscitato da
morte spogliò il limbo.
«Queste parole», sopra dette, «di colore oscuro», conforme alla
qualitá del luogo nel quale per quella porta s'andava, «Vid'io scritte
al sommo d'una porta», cioè a quella per la quale in inferno
s'entrava; «Perch'io» (_supple_) dissi:--«Maestro», Virgilio; e ben fa
qui a chiamarlo «maestro», percioché a' maestri si vogliono muovere i
dubbi e da loro aspettar le chiarigioni; «Il senso lor», cioè quello
che dir vogliono, «m'è duro»,--cioè malagevole ad intendere.
«E quegli», cioè Virgilio, «a me» (_supple_) rispose, «come persona
accorta», cioè intendente:--«Qui», cioè in questa entrata, «si convien
lasciare ogni sospetto», accioché sicuro si vada; «Qui si convien
ch'ogni viltá», d'animo, «sia morta», cioè cacciata da colui il quale
vuole entrare qua dentro. E son queste parole prese dal sesto
dell'_Eneida_, dove la Sibilla dice ad Enea:
_Nunc animis opus, Aenea, nunc pectore firmo_.
«Noi siam venuti al luogo ov'io t'ho detto», cioè all'inferno, del
quale vicino al fine del primo canto gli disse; «Che vederai le genti
dolorose, C'hanno perduto», per li lor peccati, «il ben
dell'intelletto»,--cioè Iddio, il quale è via, veritá e vita: [e il
ben dell'intelletto è la veritá, per la quale tutti per diverse vie ci
fatichiamo, e pochi alla notizia di quella pervengono].
«E poi che la sua mano alla mia pose Con lieto viso, ond'io mi
confortai». Qui assai manifestamente n'ammaestra l'autore con che viso
noi dobbiamo mettere, chi ne segue, nelle dubbiose cose; e dice che
dee esser con lieto, percioché dal viso lieto del duca prende conforto
e sicurtá chi segue, dove, non avendolo lieto, coloro che a lui
riguardano assai leggiermente impauriscono e diventano vili: come noi
leggiamo le legioni romane, da' contrari auspizi e dal viso di
Flaminio consolo turbato, invilite, da Annibale allato al lago
Trasimeno essere state sconfitte. Dice adunque di sé l'autore che,
vedendo nell'entrata di cosí dubbioso luogo lieto Virgilio, egli si
confortò tutto.
«Mi mise dentro alle segrete cose». Segrete sono in quanto agli occhi
mortali manifestar non si possono, percioché cosí i tormenti, come i
tormentati e i tormentatori ancora tutti, son cose spirituali e
invisibili a noi, e quinci segrete; quantunque gli effetti di quelle,
secondo che mostrar si possono per iscritture e per ammaestramenti di
santi uomini, tutto il dí ci sieno aperti e palesati.
«Quivi sospiri, pianti ed alti guai». Qui incomincia la seconda parte
del presente canto, nella qual dissi che si discrivea quello che
l'autore nella entrata dello 'nferno avea veduto e udito. E dividesi
questa parte in sette: percioché nella prima l'autor pone molti
dolorosamente dolersi; nella seconda gli dichiara Virgilio chi questi
sieno che cosí si dolgono; nella terza discrive l'autore la pena dalla
quale questi son tormentati; nella quarta dice l'autore sé aver vedute
molte anime correre ad un fiume; nella quinta dice sé essere a questo
fiume pervenuto, e non averlo voluto passare dall'altra parte un
nocchiere, che tutti gli altri in una sua barca passava; nella sesta
gli apre Virgilio perché Carón non l'ha voluto passare; nella settima
ed ultima mostra l'autore sé, per un tremor della terra e poi da un
baleno, essere stato vinto e caduto. La seconda comincia quivi: «Ed
egli a me:--Questo misero modo»; la terza quivi: «Ed io che
riguardai»; la quarta quivi: «E poi ch'a riguardare»; la quinta quivi:
«Ed ecco verso noi»; la sesta quivi: «Figliuol mio,--disse»; la
settima ed ultima quivi: «Finito questo».
Dice adunque cosí: «Quivi», cioè nella prima entrata dello 'nferno,
«sospiri, e pianti». «Pianto» è quello che con rammarichevoli voci si
fa, quantunque il piú i volgari lo 'ntendano ed usino per quel pianto
che si fa con lacrime. «E alti guai»: questi appartengono ad ogni
spezie di dolore e massimamente a quello che con altissime voci e
dolorose si dimostra; «Risonavan per l'aere senza stelle», cioè
oscuro, ed al cospetto del cielo chiuso, «Perch'io, al cominciar, ne
lagrimai». Ecco una delle fatiche dell'animo, la quale predisse nel
cominciamento del secondo canto gli s'apparecchiava. «Diverse lingue»,
cioè diversi idiomi, per la diversitá delle nazioni dell'universo, le
quali tutte quivi concorrono; «orribili favelle», cioè spaventevoli,
come son qui tra noi quelle de' tedeschi, li quali sempre pare che
garrino e gridino, quando piú amichevolmente favellano; «parole di
dolore», cioè significanti dolore, «accenti d'ira»; accento è il
profferere, il quale facciamo alto o piano, [acuto o grave o
circunflesso;] ma qui dice che erano d'ira, per la quale si sogliono
molto piú impetuosi fare che, senza ira parlando, non si farieno;
«Voci alte», per le punture della doglia, «e fioche»; suole l'uomo per
lo molto gridare affiocare; «e suon di man», come soglion far le
femmine battendosi a palme, «con elle», cioè con quelle voci: le quali
cose intra sé diverse, non melodia, come soglion fare le voci
misurate, ma «Facevano un tumulto», cioè una confusione; «il qual
s'aggira»; percioché il luogo è ritondo, ed essendo da quel tumulto
l'aere percosso, e non avendo alcuna uscita, è di necessitá che per lo
luogo s'aggiri e prenda moto circulare; «Sempre in quell'aria, senza
tempo tinta», cioè mutata per contrarietá di venti o d'altro
accidente, «Come la rena quando turbo spira». Dimostra qui l'autore,
per una breve comparazione, il moto di quel tumulto, come sopra dissi,
esser circulare, e di quella forma che noi veggiamo talvolta muovere
in cerchio la polvere sopra la superficie della terra; e questo
massimamente avvenire, quando un vento, il quale si chiama da' suoi
effetti «turbo», spira. Il quale non pare avere alcuno ordinato
movimento, come gli altri hanno, percioché non viene da diterminata
parte, ma essendo la esalazion calda e secca, ché dalla terra surge in
alto, pervenuta alla freddezza d'alcun nuvolo, e da quella a parte a
parte cacciata, diviene vento; il quale, lá dove s'ingenera, prende
moto circulare, e per questo non è universale, anzi è solamente in
quella parte dove generato è, intanto che in una medesima piazza noi
il vedremo in una parte di quella e non in un'altra; e, percioché la
esalazione è a parte a parte repulsa dal nuvolo, il veggiam noi per
certi intervalli far queste circulazioni sopra la terra. E questo
vento, come noi il chiamiamo «turbo», Aristotile il chiama «tifone»
nella sua _Meteora_, dove chi vuole può pienamente vedere di questa
materia.
«Ed io, ch'avea d'orror», cioè di stupore, «la testa cinta», cioè
intorniata; e questo dice per lo moto circulare di quel tumulto;
«Dissi:--Maestro, che è quel ch'io odo?», che fa questo tumulto, «E
che gent'è», questa, «che par nel duol sí vinta?»,--secondo che le
loro voci manifestano.
«Ed egli a me». In questa seconda parte della sua divisione dichiara
Virgilio all'autore chi sien costoro de' quali esso dimanda. «Ed
egli», cioè Virgilio, «a me» (_supple_) rispose:--«Questo misero
modo», il quale tu odi e del quale tu se' stupefatto, «Tengon l'anime
triste di coloro, Che visser senza infamia», d'alcuna loro malvagia
operazione, percioché, quantunque buone non fossero, erano intorno a
sí bassa e misera materia, che di sé non davano alcuna cagion di
parlare, e perciò si può dire che senza infamia vivessero; «e senza
lodo», cioè senza fama, percioché, come del loro male adoperare è
detto, il simigliante dir si può se alcun bene adoperavano.
Ma da vedere è che gente questa può essere. E, se io estimo bene,
questa mi pare quella maniera d'uomini, li quali noi chiamiamo
«mentacatti» o vero «dementi», li quali, ancora che abbiano alcun
senso umano, per molta umiditá di cerebro hanno sí il vigore del cuore
spento, che cosa alcuna non ardiscono d'adoperare degna di laude, anzi
si stanno freddi e rimessi, ed il piú del tempo oziosi, quantunque
talvolta sospinti sieno dal disiderio di dovere alcuna cosa adoperare;
di che quello segue che l'autore ne dice, cioè «Che visser senza
infamia e senza lodo».
«Mischiate sono», queste misere anime, «a quel cattivo coro». «Coro»
[si dice propriamente un'adunazion d'uomini, li quali in figura di
cerchio sieno congiunti insieme; o «coro» è detto quello luogo nel
quale stanno nelle chiese coloro che cantano, il quale ha figura di
mezzo cerchio: e qui si potrebbe prendere per ciascuno di questi due
significati, percioché, considerato il movimento di questi spiriti, il
quale è circulare, come appresso si dimostrerá, si può il loro dir
«coro»; e se per altro significato il vorrem prendere, quello di
costoro potrem dire «coro», cioè loro essere ordinati a modo di coro,
ma non a cantare, anzi a piangere miseramente e in eterno.] «Cattivo»
il chiama per la similitudine, la quale hanno quegli spiriti con
queste anime de' cattivi, le quali con loro son mischiate; e in tanto
sono lor simili, in quanto non seppero diliberare che farsi nel tempo
della rebellione del Lucifero, ma si stettero freddi e timidi, senza
diliberare di tenersi con Dio come doveano, o di seguire il Lucifero
come non doveano.
«Degli angeli». Questo nome angelo è derivato da un nome greco, cioè
«_aggelos_», il quale in latino viene a dire «nunzio» o «ambasciadore»
o «messo»: e percioché essi quello oficio appo il diavolo fanno, cioè
d'esser mandati, che appo Iddio fanno i buoni angeli, quel nome antico
d'angeli ritenuto s'hanno e ritengono, quantunque sieno divenuti
dimòni [e, secondo che alcun santo vuole, questo nome non è loro
attribuito giammai, se non quanto sono in alcuna commissione loro
fatta da Dio; la qual finita, non si chiama piú angelo, ma spirito
beato].
«Che non furon ribelli», (_supple_) a Dio, «Né fûr fedeli a Dio, ma
per sé fôro»: non tenner costoro né con Dio né col diavolo.
[Ed accioché qui alcuno per men che bene intendere non errasse, è da
sapere non essere state che due maniere di angeli, sí come il Maestro
ne dimostra nel secondo delle _Sentenzie_, e di queste due l'una non
peccò, e però appresso a Dio si rimase in paradiso; l'altra che peccò,
tutta fu gittata fuori di paradiso, e cadde, e questo aere tenebroso
propinquo alla terra riempié; e questo affermano i santi esserne
pieno. E da questi talvolta muovono le tempeste e le impetuose
turbazioni che nell'aere sono e in terra discendono; e da questi
dicono noi essere tentati e stimolati, e venire quelle illusioni dalle
quali i non molto savi son talvolta beffati e scherniti. Concedono
nondimeno talvolta di questi dimòni discenderne in inferno ad
infestare e tormentare l'anime dei dannati; affermando questi cotali
spiriti immondi al dí del giudicio tutti dovere dalla divina potenza
essere racchiusi in inferno. Ora] pare qui che all'autor piaccia
questi malvagi angeli essere di due spezie divisi: delle quali vuole
l'una aver men peccato che l'altra, in quanto mostra questa spezie,
che men peccò, vicina alla superficie della terra essere rilegata; [e
percioché la giustizia di Dio secondo piú e meno punisce, non intende
costoro al dí del giudicio dover essere da Dio nel profondo inferno
rilegati, come saranno gli altri che molto piú peccarono.]
E però vuolsi questa lettera che segue leggere in questo modo:
«Cacciangli i cieli», da sé: e segue incontanente la ragione perché,
cioè «per non esser men belli»; percioché i cieli sono bellissimi, ed
intra l'altre loro singulari bellezze hanno che in essi alcuna macula
di colpa non si truova, percioché in essi alcuna cosa non si riceve se
non purissima, ed essi furono purissimi creati da Dio; per che segue,
se essi ricevessero questa spezie d'angeli, la quale è viziosa, essi
maculerebbono la lor bellezza: e perciò, accioché questo non avvenga,
essi gli scacciano e dilunganli da loro. «Né il profondo inferno gli
riceve» [cioè riceverá; e ponsi qui il presente per lo futuro,
percioché, altrimenti leggendosi o intendendosi, parrebbero le spezie
degli angeli esser tre, la qual cosa sarebbe contro alla cattolica
veritá]; e dice «il profondo», a differenza del luogo dov'e' sono in
inferno, che veggiamo gli pone nella piú alta parte di quello. E
appresso mostra la cagione perché dal profondo inferno ricevuti
non sieno, dicendo: «Ch'alcuna gloria», cioè piacere, «i rei»,
angeli, li quali manifestissimamente furon ribelli, «avrebber
d'elli»,--veggendoli in quel medesimo supplicio ch'essi [saranno]. E
cosí appare non essere opera de' ministri infernali che questi angeli
non sieno nel profondo inferno, ma della giustizia di Dio, la quale
non patisce che di cosa alcuna quegli spiriti maledetti possano avere
alleggiamento della pena loro.
«Ed io:--Maestro», (_supple_) dissi, «che è tanto greve», cioè qual
tormento, «A lor, che lamentar gli fa sí forte?»--cioè sí amaramente.
«Rispose», cioè Virgilio:--«Dicerolti molto breve».
E dice cosí: «Questi», cattivi, che tu odi cosí dolersi, «non hanno
speranza di morte», percioché manifesto è loro l'anime essere eterne;
«E la lor cieca vita», senza alcuna luce di merito, «è tanto bassa»,
cioè tanto depressa, avendo riguardo che in inferno sieno dannati in
eterno, e su nel mondo di loro alcuna memoria non sia, e quasi sieno
come se stati non fossero; «Che invidiosi son d'ogni altra sorte», di
peccatori, quantunque di gravissimi supplici tormentati sieno. Per che
chiaro comprender si può costoro essere miserissimi, poiché di
ciascuno, quantunque misero, invidiosi sono, conciosiacosaché invidia
non si soglia portare se non a migliore o a piú felice di sé. «Fama di
loro» [che cosa sia fama, è mostrato di sopra nella esposizione della
lettera del precedente canto] «il mondo», cioè il costume de' mondani,
il quale è solamente i segnalati uomini far famosi, «esser non lassa»,
percioché furono torpenti e miseri e freddi; «Misericordia e giustizia
gli sdegna»; e questo percioché le loro opere non furon tali, che
impetrar misericordia per quelle sapessero o potessero, per la quale
sarebbero stati elevati alla gloria eterna; e furon sí vili e sí
dolorose, che giustizia gli sdegna, cioè non cura di doverli tra le
piú gravi colpe dannare, quantunque in quelle per mentacattaggine
forse peccassero; ma, sí come morti senza la grazia di Dio, gli lascia
quivi, come gittati da sé, miseramente dolersi, come miseramente
vissero. [E questa seconda cagione è troppo piú ponderosa che la
primiera, e piú gli prieme; e per questa si manifesta loro sentire
quanto la lor vita sia vile.] E questa è la cagione perché, come
l'altre anime de' peccatori, non vanno a passare il fiume d'Acheronte,
quantunque nondimeno in inferno sieno, lá dove sono. «Non ragioniam di
lor»; quasi voglia dire che il ragionar di cosí fatta spezie di genti
è un perder tempo; «ma guarda», se t'aggrada di vedere la lor pena, e,
guardando, «passa»--e lasciagli stare. E questo riguardare gli concede
Virgilio, non in contentamento dell'autore, ma in dispetto de'
riguardati, li quali noia sentono, vedendo la lor miseria essere da
alcuno veduta o conosciuta.
«Ed io che riguardai», secondo m'avea conceduto Virgilio: e qui
discrive la qualitá della loro afflizione, per la quale sí amaramente
si dolgono: «vidi una insegna, Che girando», cioè in giro andando,
«correva», cioè correndo era portata, «tanto ratta», cioè sí
velocemente, «Che d'ogni posa mi pareva indegna. E dietro le venia», a
questa insegna, «sí lunga tratta», cioè sí gran quantitá, «Di gente»,
d'anime state di gente, «ch'io non avrei creduto», avanti che io
avessi veduto questo, «Che morte tanta n'avesse disfatta», cioè
uccisa. E dice «disfatta», percioché la morte non è altro che la
separazione dell'anima dal corpo, la quale per la morte separandosi,
resta questa composizione dell'anima e del corpo, le quali insieme
fanno l'uomo, essere disfatta; percioché, dopo cotale dipartimento,
colui, che prima era uomo, non è poi piú uomo.
«Poscia ch'io v'ebbi», guardando, «alcun riconosciuto», il quale non
nomina, percioché, se egli il nominasse, qualche fama o infamia gli
darebbe (il che sarebbe contro a quello che di sopra ha detto, cioè:
«Fama di loro il mondo esser non lassa» ecc.), «Vidi, e conobbi
l'ombra di colui, Che fece per viltate il gran rifiuto». Chi costui si
fosse, non si sa assai certo; ma, per l'operazione la quale dice da
lui fatta, estiman molti lui aver voluto dire di colui il quale noi
oggi abbiamo per santo, e chiamiamlo san Piero del Morrone, il quale
senza alcun dubbio fece un grandissimo rifiuto, rifiutando il papato.
E dicesi lui a questo rifiuto essere in questa maniera pervenuto, che,
essendo egli semplice uomo e di buona vita nelle montagne del Morrone
in Abruzzo sopra Selmona in atto eremitico, egli fu eletto papa in
Perugia, appresso la morte di papa Niccola d'Ascoli; ed, essendo il
suo nome Piero, fu chiamato Celestino. La cui semplicitá considerando
messer Benedetto Gatano cardinale, uomo avvedutissimo e di grande
animo e disideroso del papato, astutamente operando, gl'incominciò a
mostrare che esso in pregiudicio dell'anima sua tenea tanto oficio,
poiché a ciò sofficiente non si sentía. Alcuni voglion dire ch'esso
usò con alcuni suoi segreti servidori, che la notte voci s'udivano
nella camera del predetto papa, le quali, quasi d'angeli mandati
da Dio fossero, dicevano:--Renunzia, Celestino! renunzia,
Celestino!--Dalle quali mosso, ed essendo uomo idiota, ebbe consiglio
col predetto messer Benedetto del modo del poter renunziare. Il quale
gli disse:--Il modo sará questo, che voi farete una decretale, nella
quale si contenga che il papa possa nelle mani de' suoi cardinali
renunziare il papato.--Il quale come a doverla fare il vide disposto,
essendo essi in Napoli, segretamente fu col re Carlo secondo, re di
Cicilia, a cui stanza il detto papa poco davanti avea fatti dodici
cardinali, e apertogli l'animo suo, gli promise d'aiutarlo con ogni
forza della Chiesa nella guerra sua di Cicilia, dove facesse che,
rifiutando Celestino il papato, esso facesse che i dodici cardinali,
fatti a sua stanza, gli dessero le boci loro nella elezione: la qual
cosa il re gli promise. Laonde esso, con alcuni altri cardinali
italiani, sotto certe promessioni, ordinato questo medesimo, adoperò
che il papa pronunziò la legge del dover potere rinunziare il papato:
e il dí di santa Lucia, essendo stato cinque mesi e alcun dí papa,
venuto co' papali ornamenti in concistoro, in presenza de' suoi
cardinali pose giú la corona e il papale ammanto, e rifiutò al papato.
Di che poi seguí che la vilia di Natale messer Benedetto predetto fu
eletto papa e chiamato Bonifazio ottavo. Il quale ivi a poco tempo,
percioché vedeva gli animi di molti inchinarsi ad avere nel detto
frate Piero, quantunque rinunziato avesse, divozione come in vero
papa, fece il predetto frate Piero chiamare dal monte Sant'Agnolo in
Puglia, dove per divozione andato n'era, e quindi, secondo che alcuni
affermano, era disposto di passarsene in Ischiavonia, e quivi in
montagne altissime e salvatiche finire in penitenzia i dí suoi; il
fece chiamare, e fecenelo andare alla ròcca di Fumone, e quivi tennelo
mentre visse; ed, essendo morto, il fece in una piccola chiesicciuola
fuori della ròcca, senza alcuno onore funebre, seppellire in una fossa
profondissima, accioché alcuno non curasse di trarne giammai il corpo
suo.
Pare adunque l'autore qui volere lui, per questa viltá d'animo, in
questa parte superiore dello 'nferno tra' cattivi esser dannato. Sono
per questo alcuni che riprendono l'autore, dicendo lui qui avere
errato e detto contro a quello articolo che si canta nel _Simbolo_,
cioè: «_Et in unam sanctam catholicam et apostolicam Ecclesiam_»; in
quanto dice contro a quello che la Chiesa di Dio ha diliberato, cioè
questo frate Piero essere santo, ed egli, mostrando di non crederlo,
il mette tra' dannati. Alla quale obiezione è cosí da rispondere: che,
quando l'autore entrò in questo cammino, il quale egli discrive, e nel
qual dice aver veduta e conosciuta l'ombra di colui che fece per viltá
il gran rifiuto, questo san Piero non era ancora canonizzato;
percioché, sí come apparirá nel vigesimoprimo canto di questo libro,
l'autore entrò in questo cammino nel MCCCI, e questo santo uomo fu
canonizzato molti anni dopo, cioè al tempo di papa Giovanni
vigesimosecondo: e però, infino a quel dí che canonizzato fu, fu
lecito a ciascuno di crederne quello che piú gli piacesse, sí come è
di ciascuna cosa che dalla Chiesa diterminata non sia; e per
conseguente l'autore non fece contro al predetto articolo, ma farebbe
oggi chi credesse quello esser vero.
Altri voglion dire questo cotale, di cui l'autore senza nominarlo dice
che fece il gran rifiuto, essere stato Esaú, figliuolo d'Isac. Il
quale, essendo primogenito di Isac, come nel _Genesi_ si legge,
percioché innanzi a Iacob, con lui ad un parto nascendo, uscí dal
ventre della madre; ed aspettando a lui, per questa ragione, la
benedizione del padre quando a morte venisse, secondo che a quegli
tempi s'usava; tornando un dí da cacciare, ed avendo grandissimo
desiderio di mangiare, trovò Iacob suo fratello avere innanzi una
minestra di lenti, le quali la madre gli aveva cotte, e domandogliele:
Iacob rispose che non gliele darebbe, se egli non rifiutasse alle
ragioni della sua primogenitura e concedessele a lui; per la qual cosa
Esaú, tirato dall'appetito del mangiare, rifiutò ogni sua ragione e
concedettela a Iacob. E per questo voglion dire l'autore intender
d'Esaú, e lui vuol dire aver fatto il gran rifiuto. La qual cosa né la
nego né l'affermo. So io bene, secondo che nel _Genesi_ si legge, Esaú
fu reo e malizioso e fattivo uomo, e non fu semplice né mentacatto, e
fu grande e potente uomo e padre di molte nazioni.
«Incontanente», come veduto ebbi e riconosciuto costui, «intesi»,
dalla sua viltá, «e certo fui, Che questa», che cosí correva dietro a
quella insegna, «era la setta dei cattivi, A Dio spiacenti ed a'
nemici sui», cioè a' demòni; quasi voglia dire: come a Domenedio piace
l'uomo il quale s'esercita sempre in bene adoperare, «_quia non
sufficit abstinere a malo, nisi faciat quis quod bonum est_»; cosí
dispiacciono a' demòni coloro che son pigri, oziosi e tardi, e non si
esercitano in male adoperare.
«Questi sciaurati». Questo vocabolo è disceso dall'antico costume de'
gentili, li quali nelle piú lor cose seguivano gli augúri, cioè quelle
significazioni che dal volato e dal garrito degli uccelli, qual buona
e qual malvagia, secondo le dimostrazioni di quella facultá,
scioccamente prendevano; laonde quelli che malo augurio avevano, erano
chiamati «sciagurati»; il qual vocabolo oggi appo noi suona
«sventurati». «Che mai», cioè in alcun tempo, «non fur vivi», quanto è
ad operazioni spettanti ad uomini, li quali si dican vivere. «Erano
ignudi»: questo medesimo si può dire di tutti i dannati, i quali non
solamente son privati di vestimenti, ma di consolazione e di riposo;
«e stimolati molto», trafitti, «da mosconi e da vespe, ch'eran ivi»,
cioè in quel luogo. «Elle», cioè i mosconi e le vespe, «rigavan lor di
sangue», il quale delle trafitture usciva, «il volto». Chiamasi la
faccia dell'uomo «volto», in quanto per quella il piú delle volte si
discerne quello che l'uom vuole: e cosí si diriverá da «_volo vis_»,
che sta per «volere». «Che mischiato di lagrime, a' lor piedi, Da
fastidiosi vermi era ricolto», questo sangue mescolato con le lagrime
de' miseri cattivi.
«E poi che a riguardare». Qui comincia la quarta parte della
suddivisione della seconda parte di questo canto, nella quale, poi che
discritta ha la pena dei cattivi, dice aver vedute molte anime tutte
correre ad un fiume. «E poi», che veduta la miseria de' cattivi, «che
a riguardare oltre mi diedi», cioè piú avanti: il general costume
degli uomini pone, li quali, conciosiacosaché tutti siam vaghi di
veder cose nuove, sempre oltre alle vedute sospigniamo gli occhi;
«Vidi gente alla riva d'un gran fiume, Perch'io dissi:--Maestro», a
Virgilio,«or mi concedi, Ch'io sappia quali e' sono», quegli ch'io
veggio, «e qual costume Le fa di trapassar», il fiume, «parer sí
pronte», cioè volenterose, «Com'io discerno per lo fioco lume»,--cioè
per lo non chiaro lume; percioché, sí come l'esser fioco impedisce la
chiaritá della voce, cosí le tenebre impediscono la chiaritá della
luce. «Ed egli», cioè Virgilio, «a me» (_supple_) rispose:--«Le cose»,
delle quali tu domandi, «ti fien cónte», cioè manifeste, «Quando
fermerem li nostri passi», lá pervenuti, «Su la trista riviera
d'Acheronte».--
Secondo che scrive Pronapide nel suo _Protocosmo_, Acheronte è un
fiume infernale, il quale dice che in una spelunca, la quale è
nell'isola di Creti, nacque della prima Cerere figliuola di Celio; e,
vergognandosi di venire in publico, per certe fessure della terra se
ne discese in inferno. Sotto questa fizione è da intendere questo:
come altra volta dissi, Titano e i figliuoli combatterono con Saturno,
e presero lui e la moglie; per la qual cosa Cerere, figliuola di
Celio, percioché confortato avea Saturno che non rendesse il regno a
Titano, temendo di lui, si fuggí in Creti, tanto dolente, quanto piú
esser poteva, di ciò che avvenuto era a Saturno, e quivi si nascose. E
poi, sentendo che Giove aveva vinto Titano, e liberato Saturno e la
moglie di prigione, non altrimenti che la femmina depone il peso del
ventre suo partorendo, cosí Cerere, posto in questo luogo, dove
occulta dimorava, ogni dolore giú ed ogni amaritudine, uscí in publico
lieta. E da questo dolor posto giú fu data la materia alla fizione:
quasi voglia dire il dolore essersi tornato al suo principio, cioè al
luogo del dolore in inferno. E questo discrive in forma di fiume, a
dimostrare la quantitá essere stata grande del dolore. Ma il nostro
autore gli dá, fingendo, altra origine: percioché, sí come apparirá
nel quattordicesimo canto del presente libro, egli mostra questo fiume
e gli altri infernali nascere di gocciole d'acqua che caggiono di
fessure, le quali dice essere in una statua di piú metalli, dritta
nell'isola di Creti: e quivi piú a pieno se ne tratterá, e di questo e
degli altri.
«Allor con gli occhi vergognosi e bassi, Temendo no 'l mio dir gli
fosse grave», cioè noioso, «Infino al fiume», d'Acheronte, «di parlar
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