Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 1 - 16

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poeta che v'aggiugnesse.--«Se io ho ben la tua parola intesa», cioè il
tuo ragionare, il quale veramente aveva bene inteso, «L'anima tua è da
viltate offesa», cioè occupata da tiepidezza e da pusillanimitá, la
quale non che le maggiori cose, ma eziando quelle che a colui, nel
quale ella si pon, si convengono, non ardisce d'imprendere. «La qual»,
viltá, «molte fiate l'uomo ingombra», cioè impedisce, «Sí che d'onrata
impresa» [poi fatta] «l'arivolve», [dal]la sua misera e tiepida
oppinione, «Come», ingombra, «falso veder», parendo una cosa per
un'altra vedere (il che addiviene per ricevere troppo tosto nella
virtú fantastica alcuna forma, nella immaginativa subitamente venuta),
«bestia quand'ombra», cioè adombra, e temendo non vuole piú avanti
andare. E vuolsi questa lettera cosí ordinare: «la quale molte fiate
ingombra l'uomo, come falso vedere fa bestia, quand'ombra, e d'onorata
impresa l'arivolve».
Poi séguita: «Da questa téma», la quale tu hai di venire lá dove detto
t'ho, «accioché tu ti solve», cioè sciolghi, sí che ella non ti tenga
piú impedito, «Dirotti perch'i' venni, e», dirotti, «quel ch'io
intesi, Nel primo punto che di te mi dolve», cioè che io ebbi
compassion di te.
«Io era tra color che son sospesi», in quanto non sono demersi nella
profonditá dello 'nferno, né nella profonda miseria de' supplici piú
gravi, come sono molti altri dannati; né sono non che in gloria, ma in
alcuna speranza di minor pena, che quella la qual sostengono. Poi
segue Virgilio: ed essendo quivi, «E donna mi chiamò beata e bella».
Dove, per mostrare piú degna colei che il chiamò, le pone tre epiteti:
prima dice che era «donna», il qual titolo, come che molte, anzi quasi
tutte, oggi usino le femmine, a molte poche si confá degnamente; e
dimostrasi per questo la condizione di costei non esser servile. Dice,
oltre a questo, che ella era «bella»; e l'esser bella è singular dono
della natura, il quale, quantunque nelle mondane donne sia fragile e
poco durabile, nondimeno da tutte è maravigliosamente disiderato;
senza che egli è pure alcun segno di benivole stelle operatesi nella
concezione di quella cotale, che questo dono riceve; e quasi non mai
sogliono i superiori corpi questo concedere, ch'egli non sia d'alcuna
altra grazia accompagnato: per la qual cosa paiono piú venerabili
quelle persone, che hanno bello aspetto, che gli altri. Appresso dice
che era «beata», nella qual cosa racchiude tutte quelle cose, le quali
debbano potere muovere a' suoi comandamenti qualunque persona
richiesta; peroché chi è beato non è verisimile dovere d'alcuna cosa,
se non onestissima, richiedere alcuno; e può chi è beato remunerare; e
dé' si credere lui esser grato verso chi a' suoi piacer si dispone. Le
quali cose Virgilio, sí come avvedutissimo uomo, conoscendo, dice:
ella era «Tal che di comandare i' la richiesi»; cioè offersimi, come
ella mi chiamò, presto ad ogni suo comandamento. E ben doveva questa
donna esser degna di reverenza, quando tanto uomo, quanto Virgilio fu,
si proffera a lei.
Poi segue continuando il suo dire, e ancora piú degna la dimostra,
dicendo: «Lucevan gli occhi suoi piú che la stella». Dé'si qui
intendere l'autore volere preporre la luce degli occhi di questa donna
alla luce di quella stella ch'è piú lucente. «E cominciommi a dir»,
questa donna, «soave e piana»: nel qual modo di parlare si comprende
la qualitá dell'animo di colui che favella dovere essere riposata, non
mossa da alcuna passione, e, oltre a ciò, in questo disegna l'atto
dell'onesto, il quale in ogni suo movimento dee esser soave e
riposato. «Con angelica voce» aggiugne un'altra cosa, mirabilmente
opportuna nelle donne, d'aver la voce piacevole, né piú sonora né meno
che alla gravitá donnesca si richiede; e queste cosí fatte voci fra
noi sono chiamate «angeliche». E, oltre a questo, l'attribuisce
Virgilio questa voce in testimonio della beatitudine di lei, percioché
estimar dobbiamo alcuna cosa deforme non potere essere in alcun beato.
«In sua favella», cioè in fiorentino volgare, non ostante che Virgilio
fosse mantovano. Ed in ciò n'ammaestra alcuno non dovere la sua
original favella lasciare per alcun'altra, dove necessitá a ciò nol
costrignesse. La qual cosa fu tanto all'animo de' romani, che essi,
dove che s'andassero, o ambasciadori o in altri ufici, mai in altro
idioma che romano non parlavano; e giá ordinarono che alcuno, di che
che nazion si fosse, in senato non parlasse altra lingua che la
romana. Per la qual cosa assai nazioni mandaron giá de' loro giovani
ad imprendere quello linguaggio, accioché intendesser quello e in
quello sapessero e proporre e rispondere.
Ma potrebbesi qui muovere un dubbio, e dire:--Come sai tu che questa
donna parlasse fiorentino?--A che si può rispondere apparire in piú
luoghi, in questo volume, Beatrice essere stata una gentildonna
fiorentina, la quale l'autore onestamente amò molto tempo; e per
questo comprendere e dire lei in fiorentin volgare aver parlato.
E percioché questa è la primiera volta che di questa donna nel
presente libro si fa menzione, non pare indegna cosa alquanto
manifestare di cui l'autore, in alcune parti della presente opera,
intenda nominando lei, conciosiacosaché non sempre di lei
allegoricamente favelli. Fu adunque questa donna (secondo la relazione
di fededegna persona, la quale la conobbe, e fu per consanguinitá
strettissima a lei) figliuola d'un valente uomo chiamato Folco
Portinari, antico cittadino di Firenze: e, come che l'autore sempre la
nomini Beatrice dal suo primitivo, ella fu chiamata Bice; ed egli
acconciamente il testimonia nel _Paradiso_, lá dove dice: «Ma quella
reverenza, che s'indonna Di tutto me, pur per B e per ice». E fu di
costumi e d'onestá laudevole quanto donna esser debba e possa, e di
bellezza e di leggiadria assai ornata; e fu moglie d'un cavaliere de'
Bardi, chiamato messer Simone; nel ventiquattresimo anno della sua etá
passò di questa vita, negli anni di Cristo milleduecentonovanta. Fu
questa donna maravigliosamente amata dall'autore. Né cominciò questo
amore nella loro provetta etá, ma nella loro fanciullezza; peroché,
essendo ella d'etá d'otto anni e l'autore di nove, sí come egli
medesimo testimonia nel principio della sua _Vita nuova_, prima
piacque agli occhi suoi. Ed in questo amore con maravigliosa onestá
perseverò mentre ella visse. E molte cose in rima, per amore ed in
onor di lei giá compose; e, secondo che egli nella fine della sua
_Vita Nuova_ scrive, esso in onor di lei a comporre la presente opera
si dispose; e come appare e qui e in altre parti, assai
maravigliosamente l'onora.
--«O anima». Qui cominciano le parole, le quali Virgilio dice essergli
state dette da questa donna, nelle quali la donna, con tre
commendazioni di Virgilio, si sforza di farlosi benivolo ed
ubbidiente, dicendo primieramente: «cortese», il che in qualunque,
quantunque eccellente uomo e onorevole, titolo è da disiderare,
percioché in ciascuno nostro atto è laudevole cosa l'esser cortese;
quantunque molti vogliano che ad altro non si riferisca l'esser
cortese, se non nel donare il suo ad altrui; «mantovana», il che la
donna dice per mostrare che ella il conosca, e a lui voglia dire e
dica, e non ad un altro; «La cui fama nel mondo ancora dura», cioè
persevera. E questa è la seconda cosa per la quale la donna si vuol
fare benivolo Virgilio, mostrandogli lui essere famoso.
[È la Fama un romore generale d'alcuna cosa, la qual sia stata
operata, o si creda essere stata, da alcuno, sí come noi sentiamo e
ragioniamo delle magnifiche opere di Scipione Africano, della
laudevole povertá di Fabrizio e della fornicazione di Didone e di
simiglianti: la qual finge Virgilio, nel quarto del suo _Eneida_,
essere stata figliuola della Terra e sorella di Ceo e d'Anchelado, e
lei la Terra, commossa dall'ira degl'iddii, aver partorita. Della qual
si racconta una cotal favola, che, conciofossecosaché, per desiderio
d'ottenere il regno Olimpo, fosse nata guerra tra i Titani, uomini
giganti, figliuoli della Terra, e Giove; si divenne in questo, che
tutti i figliuoli della Terra, li quali inimicavan Giove, furon dal
detto Giove e dagli altri iddii occisi: per lo qual dolore la Terra
commossa e disiderosa di vendetta, conciofossecosaché a lei non
fossero arme contro a cosí possenti nemici, accioché con quelle forze,
le quali essa potesse, alcun male contro agl'iddii facesse, costretto
il ventre suo, ne mandò fuori la Fama, raccontatrice delle scellerate
operazioni degl'iddii. La forma della quale Virgilio nel preallegato
libro discrive, e dice:
_Fama, malum quo non aliud velocius ullum_, ecc.,
seguendo che ella vive per movimento, e andando acquista forze, e
nella prima tema è piccola, ma poi se medesima lieva in alto, e quindi
va su per lo suolo della terra e il suo capo nasconde tra' nuvoli; e
ch'ella è in su i piè velocissima, e ha alie molto ratte, ed è un
mostro orribile e grande; e quante penne ha nel corpo suo, tanti occhi
n'ha sotto che sempre vegghiano, e tante lingue e tante bocche le
quali continuamente parlano, e tanti orecchi li quali sempre tiene
levati; e vola la notte per lo mezzo del cielo e per l'ombra della
terra, stridendo, senza dormir mai; e 'l dí siede ragguardatrice sopra
la sommitá delle case, e spaventa le cittá grandi: tenace cosí de'
composti mali, come rapportatrice del vero.]
[Ma, se io, avendo la sua origine e la forma e gli effetti secondo le
fizion poetiche discritte, non aprissi quello che essi sotto questa
crosta sentano, potrei forse meritamente essere ripreso. Dico adunque
che gl'iddii, per l'ira de' quali la Terra si commosse e turbò, è da
intendere intorno ad alcuna cosa l'operazion delle stelle, le quali
gli antichi, erronei, chiamavano «iddii», avendo riguardo alla loro
eternitá e alla loro integritá, che alcuna corruzione non ricevea. Le
quali stelle e corpi superiori, senza alcun dubbio per la potenza loro
attribuita dal creatore di quelle, adoperano in noi secondo le
disposizioni delle cose riceventi le loro impressioni; e da questo
avviene che il fanciullo, o vogliam dire il giovane, per loro opera è
aumentato, conciosiacosaché colui che invecchia sia diminuito, e
conciosiacosaché mai si scostino dalla ragione dell'ottimo e perfetto
governatore. Alcuna volta fanno cose, le quali dal repentino e falso
giudicio de' mortali pare che abbino, sí come adirati, fatte, come
quando per loro opera muore un giusto re, un felice imperadore, un
caro e opportuno uomo al ben comune, un savissimo uomo, o un nobile ed
egregio cavaliere: e per questo, cioè per lo fare venir meno i solenni
uomini, pare che come adirati contro a loro faccino.]
[Dissono li poeti gl'iddii essere adirati, avendo uccisi coloro li
quali si doveano perpetuare; ma che di questo séguita che la Terra se
ne commuove, cioè l'animoso uomo (percioché tutti siamo di terra, e in
terra torniamo), e sforzasi d'adoperar quello di che nasca nome e fama
di lui, la quale sia vendicatrice della sua futura morte; accioché,
quando quello avverrá che i corpi superiori facciano venire al suo
fine il suo mortal corpo, viva di lui, per li suoi meriti (eziandio
non volendo i corpi superiori), il nome suo e la fama delle sue
operazioni, non altrimenti che esso vivo fosse. E in quanto dice
questa nella prima téma esser piccola, non ce ne inganniamo,
percioché, quantunque grandi sien l'opere delle quali ella nasce,
nondimeno paiono da un temore degli uditori cominciare a spandersi.
Poi, in quanto dice Virgilio essa elevarsi ne' venti, niun'altra cosa
vuol dire se non essa divenire in piú ampio favellio delle genti; o
vogliam, per quel, sentire essa mescolarsi ne' ragionamenti delle
genti mezzane. E, in quanto poi discende nel suolo della terra,
intende il poeta lei mescolarsi nel vulgo; e cosí, quando mette il
capo ne' nuvoli, dobbiamo intendere lei dovere mescolarsi ne'
ragionamenti de' prencipi e degli uomini sublimi. E l'avere l'alie e i
piè veloci assai manifestamente dimostra il suo presto trascorso d'una
parte in un'altra; e per gli occhi, li quali le discrive molti, sente
agli occhi della Fama ogni cosa pervenire, e cosí agli orecchi. E lei
non tacer mai, dove che ella si favelli, o in pubblico o in occulto, o
in un luogo o in un altro; lei non dormir mai, e volar la notte per lo
mezzo del cielo o per l'ombra della terra: non credo altro intendere
si debbia se non il suo continuo andamento di questo in quello e, per
li suoi rapportamenti vari e molti, metter tremore ne' popoli, e per
conseguente fare guardar le terre e alle porti e sopra le torri fare
stare le guardie e gli speculatori. E, percioché essa non cura di
distinguere il vero dal falso, è contenta di rapportare ciò che ella
ode. Ma, in quanto dicono costei dalla Terra essere generata per
dovere i peccati e le disoneste cose degl'iddii raccontare, per
alcun'altra cosa non credo esser stato fitto se non per dimostrare le
vendette degli uomini men possenti, li quali, non potendo altro fare
a' grandi uomini, s'ingegnano, parlando mal di loro, di farli venire
in infamia, e per conseguente in disgrazia delle genti. Figliuola
della Terra è detta, percioché dell'opere sole, che sopra la terra si
fanno, si genera la fama. E che essa non abbia padre credo avvenire da
questo: per lo non sapersi donde il piú delle volte nasca il principio
del ragionare di quello che poi fama diventa; il che se si sapesse,
direbbe l'uomo quel cotale essere il padre della fama.]
La qual cosa, quantunque ad ogni uomo, il quale ha sentimento, molto
piaccia, sopra a tutti gli altri piacque a' gentili, li quali non
avendo alcuna notizia della beatitudine celestiale, la quale Iddio
concede a coloro li quali adoperan bene, quegli cotali, li quali
virtuosamente adoperavano, a fine d'acquistar fama il facevano, e
quella vedersi avere acquistata con somma letizia ascoltavano.
Dunque mostra in questo la donna di conoscere da quali cose si doveva
far benivolo Virgilio. E poi soggiugne la terza, dicendo: «E durerá»,
questa tua fama, «mentre il mondo lontana», ponendo qui il presente
tempo per lo futuro, in quanto dice «lontana» per «lontanerá», cioè si
prolungherá. E questo per la consonanza della rima si concede. Ed è
questa terza cosa quella che piú piace a coloro li quali fama
acquistano, che essa dopo la lor morte duri lunghissimo tempo,
estimando che quanto piú dura, piú certo testimonio renda della virtú
di colui che guadagnata l'ha. Ed in questo la donna gli compiace, in
quanto gli dice quello che gli è grato ad udire; e, oltre a ciò,
dicendo quella dovere essere perpetua, mostra di credere lui essere
stato per sua grandissima virtú degno d'eterna fama.
[Ma, percioché qui di questa fama si fa menzione, e ancora in piú
parti nel processo se ne fará, e di sopra abbiamo scritta la sua
origine, estimo sia commendabile il mostrare, anzi che piú procediamo,
che differenza sia tra onore e laude e fama e gloria, accioché, dove
nelle cose seguenti menzione se ne fará, s'intenda in che differenti
sieno; e questo dico, percioché giá alcuni indifferentemente posero
l'un nome per l'altro, de' quali forse furono di quegli che non
sapevano la differenza. Dico adunque che «onore» è quello il quale ad
alcuno in presenza si fa, o meritato o non meritato che l'abbia; come
che il meritato sia vero onore e l'altro non cosí: sí come a Scipione
Africano, il quale avendo magnificamente per la republica contro a
Cartagine adoperato, tornando a Roma, gli fu preparato il carro
triunfale e fattigli tutti quegli onori che al triunfo aspettavano,
che eran molti. E questo era vero e debito onore, che per virtú di
colui che il riceveva s'acquistava. A dimostrazione della qual cosa è
da sapere che Marco Marcello, nel quinto suo consolato, secondo che
dice Valerio, avendo vinto primieramente Clastidio, e poi Seragusa in
Sicilia, e botato in questa guerra un tempio alla Virtú e all'Onore,
fu per lo collegio dei pontefici giudicato a due deitá non potersi un
tempio solo farsi; percioché, se alcuna cosa miracolosa in quello
avvenisse, non si saprebbe a quale delle due deitá ordinare i
sacrifici debiti e le supplicazioni. E perciò fu ordinato che a
ciascuna delle due deitá si facesse un tempio; li quali furono fatti
congiunti insieme in questa guisa: che nel tempio fatto in reverenza
dell'Onore non si poteva entrare, se per lo tempio della Virtú non
s'andasse. E questo fu fatto a dare ad intendere che onore non si
poteva acquistare se non per operazion di virtú. È, oltre a questo,
fatto onore ad alcuni, li quali per loro meriti nol ricevono, ma per
alcuna dignitá loro conceduta, o per la memoria de' lor passati, o
forse per la loro etá: questi sono, andando, messi innanzi, posti
nelle prime sedie, e in simili maniere onorati. Le «laude», come
l'onore si fa in presenza a colui che meritato l'ha, cosí si dicono
lui essendo assente; percioché, se lui presente si dicessero, non
laude ma lusinghe parrebbono. La «gloria» è quella che delle ben fatte
cose da' grandi e valenti uomini, essendo lor vivi, si cantano e si
dicono, e l'essere con ammirazione della moltitudine riguardati e
mostrati e reveriti, come fu giá Giunio Bruto, avendo cacciato
Tarquinio re e liberata Roma dalla sua superbia, e Gaio Mario, avendo
vinto Giugurta e sconfitti i cimbri e i téutoni. «Fama» è quello
ragionare che lontano si fa delle magnifiche opere d'alcun valente
uomo, e che dopo la sua vita persevera nelle scritture di coloro li
quali in nota messe l'hanno, spandendosi per lo mondo e molti secoli
continuando; come ancora e udiamo e leggiamo tutto il dí di Pompeo
magno, di Giulio Cesare dettatore, d'Alessandro re di Macedonia e di
simiglianti.]
[Ma da tornare è alla intralasciata materia. E dico che,] avendo
questa donna captata la benivolenzia di Vergilio, gli comincia a
dichiarare il suo disiderio dicendo: «L'amico mio», cioè Dante, il
quale lei, mentre ella visse, come detto è, assai tempo e onestamente
avea amata; e però, sí come l'autore nel _Purgatorio_ dice:
amore
acceso da virtú, sempre altro accese,
sol che la fiamma sua paresse fuore,
mostra dovere egli essere stato onestamente amato da lei; dal quale
onesto amore è di necessitá essere stata generata onesta e laudevole
amistá, la quale esser vera non può, né è durabile, se da virtú
causata non è: e cosí mostra che fosse questa, in quanto la donna, di
lui parlando, il chiama «suo amico». E qui non senza cagione, lasciato
stare il proprio nome, il chiama la donna «amico»: la quale è per
dimostrare, per la virtú di cosí fatto nome, l'autore le sia molto
all'animo e per mostrare in ciò che ella non venga a porgere i preghi
suoi per uomo strano o poco conosciuto da lei. E aggiugne «e non della
ventura», cioè della fortuna, percioché infortunato uomo fu l'autore;
e questo aggiugne ella per mettere compassion di lui in Virgilio, il
quale intende di richiedere che l'aiuti, percioché degl'infelici si
vuole aver compassione. «Nella diserta piaggia», della qual di sopra è
piú volte fatta menzione, «è impedito», dalle tre bestie, delle quali
di sopra dicemmo, «Sí», cioè tanto, «nel cammin, che vòlto è», a
ritornarsi nella oscuritá della valle, «per paura», di quelle bestie.
«E temo che non sia giá sí smarrito, Ch'io mi sia tardi al soccorso»,
di lui, «levata, Per quel ch'io ho di lui nel cielo udito», da Lucia.
E pone la donna queste parole per avacciare l'andata di Virgilio; e
appresso ancora il sollecita dicendo: «Or muovi, e con la tua parola
ornata» (commendalo qui d'eloquenza, la quale ha grandissime forze nel
persuadere quello che il parlatore crede opportuno), «E con ciò che è
mestiere al suo campare, L'aiuta», da quelle bestie che l'impediscono,
«sí», cioè in tal maniera, «ch'io ne sia consolata».
E, dette queste parole, manifesta il nome suo, dicendo: «Io son
Beatrice che ti faccio andare». E, detto il suo nome, gli dice onde
ella viene, per mandarlo in questo servigio, accioché Virgilio conosca
molto calernele; percioché senza gran cagione non è il partirsi alcuno
de' luoghi graziosi e dilettevoli, e andare in quelli ne' quali non è
altra cosa che dolore e miseria. E dice: «Vegno del luogo», cioè di
paradiso, «ove tornar disío». E quinci gli apre la cagione che di
paradiso l'ha fatta discendere in inferno, dicendo: «Amor» [grandi
sono le forze dell'amore: «_Aquae multae non potuerunt extinguere
charitatem_»] «mi mosse», lá onde io era, ed egli è quegli «che mi fa
parlare» e pregarti.
Appresso a questo, accioché Virgilio non sia tardo all'andare, come
persona che guiderdone non aspetta della fatica, si dimostra verso lui
dovere essere grata, dicendo: «Quando sarò dinanzi al Signor mio»,
cioè a Dio, «Di te mi loderò sovente a Lui»:--e cosí non una volta, ma
molte, nella multiplicazion delle quali si mostrerá esserle stato
gratissimo il servigio da lui ricevuto. E quantunque questo
guiderdone, il quale ella promette, alcuna cosa non monti alla salute
di Virgilio, pur si dee credere piacergli; e questo è, percioché
s'egli gli è a grado che la fama di lui tra gli uomini favelli, quanto
maggiormente si dee credere essergli caro che una cosí fatta donna nel
cospetto di Dio il commendi e lodisi di lui?
«Tacquesi allora», detto questo, «e poi comincia' io», a dire, e
(_supple_) dissi:--«O donna di virtú, sola per cui», cioè per cui
sola, «L'umana spezie»: è l'umana generazione spezie di questo genere
che noi diciamo «animali»; «eccede», cioè trapassa di virtú, ed, oltre
a ciò, in tanto, che essi divengono atti a cognoscere e cognoscono
Iddio, il quale alcun altro animale non cognosce; «ogni contento»,
cioè ogni cosa contenuta, «Dal cielo, c'ha minor li cerchi sui», il
quale è quel della luna, che, percioché piú che alcun altro è vicino
alla terra, è di necessitá minore che alcuno degli altri, e perciò ha
i suoi cerchi, cioè le sue circonvoluzioni, minori, infra' quali gli
elementi ed ogni cosa elementata si contiene, e ancora i demòni e
l'anime de' dannati. Le quali cose tutte, per l'anima razionale e
libera, trapassa l'uomo d'eccellenza.
«Tanto m'aggrada 'l tuo comandamento». Qui si dimostra Virgilio assai
graziosamente disposto al comandamento della donna, mostrando che egli
non solamente disidera d'ubbidirla prestamente, ma dice: «Che
l'ubbidir», al comandamento, «se giá fosse», in atto, «m'è tardi». E
però segue; «Piú non t'è uopo aprirmi il tuo talento»; quasi dica:
assai hai detto, ed io son presto.
Ma nondimeno le muove un dubbio, dicendo: «Ma dimmi la cagion, che non
ti guardi Dallo scender quaggiú in questo centro», pieno di scuritá e
di pene eterne. E chiamasi «centro» quel punto il quale fa quella
parte del sesto, il quale noi fermiamo quando alcun cerchio facciamo:
e però chiama «centro» il corpo della terra, percioché, avendo
riguardo alla grandissima larghezza della circunferenza del cielo e
alla piccola quantitá del corpo della terra posta nel mezzo de' cieli,
qui si può dire centro del cielo. «Dall'ampio loco», cioè dal cielo,
«ove tornar tu ardi», cioè ardentemente disideri.
Al quale Beatrice dice cosí:--«Da poi che vuoi saper cotanto
addentro», cioè sí profonda ed occulta cosa, «Dirotti brevemente--mi
rispose--Perch'i' non temo di venir qua entro», in questo carcere
cieco. «Temer si dee sol di quelle cose, C'hanno potenza di fare
altrui male». Sí come Aristotile nel terzo dell'_Etica_ vuole, il non
temer le cose che posson nuocere, come sono i tuoni, gl'incendi e'
diluvi dell'acque, le ruvine degli edifici e simili a queste, è atto
di bestiale e di temerario uomo; e cosí temere quelle che nuocere non
possono, come sarebbe che l'uomo temesse una lepre o il volato d'una
quaglia o le corna d'una lumaca, è atto di vilissimo uomo, timido e
rimesso. Le quali due estremitá questa donna tocca discretamente,
dicendo esser da temere le cose che possono nuocere. «Dell'altre no»,
cioè quelle «che non son poderose» a nuocere, e che non debbon metter
paura nell'uomo, il qual debitamente si può dir forte.
E quinci dimostra sé essere di quei cotali forti, dicendo: «Io son da
Dio; sua mercé»: quasi dica: non per mio merito; fatta «tale», cioè
beata, alla quale cosa alcuna noiosa, quantunque sia grande, non puote
offendere; «Che la vostra miseria», cioè di voi dannati, «non mi
tange», cioè non mi tocca, quantunque io venga qua entro; «Né fiamma
d'esto incendio», il quale è qui. E per questa parola nota quegli del
limbo essere in foco, quantunque nel quarto canto l'autore dica
quelli, che nel limbo sono, non avere altra pena che di sospiri. «Non
m'assale», cioè non mi si appressa.
«Donna è nel cielo». Vuole qui mostrare Beatrice non di suo proprio
movimento mandare Virgilio al soccorso dell'autore, ma con divina
disposizione, percioché in cielo alcuna cosa non si fa che dall'ordine
della divina mente non muova; e perciò vuol mostrare che «Donna è
lassú nel Ciel, che si compiange», cioè si rammarica. Né è questo da
credere che in cielo sia, o possa essere alcuno rammarichío, ma
conviene a noi da' nostri atti prendere il modo del parlare
dimostrativo, a fare intendere gli effetti spirituali; e percioché
l'effetto il quale seguí del venire Beatrice a Virgilio, venne da una
clemenzia divina quasi mossa, come le nostre si muovono, per alcuno
rammarichío; e però dice Beatrice, quella donna compiangersi, cioè
mostrare una affezione dell'impedimento dell'autore, come qui tra noi
mostra chi ha compassion d'alcuno. «Di questo impedimento, ov'io ti
mando», cioè alla salute dell'autore; «Sí che duro», cioè stabile e
fermo, «giudicio», cioè disposizione di Dio, «lassú», cioè in cielo,
«frange», cioè s'apre; e dimostra come le marine onde, cacciate
talvolta dall'impeto d'alcun vento, che vengono insino alla terra
chiuse, e quivi frangendo s'aprono: e cosí sta chiusa ed occulta la
divina disposizione, infino a tanto che di manifestarla bisogni.
«Lucia chiese costei», cioè questa donna chiese Lucia, «in suo
dimando», cioè nel suo priego. Il senso di questa lettera, quantunque
alquanto di sopra aperto n'abbia, non si può qui mostrare essere
litterale, e però è da riserbare quando si tratterá l'allegorico. «E
disse», questa donna:--«Ora ha bisogno il tuo fedele, Di te»;
percioché è in grandissima tribulazione, per la paura la quale ha
delle tre bestie, che il suo cammino impediscono; «ed io a te lo
raccomando»;--volendo dire, poiché suo fedele era, che ella nel suo
scampo s'adoperasse. «Lucia, nemica di ciascun crudele, Si mosse»,
udito questo, «e venne al loco dov'io era, Ch'i' mi sedea con l'antica
Rachele». Rachele fu figliuola di Laban, fratello di Rebecca moglie
d'Isach, e fu moglie di Giacob: la quale storia alquanto piú
distesamente si racconterá appresso nel quarto canto di questo libro.
«Disse:--Beatrice, loda», cioè laudatrice, «di Dio vera»; quasi voglia
per questo intendere essere vere, e non lusinghevoli né fittizie, le
parole con le quali Beatrice loda Iddio. «Che non soccorri quei che
t'amò tanto», avanti che impedito fosse in quella valle tenebrosa,
«Ch'uscí per te della volgare schiera?», cioè, che per piacerti,
lasciati i riti del vulgo, si diede a costumi e a operazioni
laudevoli. «Non odi tu la pièta», cioè l'afflizione, «del suo pianto»,
il quale egli fa nella diserta piaggia? «Non vedi tu la morte, che 'l
combatte», cioè la crudeltá di quelle bestie, le quali con la paura di
sé il combattono e conduconlo alla morte, «Su la fiumana»: qui chiama
«fiumana» quello orribile luogo nel quale l'autore era da quelle
bestie combattuto, quasi quegli medesimi pericoli e quelle paure
induca la fiumana, cioè l'impeto del fiume crescente, il quale è di
tanta forza, che dir si può «ove», sopra la quale, «'l mar non ha
vanto?»--cioè non si può il mare vantare d'essere piú impetuoso o piú
pericoloso di quella.
«Al mondo non fûr mai persone ratte», cioè fûr sollecite, «A far lor
pro», loro utilitá, «ed a fuggir lor danno, Com'io», sollecitamente,
«dopo cotai parole fatte, Venni quaggiú», in inferno, «del mio beato
scanno», cioè del luogo mio, lá dove io in paradiso sedea, «Fidandomi
del tuo parlare onesto»; qui ancora Beatrice onora Virgilio, dicendo
il suo parlare essere onesto, il che di certi altri poeti non si può
dire; «Che onora te», Virgilio; e non solamente te, ma ancora «e quei
che udito l'hanno»,--e servato nella mente; percioché l'avere udito
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