Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 1 - 14

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sai se tu l'avrai? vuo' tu avere tanta fatica, tanto tempo perduto,
quanto tu hai messo in ragunare? vuo' tu venire alla mercé degli
uomini? come faranno i figliuoli tuoi? vuogli tu vedere morir di fame?
come fará la tua bella donna, e tu, misero, come farai? Tu diventerai
favola del vulgo, tu sarai schernito, e non sará chi ti voglia vedere
né udire. Tu puoi ancora indugiare; ogni volta, eziandio morendo, puo'
tu lasciare il tuo a coloro da' quali tu l'hai avuto. Egli sará il
meglio che tu attenda a guadagnare.--
E con questa e con simili dimostrazioni, che il misero fa per
sudducimento e opera del dimonio, il quale alla nostra salute sempre
s'oppone quanto può, spesse volte siamo frastornati; e, avuta poco a
prezzo la grazia di Dio, nella nostra miseria ricaggiamo, e per
conseguente in eterna perdizione ruiniamo. Né a guardarcene mai
c'induce l'etá piena d'anni; percioché, quantunque gli altri vizi
invecchino con gli uomini, solo l'avarizia inringiovenisce. E di ciò
furono verissimi testimoni Tantalo, Mida e Crasso, li quali, morendo,
prima lei abbandonarono che essa da loro, vivendo, fosse abbandonata.
[Poterono adunque questi vizi essere all'autore in singularitá cagione
di resistenza e di paura. Ma che direm noi, in generalitá, che questi
tre animali significhino in altri assai, che, dal vizio partendosi,
vogliono alla virtú ritornare? Nulla altra cosa m'occorre, alla quale
queste tre bestie si possano meglio adattare, che sia quello il che è
a tutti comune, che alli tre nostri principali nemici, cioè la carne,
il mondo, il diavolo; e per la carne intender la lonza, per lo mondo
il leone, e 'l diavolo per la lupa. Questi tre continuamente vegghiano
e stanno intenti alla nostra dannazione. La carne ne lusinga con la
dolcezza de' diletti temporali, sotto a' quali è nascoso il veleno
infernale, il qual noi, come il pesce con l'ésca piglia l'amo, cosí
quasi sempre co' diletti prendiamo, e, di ciò velenati, miseramente
moiamo. Per la qual cosa il nostro Salvador n'ammaestra e sollecita di
stare attenti a non lasciarci ingannare, quando dice: «_Vigilate, et
orate: spiritus quidem promptus, caro autem infirma_». E san Paolo
similemente ne rende avveduti e cauti, quando dice: «_Spiritus
concupiscit adversus carnem, et caro adversus spiritum_»; vogliendone
per questo ammaestrare che noi siamo e avveduti e forti a resistere
alle tentazioni carnali. Il simigliante fa il mondo: questi ne para
dinanzi gli splendor suoi, gl'imperi, i regni, le province, gli stati
e la pompa secolare, gli onori e la peritura gloria; nascondendo sotto
la sua falsa luce i tradimenti, le violenze, gl'inganni, le guerre,
l'uccisioni, l'invidie e i furori e i cadimenti e altre cose assai,
senza le quali né pigliare né tenere si possono queste preeminenze,
questi fulgori, queste grandezze temporali: le quali tutte, e
ciascuna, n'ha a privare di pace e di riposo e della eterna
beatitudine. Susseguentemente il dimonio, rapacissimo ed insaziabile
divoratore, pieno d'ingegno e d'avvedimento nel male adoperare, ne
minaccia e spaventa di ruine, di tempeste, di tribulazioni, se della
sua via usciremo; attorniandoci sempre con agguati, non forse da
quelle volessimo deviare. E in tanta ansietá con le sue dimostrazioni
assai volte ci reca, che, toltoci lo sperare della divina
misericordia, a volontaria morte c'induce: e cosí impedisce tanto chi
vuole alla via della veritá ritornare, che egli nelle tenebre eterne
il conduce. E queste sono le paure, questi sono gl'impedimenti e le
noie che preparate e date da' nostri nemici ne sono, e il nostro ben
volere adoperare impedito e frastornato, come nella corteccia della
lettera l'autore ne dimostra.]
«Mentre ch'io ruinava in basso loco». Nella precedente parte di questo
canto è stato dimostrato, per opera della divina grazia il peccatore
aver conosciuto il suo stato, e disiderar d'uscir di quello, e tornare
alla via della veritá, da lui per lo mentale sonno smarrita; e, oltre
a ciò, quali sieno le cose le quali il suo tornare alla diritta via
impediscono: in questa parte dimostra il divino aiuto al suo scampo
mandatogli, accioché, schifato lo 'mpedimento delli detti vizi, esso
possa quel cammin prendere e seguire che opportuno è alla sua salute.
E come questo mandato gli fosse, piú distintamente si mostrerá nel
canto seguente. E, percioché, come noi per esperienza veggiamo, coloro
i quali delle infermitá si lievano, esser deboli e male atanti della
persona; cosí creder dobbiamo esser l'anima, la quale dalla infermitá
del peccato levandosi, s'ingegna di tornare alla sua sanitá. E, come
il nostro corpo infermo, senza l'aiuto d'alcun bastone sostener non si
puote, né muoversi ad alcuno atto utile; cosí l'anima nostra, dal
peccato vinta e stanca, senza alcuno aiuto della divina clemenza non
può cosa alcuna aoperare in sua salute. E perciò intende qui l'autore
di mostrarci come Iddio, il quale ha sempre gli occhi della sua pietá
diritti a' nostri bisogni, ne mandi la sua seconda grazia, cioè la
cooperante, con l'aiuto e colla dimostrazione della quale noi prendiam
forza e noi medesimi ordiniamo; e, riconosciute con piú avvedimento le
nostre colpe, nel timor di Dio torniamo, e della terza grazia,
perseverando, ci facciam degni, e quindi della quarta.
Le quali cose in questa parte l'autore sotto il velame de' suoi versi
intende, sentendo per Virgilio questa seconda grazia cooperante; e lui
prende come sofficiente, sí per discrezione, e sí per iscienza, e sí
ancora per laudevoli costumi atto a tanto uficio; e, oltre a ciò,
percioché Virgilio, quantunque con altro senso, in parte trattò quella
medesima materia, la quale egli intende di trattare; e ancora,
percioché il trattato dee essere poetico, era piú conveniente un poeta
che alcuno altro sublime uomo; e però prese lui, piú tosto che alcun
altro, percioché egli tra' latini ottiene il principato.
E costui, dice, gli apparve «nel gran diserto», cioè in quella parte
dove l'anima sua, timida di non essere dalle lusinghe e dagli
spaventamenti de' suoi viziosi pensieri ritirata nel profondo delle
miserie, del quale del tutto era disposto d'uscire, si ritrovava senza
consiglio alcuno e senza conforto.
Ed è in questa parte da intendere in questa forma: che Virgilio, lá
dove bisogno será, nella presente opera s'intenda per la ragione a noi
conceduta da Dio, e per la quale noi siamo chiamati «animali
razionali»; percioché la ragione è quella parte dell'uomo, nella quale
si dee credere questa seconda grazia ricevere e abitare,
conciosiacosaché essa ne sia da Dio data non solamente a cooperare con
l'altre nostre potenze animali e intellettive, ma a dirizzare e a
guidare ogni nostra operazione in bene. La qual cosa ella fa, mossa e
ammaestrata dalla divina grazia, quante volte è da noi lasciata esser
donna e imperadrice de' nostri sensi; ma, quando la sensualitá, per le
nostre colpe, la caccia del luogo suo e signoreggia ella, la ragion
tace e diventa mutola, non comanda, non dispon piú secondo il suo
consiglio le nostre operazioni. E, percioché sotto i piedi della
sensualitá era nell'autore lungo tempo giaciuta, si può dire che nel
primo muover delle sue parole paresse «fioca».
Questa adunque, come il disiderio della virtú torna, abbattuta la
sensualitá, risurge e torna nella sua sedia e manifestasi alla
destituta anima, constituta «nel diserto», cioè nel luogo d'ogni
virtú, d'ogni buona operazione, vacuo, pronta e apparecchiata ad ogni
sua opportunitá: [e, avanti ad ogni altra cosa, fa in se medesima
maravigliar l'anima riconosciuta; per che, lasciando di salire a
Cristo, il quale è principio e cagione d'intera beatitudine, si lascia
dallo spaventamento dei vizi sospignere allo 'nferno. Della qual cosa
segue che la ragione, mostrandole apertamente che cosa sia l'avarizia,
e qual sia il fine suo, cioè che dalla liberalitá, la quale è morale e
laudevole virtú, ella fia scacciata, superata e vinta, e in inferno
rimessa lá onde il diavolo, per invidia della gloriosa vita promessa
all'umana generazione, la trasse e menolla nel mondo, accioché per la
sua opera, l'anime, create ad essere beate, fossero laggiú traboccate,
onde ella era stata menata]. E di questo séguita che, poiché, per lo
impedimento dei vizi, quella via piú propinqua di salire a Dio gli era
tolta, che a lui conveniva, e a ciascun convenirsi che vuole uscir
della via del peccato e a Dio ritornarsi, seguire la ragione,
dimostratrice della veritá, a vedere que' luoghi che nel testo si
leggono.
Intorno alla qual cosa è da sapere non essere senza misterio, volendo
uscire dello stato della miseria e ritornar nella grazia, tenere il
cammino che la ragion dimostra all'autore convenirsi tenere. E la
ragione può esser questa: opportuno è a ciascuno, il quale vuol fare
quello che detto è, primieramente conoscere le colpe sue; alle quali,
conosciute, e veduto come dalla giustizia di Dio siano quelle colpe
punite, non è dubbio seguire nell'anima ben disposta il timor di Dio,
il quale è principio della sapienza, come il salmista ne dice. Questo
timore di Dio incontanente fa seguire nelle nostre menti contrizione e
pentimento delle cose non ben fatte; dalla quale, secondo che la
censura ecclesiastica ne dimostra, si viene [alla confessione, e da
quella] alla satisfazione, dopo la quale si sale alla gloria, come
possiamo ordinatamente comprendere, nel cammino che il nostro autore
tiene, seguire. E tutte queste cose, insino al salire alla gloria, ne
può la nostra ragion dimostrare; percioché tutti sono atti civili e
morali e reduttibili agli spirituali.
[Nasce adunque da questo il consiglio, il quale la ragione, che tien
qui luogo della grazia cooperante, gli dá, cioè che egli per lo
'nferno, cioè per gli atti degli uomini terreni (li quali, a rispetto
de' corpi celestiali, ci possiam reputare di essere in inferno); e,
tra quegli, considerati quegli che la nostra ragione, le leggi
positive e la divina dannino: conoscerá quello da che astener si dee
ciascuno che secondo virtú vuol vivere, e quello che, seguendol,
merita pena, e qual pena secondo le leggi temporali e secondo
l'eterne; conoscerá la giustizia di Dio, e meritamente avrá timore
dell'ira sua. E da questo luogo, giá delle cose men che ben fatte
pentendosi, venga a vedere coloro che son contenti nel fuoco, cioè
nell'afflizione della penitenzia; accioché quindi, dietro alla guida
della teologia, le cui ragioni e dimostrazioni la nostra ragion non
può comprendere, salga purgato delle offese all'eterna beatitudine.]
Ed in questo mi pare consista la sentenza dell'allegoria di questo
primo canto.
Restaci nondimeno a vedere una parte, alla quale pare che dirizzi
l'animo ciascuno che il presente libro legge, e quella disidera di
sapere; cioè quello che l'autore abbia voluto sentire per quello
veltro, la cui nazione dice dovere esser «tra feltro e feltro». E, per
quello che io abbia potuto comprendere, sí per le parole dell'autore,
sí per li ragionamenti intorno a questo di ciascuno il quale ha alcun
sentimento, l'autore intende qui dovere essere alcuna costellazion
celeste, la quale dee negli uomini generalmente impriemere la vertú
della liberalitá, come giá è lungo tempo, e ancora persevera quella
del vizio dell'avarizia. Il che l'autore assai chiaro dimostra nel
_Purgatorio_, dove dice:
O ciel, nel cui girar par che si creda
le condizion di quaggiú trasmutarsi,
quando verrá, per cui questa disceda?
cioè questa lupa, per la quale, come detto è, s'intende il vizio
dell'avarizia. [Or non so io, se questo dovere avvenire, l'autore ne'
moti futuri de' superiori corpi si vide, o se per alcuna altra
coniettura ciò dovere avvenire s'è avvisato: è nondimeno assai chiaro
i costumi degli uomini mutarsi e d'una parte in altra trasportarsi.
Percioché, sí come ne mostrano le istorie de' gentili e ancora
dell'altre, lo 'mperio delle cose temporali cominciando sotto Nino re,
fu molte centinaia d'anni sotto gli assiri, sotto i medi e sotto i
persi; e lungamente avanti v'era stata la religione e la scienza, le
quali, come prima lá erano state, cosí primieramente se ne partirono,
e vennerne in Egitto, e d'Egitto in Grecia; e poi da Alessandro re di
Macedonia fu d'Asia lo 'mperio trasportato in Grecia, donde la
scienza, la religione e l'armi poi partendosi ne vennero appo i
latini, e qui per lungo spazio furono; poi di qui paiono andate inver'
ponente, essendo appo i tedeschi e appo i galli, e par giá che il
cielo ne minacci di portarle in Inghilterra: il che per avventura
potrá, se piacer fia di Dio, di questa costellazione che l'autor dice,
avvenire, ecc.] E, percioché queste impressioni del cielo conviene che
quaggiú s'inizino, e comincino ad apparere i loro effetti o per alcuno
uomo, o per piú; par l'autore qui sentire che per uno si debbano gli
alti effetti di questa impression dimostrare: il quale _metaforice_
chiama «veltro», percioché i suoi effetti saranno del tutto cosí
contrari all'avarizia, come il veltro di sua natura è contrario al
lupo.
E costui mostra dovere essere virtuosissimo uomo, e che la nazion sua
debba essere tra feltro e feltro. E questa è quella parte dalla quale
muove tutto il dubbio che nella presente discrizion si contiene. La
qual parte io manifestamente confesso ch'io non intendo: e perciò in
questa sarò piú recitatore de' sentimenti altrui che esponitore de'
miei.
Vogliono adunque alcuni intendere questo veltro doversi intendere
Cristo, e la sua venuta dovere esser nell'estremo giudicio, ed egli
dovere allora esser salute di quella umile Italia, della quale nella
esposizion litterale dicemmo, e questo vizio rimettere in inferno. Ma
questa opinione a niun partito mi piace; percioché Cristo, il quale è
signore e creatore de' cieli e d'ogni altra cosa, non prende i suoi
movimenti dalle loro operazioni, anzi essi, sí come ogni altra
creatura, seguitano il suo piacere e fanno i suoi comandamenti; e,
quando quel tempo verrá, sará il cielo nuovo e la terra nuova, e non
saranno piú uomini, ne' quali questo vizio o alcun altro abbia ad aver
luogo; e la venuta di Cristo non sará allora salute né d'Italia né
d'altra parte, percioché solo la giustizia avrá luogo, e alla
misericordia sará posto silenzio, e il diavolo co' suoi seguaci tutti
saranno in perpetuo rilegati in inferno. E, oltre a ciò, Cristo non
dee mai piú nascere, dove l'autor dice che questo veltro dee nascere.
Né si può dire l'autore aver qui usato il futuro per lo preterito,
quasi e' nacque tra feltro e feltro, cioè della Vergine Maria, che era
povera donna, e nacque in povero luogo: ma questa ragione non
procederebbe, percioché sono MCCCLXXIII anni che egli nacque, e, nei
tempi che nacque, era la potenza di questo vizio nelle menti umane
grandissima; né poi si vede, non che essere scacciata, ma né mancata.
Né si può dire che nascesse tra feltro e feltro, cioè di vile nazione:
egli fu figliuolo del Re del cielo e della terra, e della Vergine, che
era di reale progenie. E se dire volessono: ella era povera; la
povertá non è vizio, e perciò non ha a imporre viltá nel suggetto;
percioché noi leggiamo di molti essere stati delle sustanze temporali
poverissimi, e ricchissimi di virtú e di santitá. Perché dich'io tante
parole? Questa ragione non procede in alcuno atto.
Altri dicono, e al parer mio con piú sentimento, dover potere
avvenire, secondo la potenza conceduta alle stelle, che alcuno,
poveramente e di parenti di bassa e d'infima condizione nato (il che
paiono voler quelle parole «tra feltro e feltro», in quanto questa
spezie di panno è, oltre ad ogni altra, vilissima), potrebbe per virtú
e laudevoli operazioni in tanta preeminenza venire e in tanta
eccellenza di principato, che, dirizzandosi tutte le sue operazioni a
magnificenza, senza avere in alcuno atto animo o appetito ad alcuno
acquisto di reame o di tesoro, ed avendo in singulare abbominazione il
vizio dell'avarizia, e dando di sé ottimo esempio a tutti nelle cose
appartenenti alla magnificenzia, e la costellazione del cielo
essendogli a ciò favorevole; che egli potrebbe, o potrá, muovere gli
animi de' sudditi a seguire, facendo il simigliante, le sue vestigie,
e per conseguente cacciar questo vizio universalmente del mondo. Ed,
essendo salute di quella umile Italia, la qual giá fu capo del mondo,
e dove questo vizio, piú che in alcuna altra parte, pare aver potenza,
sarebbe salute di tutto il rimanente del mondo; e cosí, d'ogni parte
discacciatala, la rimetterebbe in inferno, cioè in dimenticanza e in
abusione, o vogliam dire in quella parte dove gli altri vizi son
tutti, e donde ella primieramente surse intra' mortali. E, a roborare
questa loro oppenione, inducono questi cotali i tempi giá stati, cioè
quegli ne' quali regnò Saturno, li quali per li poeti si truovano
essere stati d'oro, cioè pieni di buona e di pura semplicitá, e ne'
quali questi beni temporali dicon che eran tutti comuni; e per
conseguente, se questo fu, anche dover essere che questi sotto il
governo d'alcuno altro uomo sarebbono.
Alcuni altri, accostandosi in ogni cosa alla predetta oppenione, danno
del «tra feltro e feltro» una esposizione assai pellegrina, dicendo sé
estimare la dimostrazione di questa mutazione, cioè del permutarsi i
costumi degli uomini, e gli appetiti da avarizia in liberalitá,
doversi cominciare in Tartaria, ovvero nello 'mperio di mezzo, lá dove
estimano essere adunate le maggiori [ricchezze e] moltitudini di
tesori, che oggi in alcuna altra parte sopra la terra si sappiano. E
la ragione, con la quale la loro oppenione fortificano, è che dicono
essere antico costume degli imperadori dei tartari (le magnificenze
de' quali e le ricchezze appo noi sono incredibili), morendo, essere
da alcuno de' loro servidori portata sopra un'asta, per la contrada
dov'e' muore, una pezza di feltro, e colui che la porta andar
gridando:--Ecco ciò che il cotale imperadore, che morto è, ne porta di
tutti i suoi tesori;--e, poi che questa grida è andata, in questo
feltro inviluppano il morto corpo di quello imperadore; e cosí senza
alcun altro ornamento il sepelliscono. E per questo dicon cosí: questo
veltro, cioè colui che prima dee dimostrare gli effetti di questa
costellazione, nascerá in Tartaria, tra feltro e feltro, cioè regnante
alcuno di questi imperadori, il quale regna tra 'l feltro adoperato
nella morte del suo predecessore e quello che si dee in lui nella sua
morte adoperare. Questa oppinione sarebbero di quegli che direbbono
avere alcuna similitudine di vero; la quale non è mia intenzione di
volere fuori che in uno atto riprovare, e questo è, in quanto dicono
quegli imperadori aver grandissimi tesori, e però quivi mostran che
istimino, dall'abbondanza dei tesori riservati, essendo sparti,
doversi la gola dell'avarizia riempiere e gli effetti magnifichi
cominciare. Il che mi pare piú tosto da ridere che da credere:
percioché quanto tesoro fu mai sotto la luna, o sará, non avrebbe
forza di saziare la fame di un solo avaro, non che d'infiniti, che
sempre sopra la terra ne sono. Che dunque piú? Tenga di questo
ciascuno quello che piú credibile gli pare, ché io per me credo,
quando piacer di Dio sará, o con opera del cielo o senza, si
trasmuteranno in meglio i nostri costumi. E questo, quanto sopra il
primo canto, basti d'avere scritto [sempre a correzione di coloro che
piú sentono che io non faccio].
Possono per avventura essere alcuni, li quali forse stimano, non
solamente in questo libro, ma eziandio in ogni altro [e ne' divini],
ne' quali figuratamente si parli, ogni parola aver sotto sé alcun
sentimento diverso da quello che la lettera suona; e però, non essendo
nel precedente canto ad ogni parola altro sentimento dato che il
litterale, diranno, nell'aprire l'allegoria, essere difettuosamente da
me proceduto. Ma in questa parte, salva sempre la reverenzia di chi 'l
dicesse, questi cotali sono della loro oppenione ingannati; percioché
in ciascuna figurata scrittura si pongono parole che hanno a
nascondere la cosa figurata, e alcune che alcuna cosa figurata non
ascondono, ma però vi si pongono, perché quelle che figurano possan
consistere: sí come per esemplo si può dimostrare in assai parti nella
presente opera. Che ha a fare al senso allegorico: «La sesta compagnia
in duo si scema»? che n'ha a fare: «Cosí discesi del cerchio primaio»?
che molte altre a queste simili? E, se queste se ne tolgono, come
potrá seguire l'ordine della dimostrazione che l'autore intende di
fare? come acconciarsi quelle che per significare altro si scrivono?
Se ogni parola avesse alcun altro senso che il litterale a nascondere,
di soperchio avrebbe san Girolamo detto nel proemio dell'_Apocalissi_,
e non in altra parte della Scrittura, tanti essere i misteri quante
son le parole; conciosiacosaché nell'_Apocalissi_ per eccellenzia
quello si creda avvenire, che in alcun altro libro della Sacra
Scrittura non avviene. Tuttavia, accioché piú pienamente si creda non
ogni parola avere allegorico senso, leggasi quello che ne scrive santo
Agostino nel libro _Dell'eterna Ierusalem_, dicendo: «_Non omnia, quae
gesta narrantur, aliquid etiam significare putanda sunt; sed propter
illa, quae aliquid significant, attexuntur; solo enim vomere terra
proscinditur; sed, ut hoc fieri possit, etiam caetera aratri membra
sunt necessaria. Et soli nervi in citharis atque huiusmodi vasis
musicis aptantur ad cantum; sed, ut aptari possint, insunt et caetera
in compagibus organorum, quae non percutiuntur a canentibus, sed ea,
quae percussa resonant, his connectuntur_», ecc. E perciò estimo che
molto piú onesto sia a credere ad Agostino che stoltamente opinare
quello che manifestamente si può riprovare; e quinci prendere
certezza, se alcuna cosa allegorizzando è omessa, quella non per
negligenza, ma per non conoscere che opportuna vi sia l'allegoria,
essere stata intralasciata.


CANTO SECONDO


I
SENSO LETTERALE

[Lez. VII]
«Lo giorno se n'andava, e l'aer bruno», ecc. Comincia qui la parte
seconda di questa prima cantica chiamata _Inferno_, nella qual dissi
l'autore cominciare il suo trattato. E, come che questa si potesse in
diverse maniere dividere, questa sola intendo che basti per
universale, cioè dividersi in tante parti, quanti canti seguitano;
percioché pare che ciascun canto tratti di materia differente dagli
altri. E questo canto dividerò in sei parti: nella prima si continua
l'autore al precedente; nella seconda, secondo il costume poetico, fa
la sua invocazione; nella terza muove l'autore a Virgilio un dubbio;
nella quarta Virgilio solve il dubbio mossogli; nella quinta l'autore,
rassicurato, dice di volere seguir Virgilio; nella sesta ed ultima
l'autor mostra come appresso a Virgilio entrò in cammino. La seconda
comincia quivi: «O mese, o alto ingegno»; la terza quivi: «Io
cominciai:--Poeta»; la quarta quivi: «Se io ho ben la tua parola»; la
quinta quivi: «Quale i fioretti»; la sesta quivi: «E poi che mosso
fue».
Dico adunque che l'autore si continua alle cose precedenti; percioché,
avendo detto nella fine del precedente canto sé esser mosso dietro a
Virgilio, nel principio di questo discrive l'ora nella quale si
mossero, dicendo: «Lo giorno se n'andava», e questo per lo chinare del
sole all'occidente; «e l'aer bruno», cioè la notte sopravvegnente, la
qual sempre all'occultar del sole séguita. [Di che appare null'altra
cosa essere il dí, se non la stanza del sole sopra la terra; e questo
è quello che è cosí chiamato, cioè «dí» dalla luce. (E percioché, al
levarsi di quello, sempre la notte fugge, Pronapide, greco poeta e
maestro di Omero, racconta una cotale favola.) E vogliono gli
astrologi questo chiamarsi «dí artificiale», cioè quello spazio il
quale si contiene tra il levare del sole e l'occultare; e la ragione
è, perché essi, usandolo nelle loro elevazioni, d'ogni tempo il
dividono in dodici parti equali, e cosí fanno la notte. Il dí naturale
è di ventiquattro ore equali, e in questo è notte congiunta col dí; ma
dinominasi tutto dí dalla parte piú degna, cioè dalla parte splendida.
E chiamasi dí da «_Dios_» _graece_, il quale in latino viene a dire
«Iddio»; percioché, come Iddio sempre in ogni cosa buona ne giova e
aiuta, cosí nelle nostre operazioni ne aiuta il dí con la sua luce. E
potrebbesi dire che egli n'aiuta nelle buone, percioché chi fa male ha
in odio la luce.] E mostra, per questa discrizione del farsi notte,
che l'autore fosse stato, dal farsi dí infino al farsi notte di quel
dí, in quella valle, occupato da quelle tre bestie ed a ragionar con
Virgilio.
«Toglieva gli animai che sono in terra, Dalle fatiche loro».
Dimostrane qui l'autore una delle operazioni della notte, la quale
l'ordine della natura attribuisce al riposo e alla quiete degli
animali, degli affanni avuti il dí passato; percioché, se alcun tempo
al riposo non si prestasse, non sarebbe alcuno animale che nelle sue
operazioni potesse perseverare; e però dice l'autore che l'aer bruno
«toglieva», cioè levava, «Dalle fatiche loro». E séguita: «ed io sol
uno». Par che qui sia un vizio, il qual si chiama «_inculcatio_», cioè
porre parole sopra parole che una medesima cosa significhino, come qui
sono; percioché «solo» non può essere se non uno, e «uno» non può
essere se non solo; ma questo si scusa per lo lungo e continuo uso del
parlare, il quale pare aver prescritto questo modo di parlare, contro
al vizio della inculcazione. O potrebbesi dire questo nome «solo»
fosse nome adiettivo, e «uno» fosse nome proprio di quel numero, e
cosí cesserebbe il vizio. «M'apparecchiava a sostener la guerra», cioè
la fatica, nemica e infesta al mio riposo, «sí del cammino», che far
dovea (in che mostra dovere il corpo esser gravato), «e sí della
pietate», cioè della compassione, la quale aspetta d'avere vedendo
l'afflizione e le pene de' dannati e di quegli che nel fuoco si
purgano. Ed in questo dimostra l'anima dovere esser faticata,
percioché essa è dalle passioni, che dalle cose esteriori vengono,
gravata e noiata essa, e non il corpo; quantunque ella sia ancor
gravata dalle passioni corporali. «Che tratterá», cioè racconterá, «la
mente», cioè la potenza memorativa, «che non erra»; e questo dice,
percioché si conosceva aver tenace memoria, per la qual cosa non
temeva dovere errare né nella quantitá né nella qualitá.
«O muse, o alto ingegno». In questa seconda parte l'autore fa la sua
invocazione, secondo il costume poetico. Usano i poeti in pochi versi
dire la intenzion sommaria di ciò che poi intendono di trattare in
tutto il processo del libro, e, questo detto, fare la loro
invocazione. E cosí fa Virgilio nel principio del suo _Eneida_:
_... at nunc horrentia Martis
arma, virumque cano, Troiae qui primus ab oris,_ ecc.;
e, questi pochi versi detti, incontanente invoca, dicendo:
_Musa, mihi causas memora; quo numine laeso,_ ecc.
E Ovidio, nel principio del suo maggior volume, dice:
_In nova fert animus mutatas dicere formas
corpora;_
ed incontanente invoca, dicendo:
_...dii coeptis, nam vos mutastis et illas,
aspirate meis,_ ecc.
E talvolta i poeti, insieme con la invocazione, mescolano la sommaria
intenzion loro; e cosí, nel principio della sua _Odissea_, fece Omero,
li versi del quale ottimamente traslatò in latino Orazio, dicendo:
_Dic mihi, musa, virum, captae post tempora Troiae,
qui mores hominum multorum vidit, et urbes._
Cosí similmente il venerabile mio precettore messer Francesco Petrarca
fece nel principio della sua _Africa_, dicendo:
_Et mihi cospicuum meritis, belloque tremendum,
musa, virum referas._
Ma il nostro autore s'accostò piú allo stilo di Virgilio, come in
ciascuna cosa fa, che a quello d'alcun altro; percioché, avendo sotto
brevitá nel precedente canto mostrato quello che intende in tutto il
libro suo di dire, lá dove dice: «E trarrotti di qui per luogo
eterno», ecc.; qui fa la sua invocazione, dicendo: «O muse, o alto
ingegno, or m'aiutate. O mente, che scrivesti», ecc. [Invoca adunque
in questo suo principio, sí come appare, le muse, come di sopra è
mostrato far gli altri poeti: per che pare di dover dichiarare che
cosa sieno queste muse e quante, e qual sia il loro uficio; e questo,
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