Il bacio della contessa Savina - 17

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esempio, se realmente la contessa mi amasse davvero?... e rimpiangesse
gli anni giovanili, e disingannata della vita positiva volesse ritentare
un affetto sincero?... Se per vendicarsi dei pregiudizii sociali che la
condannarono ad un'unione forzata, volesse reclamare i diritti naturali
che ci spingono nelle braccia dell'amore spontaneo?
Chi sa!... forse essa deplora di non aver corrisposto alla mia
dimostrazione d'affetto!... forse mia moglie ha ragione, e i suoi
presentimenti non l'ingannano!... forse la contessa Savina desidera
restituirmi il mio bacio!...
Sarei quasi curioso di farne il tentativo, io pensava fra me, e questa
non sarebbe una colpa d'amore, ma una vendetta!... Essa ha rinnegato il
mio amore per orgoglio, quando era libera d'accettarlo. Io ho diritto di
dirle:--vedi? il tuo rifiuto ti rese infelice!... te ne penti ora?--Sì,
me ne pento, ed eccoti un bacio!...--Ebbene, io risponderei, questa
volta sono io che non l'accetto, non sono più libero, e riprendi il tuo
bacio... e che tutto sia finito!... Se facessi così!... e andavo
scrutando se un bacio possa considerarsi sempre come una colpa... e mi
pareva di no. E cavillando sull'argomento, mi andavo persuadendo esservi
baci che non costituiscono un'infedeltà, e peroravo col calore e
l'eloquenza di un avvocato il quale si sforza di dimostrare che vi sono
assassini galantuomini, e che si può anche ammazzare un uomo senza
essere colpevoli d'omicidio, o almeno almeno con circostanze
attenuanti... e aspettavo la sentenza del giudice.... Questa volta il
giudice era la mia coscienza... ed essa con voce severa mi diceva:--sei
pazzo!... tu mediti un tradimento. Gli assassini sono sempre
assassini... e i baci sempre baci... talvolta più pericolosi degli
assassini!...
E in quel punto mi rammentavo d'aver promesso davanti l'altare d'essere
fedele a mia moglie, e poi avevo giurato sulla medaglia di mia madre, e
sulla vita di mia figlia, di mantenere la promessa. Mio Dio!... la vita
di mia figlia!... al solo pensiero di esporre ad un pericolo la vita
della mia creatura, di attirare la vendetta del cielo sul suo capo
innocente, di colpire con una colpa due vite in una volta... perchè
l'Agata sarebbe morta se avesse perduta la Giuseppina!.., mi si
dirizzarono i capelli sulla fronte, mi sentii i brividi della febbre....
Corsi tutto ansante nella stanza della bambina che terminava di
vestirsi, mi parve di vedere l'Agata col suo sorriso e il suo sguardo,
le baciai teneramente la fronte, e sentii che la coscienza soddisfatta
mi rendeva forte contro ogni pericolo.
Rientrato nella mia stanza, scrissi una lettera affettuosa a mia moglie,
nella quale le parlava del viaggio, della nostra bambina, e del
desiderio di ritornare nel mio nido tranquillo... e felice!
Quel giorno mi recai al collegio in compagnia di mio zio, e, prese le
debite informazioni, venni a sapere che, mancando molti oggetti
necessarii al completo corredo dell'educanda, era costretto di
trattenermi a Milano più di quanto avrei desiderato.
Scrissi nuovamente all'Agata annunziandole l'indispensabile ritardo,
pregandola d'aver pazienza, perchè gli operai non sono sempre esatti
nella consegna dei loro lavori.
Intanto io andavo sollecitando le commissioni, mentre Veronica conduceva
la Giuseppina a spasso e a fare le spese minute.
Le ore che mi restavano libere girovagavo per la città visitando le
strade nuove, o passeggiando negli antichi quartieri per rammentarmi le
cose vecchie. Poi andavo a riposarmi sul canapè della mia cameretta, e
colà ricostruivo la passata gioventù. L'inveterata abitudine
d'affacciarmi alla finestra mi vi spingeva sovente senza pensarci;
l'affetto per l'Agata e la paura della contessa mi allontanavano, la
curiosità di contemplare sul volto della vedovella le modificazioni
prodotte dagli anni e dalle prove della vita mi veniva contrastata dal
timore di compromettermi, e mi pareva debolezza tanto il cedere quanto
il resistere, perciò i miei brevi riposi venivano paralizzati da una
continua lotta, e quei giorni passati a Milano dopo una lunga assenza,
che avrebbero dovuto formare la mia delizia, furono invece un continuo
tormento. Non volendo espormi ad un'imprudenza, cadevo in una
sguaiataggine: tutto mi faceva ombra, ogni accidente mi si presentava
come un pericolo.
Quando udivo aprire una finestra del palazzo Brisnago, io chiudeva
rapidamente le gelosie; quando vedevo un movimento dietro le invetriate,
mi ritiravo in fretta abbassando le tendine; era una pantomima continua,
che poteva dare negli occhi e suscitare sospetti.
O non sarebbe stato meglio abbandonare addirittura la finestra?...
È più facile il dire che il fare: e dice anche il proverbio che la
lingua batte dove il dente duole. Chi si propone di non rivolgere lo
sguardo ad un oggetto qualunque, si trova spinto dalla parte vietata con
irresistibile impulso. Ignoro il nome di quella forza arcana che mi
faceva roteare nello spazio, ma è positivo ch'io mi trovavo
nell'identica condizione di un pianeta che gira intorno a due stelle.
Per determinare la mia orbita bisognerebbe calcolare le forze complesse
che lottavano fra loro. Io amavo l'Agata sinceramente, essa aveva tutto
il vantaggio dell'attrazione e tutto il danno della distanza, la
contessa Savina perdeva nell'attrazione in forza della mia onestà, ma la
distanza quasi nulla che mi divideva da lei le dava un grande vantaggio.
E credo che, se l'uomo fosse costretto di subire le leggi che trascinano
gli astri, io sarei caduto come un bolide nel palazzo Brisnago.
Per buona sorte non fu così, ed anche per quella volta la profezia di
mia moglie non si è avverata; il creditore fuggiva la debitrice morosa,
la quale forse, come molti debitori, non aveva nessuna volontà di
pagare.
È però vero altresì che finchè vivono i debitori, e finchè sono
solventi, non è tolta la possibilità di riscuotere, quantunque certe
partite, che passano agli arretrati, vadano scemando di continuo il
valore.
Avendo finalmente collocata la figliuola in collegio, mi decisi di
partire immediatamente per la Valtellina, sollecitato anche da lettere
pressanti dell'Agata, che mi annunziavano un progressivo peggioramento
nella salute di suo padre.
Desideravo sinceramente rivedere mia moglie, rientrare nella mia casa,
riprendere le mie tranquille abitudini; ma devo confessare con pari
franchezza che al momento di lasciare la mia cameretta mi sentii una
spina al cuore!... O perchè?... Domandatelo a chi può conoscere a fondo
gli atomi più riposti del nostro fango!... io non comprendevo me stesso.
Qual legame poteva sussistere ancora fra me e la casa Brisnago, se io
con deliberato proposito aveva fuggito il benchè minimo rapporto,
cancellata ogni traccia del passato, spento, o supposto di spegnere,
ogni lievito che potesse minacciare il futuro?... Misteri
incomprensibili!
Mia moglie aveva dunque ragione co' suoi presagi? ed io tentavo invano
di far scomparire intieramente le traccie della gioventù; nè la probità,
nè le oneste intenzioni, nè gli affetti domestici potevano assicurarmi
la pace dell'età matura.
Quel primo amore, così esile in apparenza, resisteva a tutte le
vicissitudini della vita, come quelle sementi minute, impercettibili,
che gettate una volta sul terreno, sfidano l'inclemenza delle stagioni,
e presto o tardi germogliano.
Dunque la spada di Damocle pendeva continuamente sul mio capo, ed era
vana ogni speranza di liberarmene?...
Dunque quel bacio fatale stava sempre scritto nel libro della vita come
una partita da liquidarsi?... Io aveva rinunziato fermamente ad ogni
pretesa, io non voleva nulla... che cosa poteva restarmi nel cuore?...
c'è forse al mondo qualche cosa di più forte d'una volontà
indipendente?...
Ma!... l'antica sapienza giudicava inutili gli sforzi umani contro i
decreti del fato!...


XXIII.

Giunto al villaggio, trovai l'Agata che piangeva nella braccia di sua
madre; il mio povero suocero era agli estremi, tuttavia mi riconobbe, mi
sorrise tristamente, e con voce semispenta mi chiese nuove di
Giuseppina.
L'amor figliale davanti al letto del padre moribondo assopiva tutti gli
altri sentimenti nel cuore dell'Agata, la quale mi domandò poche cose di
Milano, che non avessero diretto rapporto con nostra figlia, e si tenne
paga delle mie risposte sommarie.
Il dottore mi avvertì che ogni speranza di salvare il signor Nicola era
perduta, l'Agata non abbandonava più la camera dell'infermo, nè il
giorno nè la notte, prodigandogli le cure più affettuose insieme alla
madre.
Una mattina egli volle ricevere i sacramenti, circondato da tutti i suoi
cari. Sono momenti solenni, che si scolpiscono indelebilmente nella
memoria.
Eravamo tutti inginocchiati intorno al suo letto, le lagrime ci
offuscavano la vista, e quando il sacerdote uscì dalla stanza, il
moribondo ci chiamò da vicino, e con voce fioca ed interrotta pronunciò
poche parole d'addio:
--Sono rassegnato...--ci disse,--quantunque mi dolga lasciarvi, per non
vedervi più sulla terra... vi ho sempre amati teneramente... ero felice
con voi.... Giovanna, perdona il mio carattere e ricordati il mio
cuore.... Daniele, ti raccomando mia moglie... e l'Agata... sii
fedele... e vogliatevi bene. Agata, tu fosti sempre la delizia della mia
vita... tu parlerai alla nostra bambina del suo povero nonno... Vivete
in famiglia uniti, e modestamente... sarete felici.... Io vi benedico
tutti... e spero di rivedervi nell'eternità....
Poco dopo entrò nell'agonia, che pareva un'estasi consolata da soavi
visioni. Sulla sera, quando l'ultimo raggio del sole illuminava il suo
pallido volto, spirò tranquillamente, come un fanciullo che
s'addormenta.
Tutto il villaggio seguì la bara che trasportava al cimitero le spoglie
mortali del buon padre di famiglia. Alcuni devoti cantavano le preci dei
morti con aria distratta, ma il mio caro Bitto seguiva il corteo in
attitudine di profonda tristezza.
Il testamento nominava l'Agata erede di tutta la sostanza, assicurava
alla vedova una rendita vitalizia, destinava a me l'orologio del defunto
in ricordo, e fissava alcuni piccoli legati a parenti lontani e ai
domestici.
L'eredità risultò superiore di molto a quello che lasciavano supporre i
semplici costumi conservati da mio suocero nella famiglia. Eravamo
ricchi, e siccome l'amministrazione della sostanza richiedeva le assidue
mie cure, rinunziai alla scuola, e appigionato il casino al maestro mio
successore, fissammo la nostra dimora in casa Bruni, insieme colla
vedova.
Se fui arcicontento di sbarazzarmi delle noie scolastiche, lasciai
invece con rammarico la casa che parlava al mio cuore con dolci memorie.
Mia moglie raccomandò caldamente le piante al nuovo maestro, e sofferse
al pari di me nell'abbandonare il piccolo nido.
Gli affari attirarono tutta la mia attenzione, e la nostra vita prese un
andare tranquillo ed uniforme come la superficie d'un lago in bonaccia.
Le lettere dello zio e della Giuseppina ci annunziavano la buona salute
d'entrambi, e ci assicuravano dei progressi di nostra figlia.
Ogni anno facevamo una gita a Milano per visitare la nostra bambina; ma
la corsa era così rapida e piena d'occupazioni, che non mi lasciava il
tempo d'arrestarmi davanti le finestre del palazzo Brisnago... cosicchè
il bacio della contessa Savina restava sempre iscritto a suo debito
senza ch'io pensassi più a reclamarlo.
Intanto gli anni passavano, e quantunque il cuore si conservasse sempre
giovane, tuttavia i capelli bianchi che spuntavano, e le rughe che mi
solcavano la fronte, sembravano un buon antidoto contro la gelosia:
infatti mia moglie aveva deposti i sospetti, e non mi parlava più della
mia contessa.
Dico deposti, non spenti, chè guai se, prevedendo il futuro, taluno le
avesse detto:--Verrà un giorno nel quale il debito contratto alla
finestra del palazzo Brisnago sarà pareggiato... il bacio verrà
restituito a vostro marito dalla contessa Savina!--Guai!... Guai!...
Eppure doveva essere così.... Ma chi può prevedere il futuro?!
L'educazione di nostra figlia era finita, e stavamo facendo i
preparativi per recarci a Milano a levarla dal collegio, quando una
lettera pressante venne a precipitare il nostro viaggio. Eravamo
minacciati da una nuova disgrazia. Il nostro medico di Milano mi
scriveva che mio zio era stato colpito da un accidente apoplettico, e
che lasciava poche speranze. Giunti ad una certa età, siamo sorpresi
sovente da così dolorose notizie. È la generazione antecedente che cade
negli abissi dell'eternità e ci scopre le sponde del precipizio.
Invitati a raccogliere gli estremi aneliti dei nostri cari, i battelli a
vapore e le ferrovie ci sembrano lenti, e pur troppo noi siamo giunti a
Milano troppo tardi. Al nostro arrivo la Veronica ci accolse
singhiozzando, col triste annunzio della morte del povero zio.
Interrotta dalle lagrime, essa ci faceva l'elogio del suo padrone, e
conchiudeva dicendomi:
--È morto esattamente, come ha vissuto, avendo chiusi gli occhi al sonno
eterno all'ora precisa che li chiudeva ogni sera per dormire una
notte!...
Il capitolo della cattedrale l'onorò di solenni funerali ed io gli feci
collocare sulla tomba una lapide che ricorda il suo nome e le sue virtù;
ma non potevo consolarmi di non esser giunto in tempo di chiudere gli
occhi al mio benefattore, del quale conserverò fin che vivo la più grata
ed affettuosa memoria.
Nominato erede universale, col solo obbligo d'una pensione vitalizia
alla Veronica, anche questa volta mi sono trovato più ricco di quanto
poteva supporre. Il buon vecchio metteva a mutuo i suoi risparmi a
benefizio del nipote, e ne aveva raccolto un bel gruzzolo.
Il denaro capita quasi sempre quando non se ne ha bisogno. In gioventù,
col cervello pieno di sogni e col cuore riboccante di desiderii, io
avevo le tasche vuote. Quando l'età matura venne a consigliarmi la
sobrietà in ogni cosa, mi son trovato a nuotare nell'abbondanza. È una
delle tante ironie della vita!
Dopo la morte del povero zio avendo fatta uscire di collegio la
Giuseppina, ci siamo decisi di passare l'inverno a Milano per regolare i
diversi interessi della successione. Mia suocera si rassegnò ad
attenderci in Valtellina, avendo potuto ottenere che una lontana parente
andasse a tenerle compagnia durante la nostra assenza.
La Veronica, quantunque potesse vivere indipendente colla sua pensione,
desiderò rimanere con noi, e così ci siamo accomodati nella casa
ereditata, mia moglie ed io nella stanza dello zio, e nostra figlia
nella mia cameretta di studente.
La natura aveva prodigato i suoi doni alla nostra ragazza; ell'era
leggiadra di forme, e vispa come uno spiritello. Aveva i capelli biondi,
gli occhi azzurri, e la candida pelle di sua madre, ma il tipo s'era
perfezionato e raddolcito, presentando i lineamenti d'un antico cameo.
In quanto ai doni morali, mostrava molta intelligenza, e l'umore un po'
bizzarro e gioviale del babbo, con qualche reminiscenza degli impeti del
nonno.
Le modiste e le sarte di Milano, con arte elegante, ne avevano fatto
spiccare le grazie native della persona, mettendo in rilievo le forme
agili e snelle. Il bruno delle vesti dava gran risalto alla delicatezza
del volto ed una certa gravità all'aspetto giovanile.
Dovunque si andasse, il suo passaggio attirava la simpatia e
l'ammirazione, e l'Agata ed io ne andavamo superbi.
Abbiamo passato l'inverno mestamente, occupandoci degli affari,
visitando i monumenti della città, e facendo lunghe passeggiate. Il
vuoto lasciato nella casa dalla morte del povero zio mi aveva prodotto
una profonda tristezza, e fatto dimenticare intieramente la contessa
Savina. Mia moglie, partecipando al mio lutto, aveva abbandonato le
ubbie sospettose, e fidente nella mia onestà, mi lasciava tranquillo.
Tutti gli affetti s'erano concentrati sull'unica figlia, che colla sua
vivacità giovanile leniva le nostre afflizioni. Avevamo adottato delle
usanze urbane regolari e casalinghe, ma quando gli aliti primaverili ci
apportarono gli effluvi delle prime violette, ci si ridestò il desiderio
dei monti. Oramai io era avvezzo da tanti anni a respirare l'aria libera
della campagna, che a lungo andare i muri della città mi opprimevano:
poi le memorie, le abitudini, gli affari ci creano bisogni ai quali non
è facile sottrarsi.
Mia moglie assai più di me anelava al ritorno, desiderosa di
riabbracciare la vecchia madre che ci aspettava ansiosamente, di
rivedere i fiori, gli alberi e gli animali che reclamavano le sue cure,
e di rimettersi alle occupazioni domestiche, alle quali doveva iniziare
la figlia. Aggiungasi che, sbrigati gli affari pressanti, s'incominciava
a sentire la noia della vita disoccupata, che ci spingeva al ritorno; ma
la Giuseppina ci tirava in lungo con sempre nuovi progetti. Un giorno
voleva ritornare alle gallerie di Brera, un'altra volta desiderava
rivedere il Museo, o risalire sul Duomo o rivisitare qualche chiesa, o
passeggiare in piazza Castello fino all'Arco della Pace, o fare il giro
dei bastioni.
Il nostro affetto ci portava alle concessioni, eravamo felici di
sacrificarci per contentarla e si diventava schiavi de' suoi capricci.
Talvolta, sorpreso da domande di nuove dilazioni, le chiedevo con
impazienza:
--Come mai non desideri ancora di rivedere il tuo paese?... e la buona
nonna che ti aspetta con tanta impazienza per stringerti finalmente al
seno?...
--Anzi, lo desidero moltissimo,--mi rispondeva,--ma abbiamo tempo... la
vita è così lunga!...
--Ma chi ti ha detto che la vita è lunga?
--Lo sento io... il tempo non passa mai!... a te dunque non parvero
lunghi i sei anni che ho passati in collegio?... a me sembrarono
eterni!... chiusa in prigione... e lontana da voi!...
--Ma ora che sei libera, che hai veduto tre o quattro volte tutti i
monumenti, i giardini, i passeggi, i corsi di Milano, non sei ancora
sazia di questa vita scucita, scioperata, monotona?
--Io la trovo deliziosa!... non mi stancherei mai di Milano, sento che
ho del sangue milanese nelle vene... questo movimento continuo, questa
vita romorosa e svariata mi occupa immensamente. Ogni giorno si vedono
novità interessanti, le industrie fanno un'esposizione perenne dei loro
prodotti, le vie sono popolose, allegre, la musica echeggia da ogni
parte, tutto si muove, sorride, cammina, svolazza; qui si sente di far
parte d'una società intelligente, elegante, vivace.
--Ma bisogna pure una volta o l'altra rassegnarsi a partire.
--Pur troppo!...--conchiudeva con un sospiro, e alzando gli occhi al
cielo. Poi mi supplicava con tanta grazia di concederle ancora qualche
giorno, che non era possibile resistere. Sua madre, che era la prima
vittima di tale sacrifizio, diventava il suo avvocato patrocinante, ed
io cedeva, sempre rassegnato ad aspettare senza limiti.
Non sapevo però spiegarmi tanta renitenza al ritorno, quando una
catastrofe impreveduta venne a sciogliermi l'enigma.
Un giorno ch'io ero uscito solo di casa, rientravo col naso in aria,
guardando sbadatamente la nota finestra del palazzo Brisnago, quando--oh
meraviglia!... vedo un mazzetto di fiori che vola attraverso la strada,
e partendo dal palazzo va a cadere sulla finestra della mia antica
cameretta.
Sbigottito, commosso, confuso, mille pensieri mi assalgono, e mi par di
sognare. Dopo tanti anni!... il mio mazzetto ritorna indietro!... che
cosa significa questo mistero?... Mi agito, mi scuoto, mi decido a voler
vedere che cosa succede, mi colloco in posizione opportuna per osservare
nella stanza del palazzo... e vedo con sorpresa il figlio della contessa
Savina, il conte Saverio di Montegaldo, il giudice conciliatore, che
gettava baci alla mia finestra, e li gettava con tale entusiasmo, che
pareva diventato cieco e insensibile a quanto lo circondava.
Balzo rapidamente dalla parte opposta, e vedo mia figlia che, tenendo in
mano il mazzetto di fiori, lo copriva di baci, e poi li soffiava
dall'altra parte!...
Gli occhi mi si offuscarono, le gambe mi traballarono come se dovesse
mancarmi il terreno sotto ai piedi, dovetti appoggiarmi al muro per non
cadere. Il mondo mi pareva trasformato, capovolto. Una volta... ai miei
tempi... la contessa era fuggita... adesso mia figlia rimane... e
ricambia i baci... ah civettuola!... non c'è dunque più ritenutezza, nè
pudore, nè modestia... nemmeno nelle fanciulle!... ed io pensavo alla
mia timidità giovanile... alle mie esitazioni!... È vero che io non ero
stato educato in un collegio femminile... ma tuttavia!... o poveri
genitori!...
Mi feci coraggio, rientrai, salii rapidamente le scale, e senza chiedere
ove fosse mia moglie, corsi difilato verso la mia antica cameretta, e
spalancata la porta con un calcio, comparvi improvvisamente davanti a
mia figlia.
Allo strepito della mia entrata il conte sparì, Giuseppina diede un
guizzo, ed esclamò:
--Oh Dio!... papà... mi hai fatto paura!...
Era pallida, ed appoggiandosi una mano sul cuore, con l'altra sosteneva
impassibilmente il suo mazzolino.
La fissai per qualche istante in silenzio, chiusi la porta, indi
proruppi con accento severo reso più grave dalla situazione:
--Giuseppina!... so tutto!...
--Che cosa sai, papà?...--mi rispose tranquillamente.
--O come?... Osi ancora mostrarti indifferente alla desolazione di tuo
padre?... dopo esserti lasciata sedurre dalle moine del conte di
Montegaldo?...
--Allora vedo che non sai proprio niente!...--mi rispose con
imperturbabile calma.
--Come!... oseresti ancora negare?
--Sicuro!... devo negare ciò che non è... non è il conte Saverio che mi
ha sedotta... sono io che ho sedotto lui!...
Tale risposta mi parve d'un cinismo così rivoltante... che mi venne la
tentazione di darle uno schiaffo... e feci due passi avanti col volto
tanto sconvolto, che essa ne ebbe paura e fece due passi indietro.
Allora procurai di moderarmi, chiusi anche le invetriate, tirai le
tendine, e sentendo che le forze mi venivano meno, mi gettai sopra una
sedia, mi tersi il sudore dalla fronte, e le dissi:
--La vostra impudenza richiede una spiegazione....
Ed essa di rimando:
--Ecco la spiegazione: i primi giorni che abitai questa cameretta mi
alzavo per tempo, come è mio costume, e mi mettevo a ricamare al
balcone. Il conte Saverio veniva a fumare il suo sigaro alla finestra
dirimpetto e mi salutava cortesemente....
--Egli ti salutava?... e tu?
--Ed io naturalmente rispondevo al saluto....
--Ma dunque in collegio non ti hanno insegnato che una ragazza onesta
non deve rispondere al saluto d'un uomo che non conosce?...
--Me l'hanno insegnato benissimo... come mi hanno anche insegnato che
non è creanza non rispondere al saluto di chi si conosce. Ed io che
conosco il conte Saverio....
--Come?... tu conosci il conte Saverio?
--Eh eh!... lo conosco, non solo, ma siamo vecchi amici!
--Amici da quanto tempo?
--Da sei anni; cioè dall'epoca che siamo venuti a Milano, quando mi hai
condotto in collegio.
--Allora tu eri una fanciulla di dieci anni, ed egli ne poteva aver
dodici... e come avete fatto a conoscervi?
--La Veronica, vedendo che io ammiravo dalla finestra gli alberi e i
fiori, promise di condurmi a vedere il giardino Brisnago, a condizione
che tenessi la cosa in segreto, perchè altrimenti sarebbe stata sgridata
da Monsignore, che non voleva aver relazione con quei signori. Io giurai
di star zitta, e tenni la mia parola fino a questo momento!... Quando tu
e il povero zio canonico eravate andati pei fatti vostri, Veronica
scendeva a far conversazione col portinaio che era suo amico, e mi
faceva entrare in giardino.
Io non la vedevo più per un pezzo, mi diceva che andava a far la spesa,
e veniva a prendermi più tardi.
Colà conobbi Saverio, egli mi fece gli onori di casa guidandomi intorno
a quelle belle piante, poi mi propose di saltare la corda e di giocare a
gatta cieca, e così ci siamo divertiti più volte.
Un giorno me ne tornavo a casa colla Veronica, mentre rientrava la
contessa Savina. La Veronica volle ch'io baciassi la mano alla signora
quando discese dalla carrozza. Avendo udito chi fossi, mi diede un bacio
e mi accarezzò lungamente i capelli, guardandomi con bontà, e facendo il
mio elogio. Mi fu subito molto simpatica, e la rividi sempre con piacere
in collegio quando veniva con suo figlio a visitare una mia compagna
loro parente. Portava sempre dei bomboni anche per me, dicendo: povera
ragazzina che ha i genitori lontani!... E la contessa mi dava dei
baci!... Ma che cosa hai, papà, che ti vengono gli occhi rossi?..
--Io?... t'inganni, non ho altro che il dolore di scoprire tanti
intrighi, che finiscono con un altro amore impossibile!...
--Impossibile!... e perchè?... se ci amiamo, l'amore non è
impossibile!... infatti....
--Infatti come è finita?...
--Ma!... devo ripeterlo... è finita che l'ho sedotto!...
--Ma come diamine l'hai sedotto?
--Oh bella!... non sai come si seduce?... Stando seduta al lavoro. Egli
mi guardava lungamente... io fingevo di non vederlo, e lo facevo
aspettare un bel pezzo... poi alzavo la testa con aria indifferente e
gli davo un'occhiata. Poi le occhiate divennero più frequenti... e più
lunghe....
--Tutte compagne!...--dissi fra me, ed essa continuò:
--Finalmente un giorno mi disse ch'io l'avevo sedotto!...
--Ma che!... vi parlate dunque attraverso la strada?...
--Oh!... come puoi credere ad un simile scandalo?...
--Ma dunque?...
--Diavolo!... ci scriviamo.
--Come?... avete anche l'audacia di scrivervi?
--L'audacia!... perchè l'audacia?... A che cosa servirebbe l'aver
imparato a scrivere, se non fosse per esprimere i propri pensieri?... a
che cosa servirebbe la posta, se non fosse incaricata di trasportare i
segreti di chi non è in caso di parlarsi?...
--Ma ricevi le sue lettere per la posta?
--È il mezzo più sicuro... e più economico.
--Ma tua madre non legge le tue lettere?
--Vuoi che mi faccia un simile oltraggio!... non siamo più ai tempi
dell'inquisizione... la mamma mi domanda chi mi scrive... io nomino una
compagna di collegio, che mi scrive realmente... accompagnandomi, per
favore, le lettere di Saverio.
--Una volta non si osava tanto!... i tempi sono cambiati.
--Sono cambiati in bene, lo sai!... lo dicono tutti!...
--Ma non ti è mai venuta l'idea che la tua condotta fosse censurabile?
--Altro che!... m'è venuta sovente questa idea....
--E dunque?
--E dunque ho pensato di attendere i consigli dal tempo, per scegliere
con maturità e con sicurezza il partito da prendersi.
--E non sarebbe stato meglio, prima di abbandonarti a simili avventure,
di pensarci sopra, e di consultare tua madre?...
--È vero... è verissimo... ti assicuro che queste cose me le sono
ripetuta le cento volte... ma che vuoi?... quella maledetta finestra...
io non so che cosa abbia... c'è un'attrattiva fatale... irresistibile
che mi trascinava al suo davanzale, che mi obbligava a girar la testa...
e allora vedevo Saverio dall'altra parte... e tutte le ragioni
svaporavano!...
--È una vera fatalità!...--io esclamai abbassando il capo, e meditai
lungamente questo pensiero.
Si dice che Napoleone I, avendo saputo che ogni notte una sentinella si
suicidava nella stessa garetta, l'abbia fatta abbruciare, e non si
ebbero più a deplorare suicidii in quel posto. Ci sono ancora tanti
misteri inesplicabili nella vita!... Se dopo la mia partenza mio zio
avesse fatto murare il balcone della mia camera, mia figlia, molti anni
dopo, non sarebbe rimasta vittima della stessa malìa....
Sentii compassione di lei, e le dissi:
--Se non fossi tuo padre, potrei burlarmi della tua leggerezza e riderti
in faccia!... figlia d'un povero maestro, tu aspiravi dunque a diventare
contessa?... vergognati del tuo orgoglio, e rassegnati al destino che ti
condanna a non guardar tanto in alto!... Procura d'aver coraggio... e
rinunzia a questa prima affezione!...
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