Il bacio della contessa Savina - 01

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IL BACIO
DELLA
CONTESSA SAVINA

ROMANZO

DI
ANTONIO CACCIANIGA
Quarta Edizione


MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1888.

PROPRIETÀ LETTERARIA
Tip. Fratelli Treves.


IL BACIO DELLA CONTESSA SAVINA


I.

Il romanzo della mia vita incomincia quando io avea diciott'anni, e
passavo gran parte del giorno al balcone, in casa di mio zio canonico.
Allora la contessa Savina di Brisnago aveva sedici anni, e ricamava,
seduta presso al balcone dirimpetto del mio. Era una bella giovanetta,
aveva un profilo dolcissimo, un nasino provocante, una bocca soave,
capelli neri rilevati sulla fronte, occhi bruni, divini. Mi pareva un
angelo sceso dal cielo, tanto i suoi movimenti erano leggiadri e
maestosi. Io non mi saziava mai di contemplarla, ella di tratto in
tratto alzava la testa dal lavoro, si passava una mano sulla fronte, si
lisciava i capelli, poi con aria distratta guardava il cielo, le case di
fronte e le tendine della finestra. Il suo sguardo percorrendo questa
linea attraversava naturalmente il mio balcone, e quantunque passasse
come un lampo, pure mi gettava lo scompiglio nell'animo. Non saprei
spiegare l'arcana attrattiva, che come un filo invisibile mi legava a
quella fanciulla, tenendomi immobile per delle ore.
Veronica, entrando nella mia stanza come una valanga, rompeva sovente
quel fascino annunziandomi il pranzo. Allora io scendeva e andava a
collocarmi a mensa dirimpetto dello zio, che mangiava con grande
appetito, mentre io inghiottiva ogni cibo con ripugnanza. Egli mi
interrogava sui miei studi, mi parlava di pedagogia, di metodica,
d'aritmetica; io rispondeva sbadatamente, pensando a quella finestra.
Finito il pranzo, mio zio si ritirava a fare il suo chilo, ed io
ritornava alle mie estatiche contemplazioni. In casa Brisnago pranzavano
molto più tardi di noi, e talvolta prima del pranzo andavano a fare un
giro pel corso. Allora ella si alzava da sedere, dava un'occhiata fuori
della finestra, guardava alla sfuggita la nostra casa, ed io sentiva il
dardo fatale entrarmi nel cuore e lacerarlo. Essa scompariva, e qualche
tempo dopo lo scalpito dei cavalli e il rumore della carrozza mi
avvertivano della partenza.
Allora io prendeva il mio cappello, e me ne andava girovagando per le
vie di Milano sulle traccie della mia stella. La trovavo quasi sempre
sui bastioni, i nostri sguardi si scontravano rapidamente ed io rimaneva
come sbalordito a contemplare quel cocchio che correva portando con sè
qualche cosa di me stesso; tanto è vero che imbattendomi per via in
taluno de' miei amici che si arrestava a parlarmi, io faceva la figura
di un imbecille, e mi restava appena appena tanta intelligenza da
accorgermene.
Mio zio canonico non s'avvedeva di nulla; rinchiuso nella sua sfera
d'azione, egli compieva le sue evoluzioni quotidiane con esattezza
inappuntabile. La messa e la colazione, le sacre funzioni ed il pranzo,
il breviario e il passeggio, il chilo ed il sonno si succedevano per lui
con tale regolarità, che i nostri vicini se ne servivano per regolare
gli orologi, e dicevano:--il canonico Carletti va a dir messa: sono le
otto; il canonico va a cantar vespro: sono le due. La nostra vita
rassomigliava perfettamente ad un cronometro; Veronica era la seconda
ruota, come io era lo scapamento che riceve l'impulso, e tutto si
muoveva per addentellato del motore principale, ossia del padrone di
casa.
Mio zio metteva la felicità nella precisione dei movimenti, e ciò
appunto formava la mia desolazione, sentendo il bisogno di muovermi
secondo i variabili impulsi della mia natura. Ma bisognava rassegnarsi a
trascinare la catena che mi veniva imposta dal mio benefattore, perchè
io non era che un povero orfano. Privo delle carezze dei genitori, in
tenera età, mio zio ricoverandomi in casa sua mi salvava dalla miseria;
io non aveva ereditato che una piccola medaglia di bronzo che mia madre
teneva al collo per divozione, e che dopo la sua morte venne appesa al
mio letto, come talismano dell'infanzia. La mia sommessione era dunque
un dovere e in pari tempo una necessità, che per mezzo dell'educazione
mi apparecchiava l'indipendenza per l'avvenire.
Ma io mi risarciva della schiavitù personale colla libertà dello
spirito. Sdraiato sul canapè della mia cameretta accendeva uno sigaro e
mi metteva in viaggio. La mia fantasia usciva dalla finestra sulle spire
del fumo, e volava per l'ampio orizzonte con la rapidità del pensiero.
Se potessi rammentarmi quelle peregrinazioni meravigliose, scriverei un
bel volume. Mio zio mi destinava all'istruzione, io accettava il suo
piano come un mezzo d'emanciparmi, ma mi pareva di sentire in me stesso
una voce che mi chiamasse a più alti destini. Quel sentimento d'amore
che mi agitava l'anima aveva acceso nella mia mente una scintilla che mi
svelava un nuovo mondo; i miei pensieri si elevavano ad un'altezza
sublime che, rivelata con l'arte, avrebbe destato la meraviglia
universale. L'amore mi additava il cammino della gloria e della fortuna.
Avevo incominciato una tragedia, il _Lucchino Visconti_, ove tentava
rivelare gli arcani d'un'anima innamorata e mi pareva che la comparsa
del mio lavoro avrebbe introdotto una riforma radicale del teatro
italiano. E mi sembrava già di vedere il pubblico, esaltato
dall'entusiasmo, portarmi a casa in trionfo.
All'indomani dovevano naturalmente piovermi addosso gl'inviti, le
onorificenze e il denaro; ad ogni produzione l'oro invadeva il mio
scrittoio. Una nuova poesia era comparsa alla luce col corteggio della
ricchezza; il poeta tradizionale lacero, tapino e ridicolo cedeva il
passo al principe delle lettere, del quale tutti ambivano i favori. Egli
dava vita alle sue stupende creazioni in una splendida dimora, fra i
bronzi, i marmi, le pitture, e il lusso d'un palazzo incantato.
Con tali presagi nell'animo mi affacciavo alla finestra; gli occhi della
mia musa si alzavano, e un fluido celeste mi avvolgeva, come in un nimbo
di gloria. Niente mi pareva impossibile nella vita: io sentiva una
fiamma che mi rendea onnipotente.
Un giorno fra gli altri me ne stavo assorto in una di queste estasi
eteree, quando la Veronica entrò nella stanza.
--Daniele,--essa mi disse,--avete pensato che s'avvicina l'inverno, che
il freddo incalza, che avete il pastrano sdruscito, gli stivali
sgualciti, i calzoni rattoppati?
--Veronica,--io risposi gravemente, battendomi sul petto,--io tengo qua
dentro dei tesori che possono procurarmi tutti gli agi della vita....
Essa mi guardava con tanto d'occhi spalancati credendo che alludessi al
mio portafogli, poi mi domandò ansiosamente:
--Avete dunque molto denaro in saccoccia?
--Io?... non ho che cinquanta centesimi....
--Ma dunque di che tesori mi parlate?
--Vi parlo dei sentimenti del cuore che ispirano la mia mente... e la
rendono capace di produrre quelle opere che attirano l'ammirazione degli
uomini, e arricchiscono gli autori. Sono sicuro dell'avvenire!
--Tanto meglio.... ma l'avvenire è in mano di Dio.... invece i vostri
vestiti li tengo nelle mie mani ogni giorno, ne conosco tutti i sdruciti
e le mende, e vedo la necessità che il sartore ve ne faccia di nuovi.
Monsignore vi vuol bene, ma i canonici non possono conoscere tutti i
bisogni della gioventù. Tocca a voi domandare quanto vi manca.... Su
via, volete che gliene parli io?...
--Cara Veronica.... come siete buona!... avete sostituita mia madre
sulla terra.... che il cielo vi benedica mille volte.
E pensando alla mia miseria e all'ottimo cuore di quella donna, io
piangeva come un fanciullo. Allora essa mi calmava chiamandomi matto,
smemorato, fantastico, epiteti coi quali soleva generalmente esprimermi
la sua affezione. Poi correva ad enumerare i miei bisogni allo zio, ed
il buon vecchio mi apriva la borsa. Io mi limitava al necessario ed
egli, dopo pagate le spese, si lodava della mia discrezione e modestia.
Così, io passava la vita tranquilla alla superficie, burrascosa nel
fondo. Quell'inverno mi fuggì rapidamente; meno qualche ora di scuola e
di passeggio, io viveva in casa, ritirato nella mia cameretta, ma col
cervello sempre in viaggio. Una finestra e dei libri mi davano maggiori
occupazioni, gioie, ansie, affanni, peripezie che non ne provassero i
viaggiatori più arditi che investigavano le sorgenti del Nilo o
l'interno dell'Africa. Difatti la prospettiva di quella finestra ove
stava seduta la contessa Savina corrispondeva per me ai più stupendi
panorami del globo, e la mia fantasia percorreva le ridenti regioni dei
sogni, più vaghi di qualunque altro paese. E se i viaggiatori avevano a
temere i selvaggi e le fiere, io pure aveva da paventare i potenti
rivali che circondavano il mio idolo. Essa frequentava le conversazioni,
i balli, i teatri, ed io non poteva seguirla che col pensiero; e
l'accesa immaginazione la vedeva corteggiata da giovinotti suoi pari nei
salotti eleganti, nel palchetto del teatro, o trasportata nelle loro
braccia nei vortici delle danze, fra i doppieri ardenti, il profumo dei
fiori, e l'ebbrezza d'una musica affascinante.
Quando alla sera io udiva dalla mia cameretta il rumore della carrozza
che la conduceva ai piaceri del mondo, mi sentiva il raccapriccio come
un uomo assalito dalla febbre. Quante notti insonni ho passate a
raggirarmi nel letto, quanti strani progetti ho concepiti colla fantasia
malata, rammentandomi il pugnale d'Otello, e di tutti gli amanti che
vendicarono gli oltraggi ricevuti dalle donne adorate! La sola
diversione, l'unico conforto dei miei affanni era lo studio assiduo ed
intenso.
La libreria dello zio non mi forniva che i classici, ma un professore
che mi voleva bene mi somministrava un'ampia messe di produzioni
moderne. Io mi perdeva nelle meditazioni, e passava le lunghe sere del
verno avvolto in un vecchio tabarro del Canonico, a leggere ed annotare
i più celebrati lavori dello spirito umano: e quando la divina
fanciulla, reduce dalle feste del gran mondo, dopo la mezzanotte, saliva
alla sua stanza signorile nel palazzo Brisnago, essa poteva vedere il
pallido lumicino dello studente che vegliava agghiacciato, per
arricchire la mente di quelle cognizioni che innalzano l'uomo sapiente
al disopra dei nobili, dei ricchi e degli eletti della fortuna.
Mi coricavo assai tardi affranto dalla fatica, intirizzito dal freddo,
oppresso da pensieri dolorosi e da atroci sospetti, ma all'indomani uno
sguardo di quegli occhi rasserenava il mio spirito, e scacciava le ombre
dei cupi pensieri, come il sole che sorge scaccia le tenebre e ridona
alla terra lo splendore e la vita.
Tuttavia un dubbio funesto veniva sovente nella solitudine a colpirmi
con dolorosi tormenti. Quella fanciulla che con uno sguardo accendeva
nel mio cuore una fiamma celeste, che esaltava il mio spirito con
ispirazioni sublimi, che mi parlava con l'arcano linguaggio degli occhi,
sentiva essa all'unisono colla mia anima, riceveva essa da me le stesse
impressioni?... O m'ingannavo nel tradurre il sanscrito del cuore e i
geroglifici della passione?... Tale sospetto mi gettava nello sgomento,
e mutava i rosei sogni della mia fantasia negli abissi della più cupa
disperazione. Allora attendeva ansiosamente la ricomparsa di lei, per
rileggere con raddoppiata attenzione in quegli occhi misteriosi, eppur
tanto fatali. E immobile al balcone contava le ore che passavano
lentamente, fino a che un lieve agitarsi di seriche tende annunziava la
presenza della mia sfinge!
Oh Dio, quali momenti!... Essa guardava altrove, arrestava il suo
sguardo sulla via, il mio cuore batteva tanto forte da rompermi il
petto, se non lo avessi compresso colla mano, il dubbio terribile stava
per diventare certezza, mi sentivo venir meno, e se fosse partita senza
alzare lo sguardo, forse mi avrebbero trovato morto al mio posto. Ma
essa volgeva la testa tranquillamente a diritta ed a manca, e a poco a
poco mi passava davanti col suo sguardo profondo, rapido ma penetrante,
che m'immergeva in un'estasi di amore e di delizie. Ah sì!... quello
sguardo era una espressione viva e sincera dell'anima, un'espressione
che non aveva parole corrispondenti nell'umano linguaggio, era assai più
soave d'un profumo, più armonioso d'una melodia, era un fluido supremo
che m'invadeva, indefinito, indefinibile, sottile, impalpabile, ma
positivo come la luce e l'elettrico.
Quello sguardo mi rassicurava pienamente con effetto istantaneo, ma poi
a poco a poco, a cagione di nuove reazioni, quella persuasione scemava
colle ore che passavano, col sole che tramontava, col buio della notte
che mette in dubbio ogni cosa. All'indomani nuova prova e nuovo trionfo,
indi nuove lotte fra la speranza e la ragione, fra la fede ed il dubbio.
Tali burrasche mi condussero alla primavera. Alla primavera ogni semente
germoglia, sboccia ogni gemma, ogni pianta fiorisce, ogni cuore si
espande. Una corrente invisibile attraversa la vita, l'agita, la
suscita, la rinnova. Io mi sentiva scorrere il sangue per le vene con
ardore inusitato. Le lotte interne del mio animo indicavano il bisogno
d'una prova decisiva. Ma quale prova? un abboccamento era impossibile,
un viglietto era pericoloso. Il ridicolo, la volgarità m'incutevano una
ripugnanza insormontabile. Il mutuo linguaggio degli occhi esigeva una
spiegazione discreta, corrispondente al mistero usato fino allora, senza
imprudenze, nè audacie le quali rompessero la catena che legava
segretamente due anime in celeste armonia.
Ma una prova io la sentiva necessaria, inevitabile. Da essa doveva
dipendere l'avvenire, cioè la vita o la morte.
Pensai per molti giorni al modo più opportuno, e lo fissai d'accordo ai
miei sogni orientali. Il linguaggio dei fiori m'offriva un mezzo analogo
a quello degli occhi, ma più positivo e sicuro per interrogare
l'oracolo. Io vedeva ogni giorno che la contessa Savina passeggiava per
qualche istante nel giardino che fiancheggiava il suo palazzo e la
strada. Mi decisi di procurarmi alcuni fiori, di farne un mazzetto, e di
gettarlo ai suoi piedi, attendendo la mia sorte dal suo contegno. Se non
mi amava, sarebbe passata oltre con disprezzo, e forse con isdegno, se
mi amava avrebbe raccolto i miei fiori. Con tale determinazione mi recai
da un giardiniere ed acquistai delle violette mammole e dell'eliotropio.
Il mazzetto voleva dire:--_modestia, vi amo con ebbrezza_. Avrebbe essa
inteso o indovinato il mio pensiero? era dubbio; ma in ogni caso i miei
fiori avevano un significato evidente, e ciò bastava per darmi la prova
del suo aggradimento o del suo disprezzo.
Me ne tornavo a casa deciso di tentare la sorte, quando la Veronica mi
venne incontro sulle scale annunziandomi che mio zio s'era messo a letto
colla febbre. Deposi il mazzolino di fiori nella mia stanza, e corsi pel
medico che condussi subito dal malato.
Il dottore lo conosceva da molti anni, lo esaminò attentamente, e
toccandogli il polso lo interrogò. Mio zio accusava una prostrazione di
forze generale, e molte sofferenze nervose.
--Monsignore ha forse ottemperato con troppo rigore ai digiuni
quaresimali?
Veronica dietro le tendine del letto dimenava la testa in segno
negativo.
Mio zio rispose che non potendo alterare le sue abitudini senza danno
della salute, s'era sempre cibato col solito sistema.
--Ma pure,--insinuava il dottore,--deve essere avvenuta qualche
infrazione al metodo regolare di vita.
--Sicuro,--rispose Veronica,--dopo cambiato l'orario del coro,
Monsignore non è stato più bene.
--È verissimo,--soggiunse il malato, trovandosi cambiata l'ora del
vespro, ho dovuto alterare di conformità l'ora della messa, della
colazione, del passeggio e del pranzo. Il ritardo del vespero ha
perturbato l'ordine della mia vita e delle mie funzioni.
--Ecco, ecco,--soggiunse il medico,--ecco scoperta la causa. Ripareremo
facilmente allo sconcerto, ma bisogna assolutamente che Monsignore si
decida a modificare il suo sistema di vita. Non va bene rendersi troppo
schiavi delle proprie abitudini, perchè ad ogni fortuita alterazione
s'arrischia di cadere malati. Monsignore ha bisogno d'esercizio
all'aperto, all'aria ossigenata dei monti.
Scrisse la ricetta, poi continuò:
--Mi pare che Monsignore posseda un poderetto in Valtellina?
--Oh,--rispose mio zio,--una casetta e pochi campi.
--Benissimo. Nella prossima estate bisogna visitare la casetta e andare
ai bagni di Bormio.
--Sono tanti anni che non mi muovo da Milano....
--E appunto per questo bisogna rompere le abitudini troppo regolari, per
ristabilire le forze. Monsignore non è vecchio, ma la vita sedentaria
rende flosci, e ci apparecchia una vecchiaia precoce e piena di
sofferenze. Monsignore vada ogni anno a prendere i bagni, si muova,
respiri l'aria pura dei monti....
--Vedremo, vedremo,--rispondeva mio zio.
Il dottore avendo date le sue istruzioni alla Veronica, raccomandò al
malato la quiete, e partì, ma le sue idee avevano sconvolto la casa. Mio
zio al solo pensiero d'un viaggio provò una recrudescenza di tutte le
sue sofferenze, ed alla sera si sentì raddoppiata la febbre.
La Veronica non poteva darsene pace:
--Benedetti dottori!--esclamava,--essi trovano tutto facile, ordinano
colla stessa indifferenza un decotto di camomilla e l'amputazione d'una
gamba. Bisogna non conoscere il padrone per imporgli un viaggio in
Valtellina. Misericordia!...
Basti il dire che riceve le visite di riguardo tenendo l'occhio fisso
sul pendolo, e quando la lancetta dei minuti indica il momento preciso
destinato ad altre occupazioni, si alza, con un pretesto rompe il
colloquio più interessante, ed obbliga i visitatori ad andarsene.
Un giorno mi raccontò che avendo incontrato l'Arcivescovo, e questi
avendolo invitato a seguirlo per intrattenerlo d'un affare importante,
sul più bello del discorso lo abbandonò in mezzo alla strada con una
scusa, avendo udito suonare l'ora del pranzo.
Se trova sul piatto il tovagliuolo piegato in bislungo invece che in
quadro, tale disordine gli fa perdere l'appetito. Se alla sera quando va
a letto vede la boccia dell'acqua davanti i fiammiferi, mi fa una scena
del diavolo enumerando tutti gli inconvenienti ai quali lo espongo, caso
mai avesse bisogno di accendere il lume nella notte. Immaginarsi
d'esporre un tal uomo ai ritardi delle diligenze e dei battelli del
lago, è cosa da farlo morire!...--
Io cercavo di consolarla alla meglio, ma invano.
Il giorno seguente il medico trovò il malato più tranquillo, scrisse
un'altra ricetta, ordinò dieta più sostanziosa, e due dita di vino
vecchio... poi soggiunse:
--Monsignore si troverà bene dopo i bagni di Bormio e il suo viaggio
nelle montagne....
Veronica alzava gli occhi al cielo e dimenava la testa.
Per buona fortuna il malato non tardò molto a ristabilirsi ed a
riprendere le sue abitudini.
Ma intanto, occupato nell'assistenza di mio zio, non ebbi il tempo di
fare la progettata esperienza e i miei fiori appassirono. Poveri
fiori!... ho passato una sera a contemplarli come un triste presagio.
Essi mi presentavano l'immagine della gioventù che passa, mentre la mia
stella brillava forse in qualche festa spargendo dintorno la luce e il
profumo della sua bellezza! Mi affacciai alla finestra odorando
distrattamente il mio mazzetto avvizzito. Essa comparve improvvisamente,
e mi sembrò di scorgere nel suo rapido sguardo un leggiero indizio di
sorpresa, dissimulato ben tosto, ma non abbastanza prontamente da non
lasciarmi indovinare dal cipiglio severo un senso di malcontento, che
interpretai come un effetto di gelosia. Come era bella con quel cipiglio
che pareva dirmi:--chi vi diede quei fiori?... In quell'istante passava
per la via uno spazzino, io gettai con destrezza il mazzetto di fiori
nella sua carriola; essa vide il mio atto, i suoi lineamenti mutarono
espressione, sorrise a fior di labbra, mi guardò con soddisfazione e
scomparve.
Io aveva letto sul suo volto una nuova prova d'amore. Leggiero come
l'uomo felice, volai per le scale, e accorsi al negozio di fiori. Mi
feci approntare un nuovo mazzetto più bello del primo. Si componeva
d'una rosa nel centro, circondata da violette mammole ed eliotropi. Quei
fiori esalavano un profumo soave, e dicevano chiaramente: _bellezza e
modestia, vi amo con ebbrezza_. Ritornato a casa, aspettai la solita ora
nella quale vedevo la contessa Savina passeggiare in giardino. Intanto
io deponeva un bacio sopra i miei fiori e invidiando la loro sorte,
insegnavo loro che cosa dovessero dire se ella si fosse degnata di
raccoglierli; e parlavo a quegli esseri delicati come si farebbe con dei
fanciulli, incaricandoli d'una commissione importante. E pensavo al
destino della vita, alla bontà della natura che metteva in mia mano quei
simboli dell'anima innamorata, affinchè fossero gli interpreti del mio
affetto giovanile, coi loro vaghi colori, e gli olezzi penetranti, sotto
gli occhi di una leggiadra fanciulla!
Finalmente sonavano le due ore dopo il mezzodì quando dalla mia finestra
la vidi entrare in giardino come un'apparizione celeste.
Era una splendida giornata di maggio, e pareva che ne aspirasse con
voluttà l'aria oscillante e pregna d'atomi fecondi di vita.
Contemplò le piante con ammirazione, innalzò al cielo uno sguardo
sereno, poi rivolgendo gli occhi, mi vide alla finestra coi fiori.
S'era arrestata un istante, allungando il braccio per ispiccare un
ramoscello, quando il mio mazzetto cadde a' suoi piedi.... Ebbe un
leggiero sussulto come di paura, lo vide, rimase alquanto perplessa....
mentre io sentiva la mia vita sospesa. Poi abbassandosi lentamente lo
raccolse, l'odorò, se lo pose in seno, alzò il capo lanciandomi uno
sguardo ineffabile.... ed io non vidi più nulla.
Una nube mi oscurò la vista, e caddi nella stanza come privo di sensi.
Dopo qualche istante ritornai alla finestra, ma essa era partita.


II.

Erano passati alcuni giorni da quell'istante che mi rendeva felice,
quando incominciai a scorgere una insolita mestizia sul volto della
contessa Savina.
Oh come avrei voluto interrogarla, conoscere il motivo del suo
turbamento, e consolarla. Impossibile!...
Io leggeva bene ne' suoi sguardi un'espressione d'affanno, ma come
decifrarne la causa? Una sera pareva che non potesse staccarsi dalla
finestra; il suo sguardo melanconico non prendeva più le precauzioni del
solito giro per giungere a me, ma mi colpiva direttamente, e durava a
lungo, languido e doloroso. Finalmente l'oscurità succedendo al
crepuscolo, gli oggetti apparivano indistinti, io non distingueva più i
suoi lineamenti, e solo discerneva la sua graziosa persona, flessibile
come il gambo d'un fiore, appoggiata alla finestra; e mi parve di
scorgere che mettesse una mano sugli occhi, e un'altra mano sul
cuore.... e poco dopo scomparve.
All'indomani tutte le imposte del palazzo erano chiuse, essa era
partita. Partita da Milano!... e le carrozze continuavano a circolare
nelle vie, la gente andava e veniva come al solito, tutti i negozi erano
aperti, il sole brillava sulle aguglie del duomo.... eppure Milano mi
pareva morta, le strade squallide, il cielo buio, la folla un
assembramento di fantasmi. Mi sembrava impossibile che la vita potesse
ancora durare in quel vuoto, mi pareva che le anime dei miei
concittadini fossero uscite dalla città, e che i corpi continuassero
materialmente il loro giro automatico in un mondo spento. Entro di me
era uno sbalordimento, una malattia dell'anima, dalla quale s'era
staccata una parte, e la migliore. Vagai tutto il giorno per le vie come
un insensato, urtando i passanti, guardando macchinalmente le carrozze,
ove mi pareva che sedessero donne di legno cogli occhi di vetro.
Gli organetti mi mettevano in fuga, la musica mi batteva nella testa
come un martello, gli uomini che ridevano mi parevano matti, e mi
facevano paura.
Mi trascinai a casa per l'ora del pranzo, pensando che un ritardo
avrebbe potuto far ricadere malato mio zio, e mi misi a tavola senza
poter inghiottire un boccone. Alle sue interrogazioni risposi
confusamente accusando un dolore di capo.
Dopo pranzo la Veronica venne a raccontarci come la cosa più naturale
del mondo, che i nostri vicini erano partiti per la campagna. I conti di
Brisnago lasciavano Milano ogni primavera, e non ritornavano che alla
fine d'autunno. Io non ne sapeva nulla. Avevo veduto la Savina per la
prima volta nel passato novembre, e avanti quell'epoca ignoravo perfino
chi abitasse il palazzo, e non mi accorgevo se fosse chiuso od aperto.
Dopo di averla veduta, non vidi altro che lei sola in tutto Milano, e
dentro il mio cuore. Non mi ero mai interessato di conoscere la sua
famiglia, il padre, la madre, i parenti. Vedevo bene una signora
attempata al suo fianco, nel salotto o in carrozza, ma la vedevo come
un'ombra, senza arrestarvi sopra nè l'occhio, nè il pensiero.
Le notizie di Veronica mi sbalordivano, come qualche cosa di
straordinario, tanto mi pareva impossibile che Savina fosse una donna
come le altre.
Alla sera nel mio letto, pensando ai lunghi mesi che avrei dovuto
passare nella solitudine, inondai il mio guanciale di lagrime, e durai
alcuni giorni trasognato e ingrugnito.
La partenza di mio zio fu il primo diversivo che venne a mettermi
nuovamente in comunicazione colle cose volgari della vita. Malgrado
l'opposizione insistente di Veronica, il dottore aveva perseverato nella
sua opinione, dimostrando la necessità di mandare mio zio ai bagni di
Bormio. Essendo molti anni che non visitava la sua casetta in
Valtellina, appigionata a un vecchio maestro di scuola, mio zio contava
arrestarsi due giorni dal parroco del villaggio di X**, e poi di passare
al paese dei bagni.
I preparativi della partenza furono lunghi e laboriosi. Da un mese non
si parlava d'altro, mio zio prendeva continue informazioni sulle ore
della partenza e dell'arrivo delle vetture, e sulle fermate, i prezzi
dei posti, le coincidenze dei battelli sul lago, sul viaggio da Colico a
Bormio, sui locali, e il regime dei bagni e le analisi chimiche delle
acque. Poi enumerava i beneficii, gl'inconvenienti, i pericoli, i disagi
della cura ordinata, le speranze che dovevano sostenerlo all'impresa.
Veronica apparecchiava i sacchi da notte con tutte le precauzioni
immaginabili, mettendo in ordine i tabarri di varie gradazioni, e tutti
gli accessorii occorrenti, le pastiglie per la tosse e la magnesia
calcinata, il tabacco da naso e i fiammiferi. Si prendevano note per non
dimenticare gli oggetti indispensabili, per ricordarsi le minime
precauzioni, per seguire a puntino le raccomandazioni del medico.
La diligenza per Como partiva alle dieci, e al giorno fissato mio zio mi
fece svegliare col lume, prima del levare del sole, per tema di trovarsi
in ritardo avendo mille commissioni da darmi. Abbiamo lasciata la casa
un'ora prima della partenza; preceduti da un facchino che portava il
bagaglio e l'ombrello, e seguiti fino alla porta dalla Veronica, che
piangeva raccomandando a Monsignore di guardarsi dalle correnti d'aria,
dai cibi pesanti, dal freddo e dal caldo, chiedendogli se avesse in
saccoccia la scatola, gli occhiali, il portafogli, i guanti di lana,
pregandolo di scriverci subito appena giunto.
Egli voleva fare il disinvolto, ma si vedeva dalla sua fisonomia che
sentiva tutta la gravità dell'impresa. Voleva rassicurarci, ed era più
agitato di noi e camminava rammentandoci le sue commissioni, la lettera
al Cancelliere arcivescovile, il libro a Monsignor Decano, un piccolo
pagamento, una mancia, i saluti all'abate X** e a sua sorella.
Finalmente quando piacque a Dio si giunse all'ufficio della diligenza.
Colà mille domande calorose agli impiegati che rispondevano freddamente,
senza nemmeno alzare la testa dai loro registri. Raccomandazioni iterate
ai facchini sul collocamento del bagaglio, che gettavano sulla carrozza
col capo ingiù e con tale sguaiataggine da far raccapricciare la
Veronica se li avesse veduti. Quando i viaggiatori salirono in carrozza,
mio zio mi diede due grossi baci sulle gote, io gli raccomandai di aver
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