Il bacio della contessa Savina - 10

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e ricciuta, bianca e rossa ch'era una bellezza a vederla.
Al nostro avvicinarsi la capra alzò la testa mandando un lungo belato, e
la bambina s'alzò in piedi per fuggire. Allora s'aperse l'uscio del
tugurio che stava dirimpetto, e comparve sulla porta una donna giovane
ancora, ma sparuta, solcata dalle rughe d'una precoce maturità, lacera
nelle vesti, scapigliata e affranta dalle veglie, squallida dalla
miseria.
Vedendo l'Agata alzò le mani e gli occhi al cielo esclamando:
--Benedetto Iddio!... ecco la Provvidenza!...
Agata l'interruppe interrogandola ansiosamente:
--Come va il povero Beppo?
--Sempre lo stesso, signora!... sempre la febbre... e i dolori. Ma se
vuole consolarlo si mostri sulla porta.
--Entriamo, entriamo,--disse l'Agata, e la povera donna c'introdusse
nella stanza dell'infermo.
Da una sola finestra vestita di carta entrava nello stambugio una luce
smorta. L'infermo smunto, giallognolo, colle occhiaie incavate e segnate
da un cerchio livido, cogli zigomi protuberanti, le labbra violacee, i
capelli rabbuffati, l'occhio semispento, stava seduto sul suo giaciglio
colle braccia distese sulle coltrici rattoppate, rotolando l'estremità
del suo lenzuolo di stoppa nelle scarne mani. Al comparire d'Agata
schiuse le labbra ad un sorriso, i suoi occhi parvero avvivarsi, poi due
grosse lagrime gli corsero sulle guancie. Ci salutò con un cenno del
capo accompagnato da un'alzata di mano, e ripeteva con voce fioca:
--Grazie... grazie... ho pregato per voi tutto il giorno... non posso
far altro, grazie pei poveri bambini... e per le donne... che per la
vostra carità non hanno più sofferto la fame!... Iddio salverà la vostra
famiglia dalle disgrazie, io confido in lui... per me sia fatta la sua
volontà... anch'Egli ha sofferto tanto per il bene, la giustizia e
l'umanità....--e così dicendo accennava colla mano un Cristo che pendeva
a capo del letto, un Cristo colla testa cadente incoronata di spine,
colle piaghe sanguinose, e i piedi insudiciati dai baci di varie
generazioni di devoti e di moribondi.
La povera moglie ci raccontò allora le lunghe sofferenze di suo marito.
Egli era partito con profondo rammarico dal suo tugurio, ove lasciava
quanto aveva di più caro sulla terra: la vecchia madre, la moglie, tre
bambini che gli saltellavano intorno, sempre allegri e contenti, e
volevano seguirlo dappertutto. La bambina, la sua delizia, lo
accompagnava sul monte nella stagione della falciatura del fieno, e
s'addormentava all'ombra. Egli la coricava sulla sua giubba e le copriva
il volto col fazzoletto per ripararla dagli insetti. Alla sera se la
portava a casa in braccio, contenti tutti e due. Lasciare tali
abitudini, tanti affetti di famiglia, e andar ramingo in lontani paesi
gli tornava amaro, doloroso, straziante. Ma mancava il lavoro, e quindi
il pane per tutti. Partì col cuore lacerato quando cadevano le foglie e
la cattiva stagione s'avvicinava a gran passi. Una mattina, preso sulle
spalle un piccolo fardello, baciò la madre e i bambini e seguito dalla
moglie uscì dalla sua capanna, ove avrebbe vissuto felice se avesse
potuto vivere. La sua donna lo accompagnò fin fuori della valle,
parlando dei loro interessi. Ma quando non vide più la sua dimora, fu
inquieto e la rimandò. Si lasciarono con un cenno del capo e della mano,
senza poter proferire una parola, nè l'uno nè l'altra: il dolore li
strozzava.
Durante l'inverno quei tapini rimasti alla capanna, quasi sepolti sotto
la neve, ricevettero qualche soccorso dall'estero. Il cursore comunale
portava le lettere, e la povera donna sfidando le intemperie scendeva
dal monte, trovava il danaro assicurato alla posta, faceva le sue
provviste al capoluogo, e rimontava lentamente colla neve fino al
ginocchio, e le spalle cariche della gerla piena. Ma sapeva almeno che
il marito stava bene e pensava a loro, e li sosteneva lontani; i bimbi
l'aspettavano sulla porta, battevano le mani all'arrivo di lei, facevano
mille feste alla comparsa di tante buone cose che portava, e la nonna
riceveva il tabacco e il pane, e tutti avevano da vivere in pace
aspettando la buona stagione. La solitudine, l'isolamento, il freddo in
mezzo a quei monti ricoperti di neve non ispaventavano quella povera
famiglia quando aveva della farina e del sale, del formaggio e del
latte. Il giorno, se brillava il sole in un cielo sereno, i bambini
giocavano sulla neve, vi facevano banchi, grotte, edifizi fantastici, e
quando imperversava la bufera, si raccoglievano colle donne intorno al
focolare, rannicchiati sotto la cappa del camino, come i pulcini sotto
la chioccia. Abbruciavano i rami odorosi dell'abete e del ginepro,
cuocevano le patate sotto la cenere, la fiamma viva li compensava del
sole assente, il gorgogliare della pentola li consolava dei sibili del
vento, e i vortici del fumo erano a loro meno molesti delle pungenti
ambizioni che agitano la società. Nè trovavano verun motivo di lamentare
la loro sorte, e non si sarebbero mai immaginati che a questo mondo si
possa desiderare di più!...
Alla sera si mettevano tutti in ginocchio, e dicevano le orazioni tutti
in comune. Pregavano per la famiglia, per gli assenti, i viandanti, gli
emigrati, gli infermi, ed invocavano la salute e le benedizioni del
cielo, e si raccomandavano alla divina Provvidenza che li proteggesse in
questa vita mortale, rendendoli degni di meritare nella vita eterna il
compenso delle sofferte afflizioni. Dicevano _requiem_ pei morti, e
ringraziavano il padre che sta nei cieli del pane quotidiano, lo
pregavano di perdonare i loro peccati, di difenderli dalle tentazioni,
di liberarli dal male. Poi indirizzandosi alla Madonna la supplicavano
della grazia di rivedere presto il loro padre, il marito, il figliuolo,
in buona salute... e intanto che il Signore lo benedica e difenda dalle
disgrazie. E si coricavano tranquilli, pieni di fede, di speranza, di
carità.
Finalmente venne la primavera, sempre gradita a tutti, ma specialmente a
chi ha vissuto sei mesi sotto la neve. I geli si disciolsero ai tiepidi
raggi del sole, e ricomparvero le foglie sugli alberi, e il verde
tappeto sui pascoli. Coll'arrivo delle rondini la madre di famiglia
attendeva il ritorno del marito assente, e molte volte al giorno gettava
un'occhiata sulla strada maestra, per vedere se da lontano si vedesse
comparire qualche viandante. I bambini pure aspettavano il babbo, e si
ripromettevano dei ghiotti bocconi, coi quali avrebbero celebrato il
sospirato ritorno. La nonna seduta al sole guardava parimente la strada,
aspettava e pregava tutto il giorno per lui. Ma le rondini libravano il
volo da lunghi giorni sulla valle cacciando gl'insetti, i nuovi nidi
erano già costruiti, le fronde s'addensavano, l'erba e il frumento
crescevano rigogliosi.... e l'emigrato non compariva. E non solo non si
vedeva di ritorno, ma non giungevano più nè lettere, nè danaro. I primi
giorni che oltrepassarono il termine supposto al rimpatrio si cercò
d'ingannare l'ansietà dell'aspettativa con argomenti immaginari. Un
lavoro impreveduto, un ritardo prodotto da necessità insuperabili,
strade cattive, tempi perversi, combinazioni che succedono in viaggio.
Ma mentre crescevano le inquietudini mancavano i viveri.
Fortunatamente nacque un capriolo, che venne portato al mercato, onde si
cambiò il danaro negli oggetti più necessari. Poi anche queste piccole
provvigioni si esaurirono, quantunque misurate a rigore, appena da non
morire di fame. Bisognava contentarsi d'un po' di polenta senza sale,
bagnata nel latte di capra. Pazienza anche questo, se almeno il cuore
fosse stato contento, ma l'amarezza profonda che dilaniava le viscere
delle povere donne condiva colle lagrime lo scarso alimento.
Alla fine giunse una lettera, scritta da un compagno di sventura, la
quale annunziava che il loro diletto languiva in uno spedale della
Germania. Le fatiche di un intenso lavoro, il clima incostante, le
privazioni imposte dalla necessità di assicurare il vitto all'amata
famigliuola, avevano stremate le forze dell'infelice, caduto vittima del
suo coraggio. La ripugnanza d'entrare allo spedale gli aveva fatto
consumare nei primordi della malattia tutti i suoi risparmi. Affranto
dal male, e mancante d'ogni mezzo dovette rassegnarsi ad entrare
all'ospizio. Così passarono due mesi d'incertezza, di terrori, di
patimenti aggravati dal patema d'animo che l'opprimeva.
Tali notizie gettarono nella desolazione le povere donne.--Forse non lo
vedremo mai più!... fu il loro primo pensiero, al quale s'aggiunse il
secondo:--Lontano, povero e infermo, e non abbiamo nessuna probabilità
di raggiungerlo, di mandargli dei soccorsi, di prodigargli la nostra
affettuosa assistenza!... noi qui nella miseria, egli più misero di noi
in mani straniere!... Morirà di crepacuore, e l'agonia non sarà
consolata da un solo sguardo dei suoi cari. Le donne pensavano queste
cose, e la moglie ce le raccontò come le fu possibile, col linguaggio
del cuore.
In tale frangente bisognava pensare ai bambini che avevano fame,
bisognava ingegnarsi in qualche modo, e lavorare coll'anima lacerata dal
dolore e col corpo affranto dagli affanni, dalle veglie, dai patimenti
d'ogni fatta.
La misera donna raccoglieva della legna secca nei boschi, col pericolo
d'essere arrestata dai guardiani e condotta in prigione, poi la portava
da lontano sulle spalle attraversando burroni e precipizii, coi piedi
insanguinati dai frammenti delle roccie. Venduta la sua fascina,
riportava un po' di pane alla famiglia per incominciare da capo
all'indomani le stesse tribolazioni.
Quanti stenti, quanta miseria, e quanti dolori!... Nelle città non si
hanno idee di tali patimenti umani.... E quella povera famiglia si
prostrava a terra, ogni sera, per ringraziare Iddio d'averla fatta
campare, offrendo le sue pene, le angoscie e la fame in espiazione dei
peccati. E supplicava tutti i santi di muoversi a pietà di tante
sventure. I tre bambini pregavano colle manine giunte e gli occhi
rivolti al cielo come la madre e la nonna, perchè il dolore si sente a
tutte le età; esso fa maggiorenni i pupilli prima del tempo legale.
Una sera, mentre stavano tutti ginocchioni davanti il Cristo, videro
aprirsi la porta e comparire sulla soglia uno spettro che traballava
sulle gambe... Era lui.
--Grazie, Iddio!...--egli disse con voce sepolcrale....--Grazie, Iddio!
che mi avete conceduto di venir a morire sul mio letto.
Le donne saltarono in piedi, e giunsero in tempo di sostenerlo fra le
loro braccia, mentre cadeva privo di sensi.
Il desiderio di rivedere la sua famiglia gli aveva somministrato le
forze sufficienti per alzarsi dal letto dell'ospitale, dissimulare ai
medici le sue sofferenze, protestare contro la loro insistenza di
volerlo curare, e chiedere come un sommo favore di tornarsene a casa.
Non ci fu verso di persuaderlo che sarebbe morto per via: volle partire.
Senza forze, senza danaro, e colla febbre indosso aveva fatto il viaggio
a piedi, chiedendo la elemosina per via, e dormendo sulla nuda terra,
quando al suo aspetto spaventoso i contadini si rifiutavano di lasciarlo
passare la notte sul fieno.
Un pensiero lo sosteneva nei disagi: abbracciare ancora una volta i suoi
cari. Egli varcò i monti barcollando, trascinandosi a piccole giornate,
salendo talvolta sopra qualche carro sul quale veniva raccolto dai
carrettieri mossi a pietà del suo stato.
L'energia della sua volontà vinse gli ostacoli, lo sostenne nel suo
proposito, fu più forte del male, e potè trascinarlo fino alla porta del
suo tugurio. Steso sul letto, lo credettero morto; ebbe un lungo
svenimento, ma rinvenne. L'aspetto dei volti che stavano contemplandolo
piangendo lo compensò dello sforzo sovrumano del viaggio. Egli aveva
raggiunto la meta, si beava in quegli sguardi amorosi, e si lasciava
morire in pace.
Ma appena riavuto, le donne si misero in traccia di quanto potevano
offrire al diletto infermo. Santo Dio! mancavano di tutto, non avevano
da offrire al moribondo che acqua!... Ma era l'acqua del suo torrente,
l'acqua che scorreva ai piedi del monte che lo vide nascere, quella che
bevevano sua madre, sua moglie, i suoi bambini; era più che un'acqua
medicinale... era un'acqua santa!
La bevette con voluttà, e parve che ne sentisse sommo benefizio perchè
potè dormire per alcune ore. Ma compiuto lo sforzo della natura, il male
riprendeva il suo vigore. Tuttavia benediceva Iddio, lo ringraziava del
sommo favore ottenuto, e sperava nella divina misericordia. Colui che
aveva fatto il miracolo di ricondurlo a casa avrebbe potuto anche
salvargli la vita, e assistere la famiglia durante la sua infermità. E
di fatti fece anche questo. La moglie corse a chiamare il dottore
Canziani, il quale, esaminato il malato, udita la storia dolorosa,
veduta tanta miseria, raccomandò la povera famiglia all'Agata, avendo
esperimentato altre volte quanto avesse giovato ai miseri il patrocinio
di quella pietosa fanciulla.
Agata mandò subito i primi soccorsi, poi volendo conoscere la povera
moglie, se la fece venire in casa, le somministrò gli oggetti più
indispensabili ai malati, e i viveri per la famiglia. Finalmente si
decise di visitare in persona l'infermo e vi andò con suo padre, carica
di nuovi doni.
Uditi i miei stravizii, pensò che l'aspetto delle umane sofferenze
potesse essere un farmaco salutare a chi cade in errore senza aver
l'animo guasto, e colse questa occasione per procurare un doppio
beneficio, giovando a due malati in una volta, uno colpito nel fisico,
l'altro nel morale, soccorrendo d'un tratto la miseria e la corruzione.
Ecco il motivo della nostra gita, che l'Agata voleva dissimulare, ma che
mi venne rivelato dalla coscienza. Lo scopo era raggiunto: io mi sentiva
commosso fino al fondo del cuore, sentivo il rimorso della mia condotta,
pensando che mentre un uomo laborioso languiva nello squallore d'uno
spedale straniero e lontano, mentre una povera moglie desolata, una
vecchia impotente, dei bambini innocenti soffrivano il freddo e la fame
sotto la neve, io scialacquavo in una notte sbevazzando e giuocando, in
crapulosa compagnia, ciò che avrebbe bastato a coprire quei miseri, a
farli campare per molto tempo, a soccorrere un infermo, a pagare una
vettura che lo avrebbe ricondotto alla sua famiglia senza disagio.
Chi spreca il danaro in vizio dovrebbe rammentarsi talvolta che al mondo
non mancano mai miserie da soccorrere, nè sventure da riparare.
Intanto ch'io facevo tali considerazioni, Martino vuotava il cesto, e ne
uscivano provvigioni d'ogni fatta. Le benedizioni di quegli infelici
erano largo compenso all'animo gentile delle signore, che frenavano a
stento le lagrime.
Usciti dalla camera dell'infermo incontrammo gli altri due figliuoli che
rientravano colla nonna, portando delle erbe per la cena, e della legna
da fuoco. La madre presentò alle benefiche donne i ragazzi e la vecchia
rugosa e ricurva, che piangeva dalla consolazione in vederle, mentre la
bambina ricciuta, superata la sua timidezza in forza della curiosità,
scendeva tranquillamente dal monte colla sua capra, e veniva a
completare la famiglia, ed a ricevere i bomboni dell'Agata e i nostri
baci.
Il sole era tramontato quando partimmo, onde giungemmo al villaggio a
notte inoltrata. La strada, meno faticosa per la discesa, ci parve anche
breve, perchè i pensieri che occupavano la nostra mente ci facevano
passare il tempo con rapidità. Giunti alla porta di casa Bruni, salutai
la signora Giovanna, e dissi alla ragazza:
--Vi ringrazio, Agata, della buona sera che mi avete fatta passare.
Sapevo che la beneficenza è un dovere, ma ignoravo che fosse uno dei
sommi piaceri della vita, di quei piaceri che entrano nell'anima e vi
lasciano una dolce ricordanza. Vi ringrazio anche della lezione!... essa
non sarà perduta. Dal rimorso al ravvedimento non c'è che un passo. Vi
prometto che non avrò mai più ad arrossire della mia condotta.
--Vostra madre vi ascolta!...--mi rispose, e fissandomi con uno sguardo
significante si ritirò dietro sua madre.
Io rientrai in casa, cenai con appetito, perchè avevo il corpo stanco e
l'animo lieto, e quando Bitto, secondo il suo costume, mi fece molte
carezze, sentii che quel giorno non ero indegno dell'affezione del mio
cane.


XV.

Per riparare almeno in parte i passati miei torti io visitai sovente il
povero infermo, portando il mio obolo al tugurio, e qualche dolciume ai
fanciulli che mi presero presto in amicizia. La loro ingenua affezione
mi tornava assai più grata di quella dei miei compagni di disordine, e
seduto su quei greppi colla bambina, mentre la capra rosicava le foglie
dei mirtilli e dei roveti, e Bitto vagava pel bosco alla caccia di tutto
quello che brulicava sulla terra e sugli alberi, io mi sentiva calmo e
predisposto a fare il bene; l'aria pura ed elastica della montagna mi
risvegliava teneri sentimenti ed elevati pensieri, l'esalazioni silvane
esilaravano il mio spirito, il silenzio solenne di quelle solitudini mi
facevano fantasticare gradevolmente, e mi pareva impossibile di aver per
qualche tempo abbandonato i miei passeggi e le mie contemplazioni per
vivere in cattiva società nell'afa dell'osteria, grave ai polmoni, che
esalta il cervello ed abbrutisce il cuore.
Uguccione della Fagiuola non era contento, e tentò, ma invano,
d'eccitarmi a non abbandonare gli amici e la partita, rinnovandomi il
suo panegirico del vino, e dicendomi che il soldato non deve mancare di
coraggio per una battaglia perduta. Gli risposi con fermezza
irremovibile che avevo rinunziato per sempre al giuoco ed all'osteria,
senza rinunziare per questo ai buoni amici e al buon vino, ma aggiunsi
che non stimavo buoni amici coloro che mi spogliavano mentre ero
ubbriaco, nè buon vino quello che mi faceva dormire sotto ai tavoli. In
quanto all'esempio del soldato, gli risposi che chi aveva la testa rotta
era autorizzato a passare agli invalidi, e che in quanto al coraggio, ce
ne voleva talvolta di più per sostenere una ritirata che per tornare
alla lotta. Io parlavo per esperienza, non potendo vantare nella mia
vita una sola vittoria, ma molte sconfitte.
Uguccione non si mostrava persuaso de' miei argomenti, ma non sapendo
che cosa rispondere, agitava furiosamente il suo cappellaccio in segno
di disapprovazione, ed essendo testardo ed organista ad un tempo, mi
risuonava continuamente lo stesso motivo, con poche e cattive
variazioni, fermandosi lungamente sopra una nota, come soleva fare
nell'organo. Il giuoco abbandonato lo crucciava più del dovere.
--Ma non volete nemmeno tentare una rivincita?--mi diceva.--Ma tentate
dunque una rivincita.... e vedrete i capricci della fortuna.
--La rivincita,--io rispondevo,--l'ho ottenuta il giorno che feci
solenne giuramento di non prendere più in mano una carta da giuoco; da
quel momento ho guadagnato tutto quello che avrei perduto giuocando,
senza tener conto del denaro risparmiato nel vino.... e nell'acqua che
vi si trova sovente commista, nè della salute perduta a forza di
disordini, nè della riputazione pregiudicata a mio danno.
A me, caro Tobia, basta una sola lezione, la perdita d'un solo orologio,
una sola notte funesta!...
Uguccione, vedendo impossibile il convertirmi, si metteva a ridere con
quella bocca sperticata, spalancando le sue labbra da Cafro con strani
sberleffi, ed accusandomi di subire le malvagie influenze del clero.
Questo Ghibellino arrabbiato aveva in parte ragione, perchè due giorni
dopo tal dialogo giungeva al villaggio mio zio, e l'arrivo del canonico
riconducendomi a visitare il parroco mi gettava nuovamente nelle braccia
dei Guelfi, capitanati dall'arcivescovo Giovanni.
Uguccione sghignazzava co' suoi amici sulla mia apostasia.... egli aveva
perduto il suo pollo.
Mio zio, che si recava ai bagni di Bormio, volle farmi il favore di
arrestarsi qualche giorno al villaggio; ond'io gli feci ammirare i
restauri del suo casino, la modesta agiatezza succeduta al lurido
disordine del mio antecessore, ed egli ne rimase soddisfatto.
L'accompagnai in casa Bruni per ringraziare quei buoni signori di tutte
le bontà che mi andavano prodigando. Essi diedero un pranzo in onore di
lui, e furono tanto cortesi non solo da tacere la mia condotta, ma anche
da farmi degli elogi.
Io era tutto contento di rivedere il mio vecchio zio, ambizioso di
fargli gli onori di casa, lieto di prodigargli le più delicate
attenzioni, e tutte le cure d'una ospitalità previdente.
Io avevo dato alla Rosa le opportune istruzioni; abbandonare ogni
grettezza, procurarmi i cibi migliori, i vini più scelti, e far debiti
in caso di bisogno. Io sedevo a tavola dirimpetto a mio zio, lo servivo
con sollecitudine affettuosa, gli mettevo sul piatto i migliori bocconi,
e gli tenevo il bicchiere sempre ricolmo. Egli mi accennava di
arrestarmi, ma poi cioncava e stava allegro. Tutto procedeva a
meraviglia. La Rosa faceva miracoli, e Bitto lambiva le mani a mio zio e
gli faceva mille feste. Il cane ha un istinto che non l'inganna, egli
sente a usta gli amici e i nemici del padrone, mena la coda o abbaia
secondo il caso.
L'Agata, alla quale la Rosa s'era raccomandata per avere dei consigli
risguardanti la cucina, mandava invece dei cibi squisiti, belli e pronti
da mettersi in tavola. Ah se tutti i consiglieri facessero così!...
La Veronica m'aveva mandato per mezzo dello zio squisiti manicaretti
milanesi dei quali mi sapeva ghiotto, e così si faceva ogni giorno
baldoria, e si stava a mensa lungamente.
Io vedeva in mio zio non solo il più prossimo parente, il benefattore ed
il padre, ma bensì il mio liberatore dall'esilio di Valtellina, che mi
pesava assai e non aveva più scopo. La contessa Savina maritata, io
poteva ritornare a Milano. Questa era la mia ambizione e il mio sogno;
io mi proponevo di svolgere tutti gli argomenti possibili per persuadere
il mio buon zio a questo passo; e non avevo motivi che mi facessero
temere un rifiuto. Egli mi chiese conto naturalmente delle mie
occupazioni e de' miei studi; ed io gli risposi:
--Caro zio, la scuola rurale è un incubo, una penitenza, una espiazione.
La mia vita è un continuo sacrifizio, e mi è chiuso ogni adito ad una
carriera onorevole. A che cosa può condurmi l'insegnare l'abbicì ai
piccoli idioti delle montagne? Senza un avvenire in prospettiva, mi
manca anche il coraggio di studiare. Per lavorare bisogna avere una
meta, ogni studio ha bisogno di un fomite. Quivi non posso sperare
nessuna risorsa, nessun compenso alle mie fatiche.
Volendo evitare ogni allusione al passato, mostrai d'attribuire al mio
esilio il solo scopo di mettere in assetto l'amministrazione rurale
della piccola proprietà, e quello d'acquistare un titolo in qualità di
maestro, incominciando l'insegnamento dal primo scalino, e proseguii:
--Ora, avendo restaurata la casa, diventa più facile affittare
vantaggiosamente la terra; io ho fatto le prime prove nell'istruzione, e
posso aspirare ad un posto superiore. Quivi io non istudio, non imparo,
sono lontano dai superiori e dalle occasioni di farmi onore; mi
avvilisco, mi scoraggio, non vivo, ma vegeto!...
Mio zio mi ascoltava tacendo. Il suo silenzio mi urtava i nervi, i nervi
agitati fanno dire delle bestialità, ed io venni alla conclusione
seguente:
--Vuol dire che oziando, passeggiando e fumando il sigaro, aspetterò un
migliore avvenire dalla Provvidenza!
Non so se sia stata l'assurdità della frase o la Provvidenza invocata
che abbia scosso mio zio; ma il fatto sta che si scosse.
Certo era assurdo che la Provvidenza fosse tanto improvvida da
proteggere un ozioso che ne aspettava i benefizii passeggiando e
fumando; e mio zio, che per me rappresentava la Provvidenza, se ne
commosse.
--Hai torto di sragionare,--mi disse,--e di non apparecchiarti una
strada collo studio e la coltura, ma hai ragione di desiderare una sorte
migliore, e ti prometto che intendo occuparmene e soddisfarti. Puoi
credere quanto mi deva esser caro il tuo ritorno a Milano, non avendo
altri parenti vicini, che possano tenermi compagnia e sostenere la mia
vecchiaia. Abbi un po' di pazienza, non bisogna precipitare, ma al mio
ritorno mi darò premura di soddisfare i tuoi voti, e di trovarti un
collocamento a Milano, che ti permetta di farti conoscere.
Tale promessa mi ridava la vita; m'alzai, presi la mano di mio zio, la
copersi di baci, la bagnai di lagrime. Il pensiero di ritornare nella
mia cameretta di Milano m'aveva esaltato. Accorgendomi però che mio zio
mi guardava con qualche sorpresa, procurai di calmare il mio soverchio
entusiasmo per non destare sospetti, e poco dopo cambiai discorso.
L'ora del pranzo era quella delle ciarle, delle confidenze, e
dell'espansioni. All'indomani mio zio mi raccontava le novità di Milano,
mi rendeva conto degli amici, dei conoscenti, dei vicini.
--A proposito,--diss'io con aria indifferente,--come va il matrimonio
della contessa Savina?
Mio zio mi guardò in faccia prima di rispondere. Io affettai una tale
bonarietà che dovette ispirargli fiducia, ed egli un po' esitante
rispose:
--Veramente.... se devo dire il vero.... non va troppo bene.
--È dunque un matrimonio infelice?
--Non dico questo.... ma non è troppo felice.
--Così presto!...--io esclamai. Poi volendo dissimulare la mia sorpresa
e l'emozione, mi versai da bere; procurai di mostrarmi freddo e
distratto, lasciai passare qualche tempo, cacciando giù un boccone per
forza, poi soggiunsi:
--Se non m'inganno, mi pareva che la contessa Savina avesse sposato un
signore....
--Sicuro, ha sposato un signore della più alta nobiltà, molto ricco, ma
scialacquatore.... un vizioso, un donnaiuolo, un beone.... un cattivo
soggetto.
--Diamine!... come mai ha potuto innamorarsi d'un tal personaggio?
--Innamorarsi,--disse mio zio, chiudendo gli occhi ed alzando le
spalle,--sai bene che i gran signori si maritano senza conoscersi,
guardano al nome ed alle sostanze e basta. Il conte Azzone di Montegaldo
aveva tutte le qualità richieste per fare un eccellente matrimonio.
Appartiene a famiglia ricchissima e d'antica nobiltà, ed avrebbe potuto
scegliere fra i migliori partiti; ma non ci pensava nemmeno, vivendo
gran parte dell'anno a Parigi, ove si dice che tenesse una famiglia....
illegittima. Sembra che gravi perdite al giuoco lo abbiano costretto a
cercare una dote, non essendogli possibile di trovare del denaro sugli
stabili coperti da ipoteche. Col suo matrimonio ha potuto pel momento
riacquistare il credito e chiudere le breccie.
Meno male se avesse fatto giudizio, ma si pretende a Milano ch'egli
continui la tresca, e non abbia abbandonato il giuoco, nè gli stravizii.
Intanto la povera moglie oltraggiata paga le spese.
--È un'infamia!...--io gridai;--questo non è un matrimonio, ma è
piuttosto la prostituzione legale della donna!... Se le leggi fossero
giuste per tutti, il conte di Montegaldo dovrebbe essere condannato
all'ergastolo, come coloro che tradiscono la buona fede e
l'innocenza!... come i ladri.... come i frodatori.... come i
sacrileghi....--e non sapendo più frenare la mia esaltazione, fuori di
me dalla indignazione, acciecato dalla collera, diedi un pugno così
potente sulla tavola, che feci saltare le stoviglie, le posate, i
bicchieri, e ruppi una bottiglia inondando la mensa di vino.
Mio zio rimase sbalordito, la Rosa accorse al rumore, io abbassai il
capo confuso e pentito della mia escandescenza.
Cercai ogni argomento possibile per giustificare tale esaltazione, ma
era troppo tardi. Mio zio aveva aperto gli occhi, e mi leggeva nel
cuore; io non dovevo più sperare sulle sue prestazioni per farmi
ritornare a Milano. Tutto era perduto!... Io conoscevo troppo gli
scrupoli di mio zio per poter dubitare un solo istante della sua
risoluzione. Certo egli mi condannava all'esilio perpetuo per salvarmi
dai pericoli, e per non portare sulla coscienza il rimorso d'aver
contribuito a facilitare un amore colpevole.
Io non potevo più contare che sopra me stesso, e il pensiero della
infelicità di colei che mi stava fissa nel cuore mi dava tanto coraggio
da tentare la mia emancipazione, ad ogni costo, senza il soccorso di
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