Il bacio della contessa Savina - 09

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facevano sempre più gravi, la fortezza presentava una resistenza
insormontabile, ed io rientrava sovente nei miei quartieri ferito
nell'orgoglio, e talvolta anche altrove, ma spinto da ogni nuova ripulsa
a tentativi più arditi.
Una sera me ne tornavo dall'attacco rimuginando col pensiero qualche
astuzia guerresca, quando sentii Bitto da lontano che abbaiava
allegramente, come soleva fare incontrando gli amici. Infatti alla
svolta del monte vidi una brigata di persone che avanzava dalla mia
parte. Era la famiglia Bruni, e il dottore con sua moglie che facevano
una passeggiata vespertina.
Quando mi furono dappresso, m'avvidi che si scambiavano delle occhiate
d'intelligenza, e che ciascheduno aveva un sorriso o un sogghigno sulle
labbra.
--Oh... quale sorpresa!--esclamò il signor Nicola,--il maestro Daniele
da queste parti... a quest'ora....
--Nessuna sorpresa...--io risposi...--perchè vedo che mi siete venuti
incontro.
--Sì... no... è vero... non è vero,--tutti volevano dissimulare la
verità, ma colla franchezza della mia risposta io avevo gettato il
disordine nel campo nemico.
--Infatti,--soggiunse il signor Nicola,--è lecito sapere che cosa vi
attira da queste parti?...
--Perbacco,--io risposi,--vogliono che io faccia dei misteri?... vado a
studiare una cascata....
--Ah!... ah!... ah!... benissimo... è ben trovata,--osservò il signor
Nicola.
--Va a prendere delle doccie....--proseguì il medico.
--Ha ragione, signor maestro, fin che è giovane si diverta,--continuò la
signora Pasquetta, che si mostrava sempre indulgente pei peccatuzzi
dell'umana fragilità.
--Eppure,--riprendeva il signor Nicola,--quella cattiva lingua di Tobia
pretende che abbiate degli interessi al mulino.... e siate infarinato a
dovere!...
--Ahimè, povero Zaccheo!...--replicava il dottore levandosi il cappello,
e simulando colle dita sulla testa certi ornamenti animaleschi, che
facevano arrossire la signora Pasquetta fino al bianco degli occhi.
Vedendo il dottore a fare quegli scherzi, non ho potuto trattenere le
risa, e diedi in uno scroscio sgangherato accompagnato dai singulti del
signor Nicola, che scoppiava nella pelle. La signora Giovanna rideva
essa pure, ma il dottore rideva più di tutti.... Agata era andata avanti
con Bitto, e gettava dei sassi, che egli correva a prendere, riportava e
depositava a' suoi piedi, abbaiando con insistenza per ottenere che la
ragazza li gettasse nuovamente.
Intanto noi si rideva allegramente vedendo il dottore contento come una
pasqua dell'effetto irresistibile prodotto da' suoi scherzi; egli,
incoraggiato dal buon successo, continuava a burlarsi di Zaccheo,
malgrado le preghiere di desistere che gl'indirizzava la moglie,
divenuta pavonazza dalla tortura.
Essendoci accorti che la signora soffriva davvero, abbiamo abbandonato
il soggetto scabroso, cambiando discorso.
Era l'ora del tramonto, e volendo rientrare al villaggio prima di notte
abbiamo abbandonata la strada maestra, prendendo una scorciatoia per un
sentiero tortuoso fra due siepi.
La viuzza angusta non permetteva il passaggio che a due sole persone di
fronte. Io precedeva la comitiva insieme con l'Agata, poco dopo seguiva
il signor Nicola colla signora Pasquetta, ed ultimi il dottore colla
signora Giovanna. Bitto andava avanti e indietro, su e giù per l'erta,
come sogliono fare i cani... e gl'innamorati.
Il sole, dardeggiando i suoi ultimi raggi dietro la montagna, tingeva di
porpora e d'oro le nuvolette increspate che vagavano pel firmamento.
--Come sono stupende queste scene della sera fra i monti!...--io
osservava.
--Soltanto dopo un giorno sereno....--mi rispondeva l'Agata.--Ma i
giorni burrascosi hanno un tetro tramonto, senza luce, senza splendore,
con un corteggio di nuvoloni neri, minacciosi.... Avete mai pensato alla
rassomiglianza fra il periodo d'un giorno e l'intiero corso della nostra
vita?
--Ci ho pensato sovente....--io soggiunsi,--e se dipendesse da me,
vorrei che ogni giorno fosse sereno, ogni vita felice, ogni tramonto
bello come quello di questa sera....
--Il giorno bisogna prenderlo come ci vien dato dalla natura.... ma
dipende da noi che la nostra vita sia calma o burrascosa, senza macchie,
senza rimorsi, senza nuvole al tramonto, come una giornata serena.
La guardai in volto tacendo, e mi parve grave e severa.
Camminavo in silenzio dopo qualche istante, quando un magnifico falco
attraversando la valle ci passò rapidamente davanti gli occhi,
penetrando nel bosco vicino, dal quale dopo uno stormire di fronde
s'intese un confuso cinguettìo, e si videro uscire alcuni uccelletti
spaventati.
--Un bel falco!...--dissi io.
--Bello, ma crudele!...--essa mi rispose.--La bellezza è un dono della
sorte, non è un merito; e,--proseguì,--se la bellezza non è accompagnata
da buon cuore e da onestà, io la compiango. Quando vedo un falco, non
penso alla sua bellezza, ma al dolore dei poveri uccelletti che avranno
il nido invaso e insanguinato dal rapitore, che, portandosi via la madre
a tradimento, mette il padre in disperazione, e lascia i piccini
nell'abbandono.... Mio Dio! quante vittime per una preda!...
Io sentiva che i colpi venivano al mio indirizzo.... e che erano
meritati.
Pensai seriamente alla colpevole leggerezza che mi valeva quella severa
lezione. Anch'io come il falco grifagno tentava rapire la pace ad una
onesta e tranquilla famiglia... che nel suo eremo, ai piedi delle Alpi,
non era ancora abbastanza riparata dalla rapacità d'un cuore
spietato.... Ma almeno il falco cercava una preda per vivere.... io
invece facevo il male per soddisfare un vano capriccio.... per saziare
un desiderio colpevole.... per distrarmi da un dolore profondo con una
insidia.... per vendicarmi contro persone innocenti dei mali prodotti
dalla mia dabbenaggine!... ed ecco che come al solito io compariva
peggiore della bestia.... più crudele del falco.... e meno fortunato di
lui, perchè non avevo nè la sua destrezza per cogliere la preda, nè le
ali per fuggire dalle maledizioni delle vittime!...
Io invidiava la sorte di quell'uccello di rapina, che dopo il delitto
poteva almeno volare in lontane regioni, ove si ignoravano le sue
prodezze sanguinose!... io invece non potevo nascondere la vergogna
davanti al mio giudice.
Tuttavia sentivo il bisogno di rispondere qualche cosa; ma misurando i
miei torti non trovavo giustificazioni ammissibili, e mi sentivo così
aggravato, che proruppi in queste parole:
--Agata, avete ragione, disprezzatemi, io sono un uomo abbietto!.... se
fossi vicino ad un precipizio, mi vedreste scomparire dai vostri
sguardi....
--Con un delitto non si ripara una colpa....--mi rispose freddamente.
Allora mi venne il pensiero ch'essa mi credesse forse più colpevole che
in fatto non era, e volli giustificarmi.... per non essere condannato in
contumacia.
Le confessai ingenuamente la mia ammirazione per la bellezza plastica
della moglie di Zaccheo, assicurandola però che tale ammirazione non
ebbe altro effetto che alcune visite senza conseguenza.... Tacqui
dell'assedio tentato invano, della resistenza valorosa e
dell'artiglieria formidabile della mugnaia, e promisi che avrei
abbandonato per sempre il mulino, e gli studi delle cascate!...
--Me lo promettete seriamente?...--mi chiese.
--Ve lo prometto sulla mia parola d'onore.
--Accetto la promessa in nome di vostra madre,--ella mi rispose,--della
quale m'avete impartita l'autorità.--Così dicendo mi sporse la mano.
Io gliela strinsi coll'animo commosso e le chiesi umilmente:
--E mi perdonate?...
--Vi perdono,--mi rispose,--a condizione che siate galantuomo...
ricordandovi che chi ruba la donna altrui è un ladro più infame di chi
invola il denaro... Il denaro rapito può lasciare le vittime nella
povertà... ma la donna che tradisce il marito lo lascia nel disonore,
che è peggior cosa d'ogni miseria!...
Eravamo giunti al villaggio e dopo i soliti saluti rientrammo nelle
nostre case.


XIII.

Ho dunque abbandonato l'assedio, e ripiegata la tenda; non più marcie
forzate, nè speranze, nè timori, nè tutte le emozioni della lotta. Ho
battuto la ritirata, per riprendere la vita monotona del soldato di
guarnigione.
A vent'anni avevo già spasimato d'un amore ideale, e raccoglievo un
amaro disinganno; avevo tentato l'amore positivo, materiale, il frutto
vietato; e ne riportavo qualche ferita e un rimorso. In complesso erano
due fiaschi solenni coi quali inauguravo la mia esistenza, due fiaschi
che mi mettevano in uggia le ragazze e le donne.
Ora, a vent'anni, senza un amore che riscaldi il cuore, come si fa a
vivere in un gelido villaggio della Valtellina?...
La scuola?... me ne appello a tutti i maestri spregiudicati: la scuola,
tanto per chi insegna quanto per chi ascolta, non è che una fabbrica di
noia perfezionata. La tragedia?... essa giaceva abbandonata sul tavolo,
ogni ispirazione era svanita, il fuoco sacro s'era spento alla scomparsa
della Vestale; non avvi poesia senza musa, nè arte senza donna!...
L'orto?... era incolto, vi crescevano i cardi selvatici e le ortiche.
Senza famiglia non si hanno nè fiori.... nè legumi. L'uomo, solo, vive
di qua e di là, senza centro e senza circonferenza. Avrei potuto cercare
qualche divagamento nella coltura delle piante, ma ignoravo ancora
quest'arte, trovandomi sempre alle prime pagine dell'_Ortolano
dirozzato_.
Non sapevo più a che santi votarmi. Psiche, Venere e Melpomene mi erano
sfuggite di mano; del divino Olimpo non mi restava altro che Bacco. Mi
sono dato alla divozione del suo culto, e mi parve che mi si mostrasse
propizio.
Questo nume benefico agli infelici, esiliato dagli altari dell'umana
ingratitudine, andò vagabondo e ramingo sulla terra, arrestandosi di
preferenza sui clivi ridenti di vigneti, ove continua in modo
clandestino l'esercizio dei sacri suoi riti. Tutto il bene e il male del
mondo, l'amore o l'odio, le gioie e le lagrime, la poesia e i dolori
della vita umana, l'incenso profumato, e il fumo graveolente dei roghi,
tutto svapora, tutto sale all'empireo, tutto si confonde nell'etere. Le
meteore raccolgono tutte le emanazioni della terra, materiali e morali,
visibili ed invisibili; il vento le agita, il tuono le scuote, il
fulmine le riscalda, l'umidità le discioglie, e quando piove tutto
ricade sulla terra. Questo è il circolo eterno dello spirito e della
materia; nulla si perde nell'universo, tutto si rinnova. Colla pioggia
benefica ritornano al nostro globo gli elementi vitali del corpo e
dell'anima umana. Le piante assorbono quegli umori, li elaborano, ed
essi ritornano all'uomo cogli alimenti. Le pioggie benefiche apportano
la gioia; le grandini sono maledizioni retrocesse, le rugiade baci ed
amplessi che brillano nuovamente sulla superficie terrestre, e ingemmano
l'erbe ed i fiori colla loro comparsa. Per questo sulla terra
germogliano sempre le stesse piante e le stesse passioni, nascono gli
stessi animali, e si ripetono le medesime vicende.
Ogni pianta ha le sue facoltà assorbenti, non solamente per i principii
materiali che somministra la terra, ma altre pei principii spirituali
che oscillano nell'aria, riscaldati dal sole. Il frumento non assorbe
soltanto i fosfati, ma raccoglie dall'aria gli elementi confusi del bene
e del male; e l'uomo, nutrendosi di pane, inghiotte non solo un alimento
sostanzioso, ma altresì gli elementi delle gioie e dei dolori che si
manifesteranno nella sua vita.
Alcune piante godono lo speciale privilegio di non assorbire che un solo
principio. Se è il principio del male sono piante velenose, come la
cicuta, la belladonna, il giusquiamo; se è il principio del bene sono
piante benefiche, come la china del Perù, l'arancio, la vite. Le prime
uccidono, le seconde risanano l'uomo.
È certo che le dosi modificano la loro azione, potendo tornar giovevole
una piccola dose di veleno, e micidiale una forte dose di vino. Ma nel
mondo morale succede lo stesso: un eccesso di gioia uccide, un dolore
corregge un vizio.
La vite ha la specialità di non raccogliere colle sue radici, e di non
assorbire colle sue foglie altro che gli umori soavi ed esilaranti: lo
spirito, l'ilarità e l'entusiasmo. Ecco il motivo pel quale mi sono
votato a Bacco: mi pareva nelle mie critiche circostanze d'aver sommo
bisogno della particolare assistenza di questo dio. Infatti esso
distilla nel succo dei grappoli la quintessenza dell'umana felicità.
Questa si assimila al vino, entra nelle botti e nelle bottiglie, brilla
nei bicchieri come i rubini e i topazi d'oro, esala nell'aria gli
effluvi de' suoi aromi sottili. Buon vino e buon umore sono sinonimi, e
chi ne ha ne usi moderatamente per goderne a lungo, e chiuda le
bottiglie con tappi solidi di sovero di Spagna, e metta capsule
metalliche sul turacciolo per conservare scrupolosamente il profumo e lo
spirito dell'umana felicità distillata. Nel fondo d'ogni buona bottiglia
si trovano arcane consolazioni, affatto ignote a chi non beve che acqua.
Ma le passioni intemperanti spingono l'uomo ad abusare di tutto,
ond'egli avvelena l'aria destinata al suo respiro, intorbida le pure
sorgenti e guasta i migliori succhi della vite. Con alcuni buoni
pensieri si possono fare pessimi vini; la colpa è tutta dell'uomo, di
questo guastamestieri della natura.
Ma non basta fare il vino eccellente, bisogna anche saperne usare con
moderazione.
Che cosa è più soave negli ardori della canicola d'una immersione in un
bagno fresco? ma l'uomo non si contenta di tuffarsi nell'acqua fino al
collo, egli corre ove il fiume è più rapido, ove il mare è più profondo;
non si limita a nuotare alla superficie, ma vuole entrare sott'acqua
colla testa, e trova talvolta un pescecane che lo divora.... o un filo
d'erba che gli lega una gamba.... e l'uomo s'annega.
L'umana intemperanza riduce la vita ad un incubo insopportabile, quando
si potrebbe goderne come d'un sogno delizioso!
Così pure il vino subì la sorte di tante cose eccellenti e salubri
ridotte nauseanti e pericolose. Bacco ci offre un frutto che contiene le
dosi d'un elisire di lunga vita, e noi troviamo il modo di snaturare
l'essenza di questa divina materia per produrre un tossico ingrato e
micidiale! E i legislatori che condannano ai lavori forzati il falsario
delle monete, non trovarono la benchè minima pena per punire i
falsificatori del vino, che sono causa di gravi mali sociali, che
avvelenano i loro simili, che guastano gli stomachi e i cervelli, che
producono coliche e delitti!
L'oste del mio villaggio, come tutti gli osti che godono questa
impunità, aveva del vino buono e del cattivo. Dapprincipio preferii la
qualità alla quantità, e ne sentii gli effetti benefici al corpo ed
all'anima. Il buon vino mi facilitava la digestione e mi disponeva ad
una benevolenza universale: io sentivo un bisogno di perdonare le
offese, di tollerare le imposte più gravose, dimenticavo i mali
sofferti, speravo nell'avvenire. I più dolci pensieri danzavano nella
mia fantasia come sopra un tappeto di fiori, uno spirito di
conciliazione animava il mio cuore, e mi addormentavo contento e beato,
e sognavo che la contessa Savina mi dava un bacio, che la mugnaia me ne
dava due, e poi si baciavano fra loro, e ci abbracciavamo tutti e tre.
Erano visioni di paradiso!...
Ma io non ho saputo contenermi nei limiti prescritti dalla ragione, dal
buon senso e dall'onestà!
Tuttavia, prima di raccontare i particolari di questo nuovo errore della
mia gioventù, sento il bisogno di reclamare nuovamente le circostanze
attenuanti, anche a benefizio di Bacco, accusato ingiustamente di
connivenza ai miei falli.
No, il vino non è la causa della mia intemperanza, come l'acqua non è
responsabile dei suicidii che si commettono nel suo seno.
Non è l'uso del vino, è l'abuso che mi trascinò... sotto al tavolo.
La giustizia deve passare prima di tutto; nè il vino, nè l'oste sono
colpevoli; io solo devo subire la censura d'una condotta irregolare.
Se il vino lo avessi portato a casa, e me lo fossi bevuto a pranzo, mi
avrebbe fatto del bene. M'ha fatto male perchè ho sbevazzato
all'osteria, senz'ordine e senza misura.
Il vino è assolto.... veniamo all'oste.
L'oste, poveretto! quando s'accorse che il mio cervello divampava, ha
fatto la parte del pompiere, mettendomi dell'acqua nel vino, procurando
con sincera filantropia di moderare l'incendio che non poteva più
spegnere.
È verissimo che nel conto mi ha fatto pagare il vino annacquato come vin
pretto, ma anche questo è lodevole, tenuto conto dell'intenzione che
deve averlo guidato d'infliggere una multa alla mia intemperanza.--Ma
chi ha dato diritto all'oste di far pagare ai suoi avventori più di
quanto gli è dovuto?... Forse l'agente delle tasse, il quale
attribuendogli una rendita immaginaria, superiore alla vera, e
facendogli versare una imposta relativa, aperse la strada
dell'arbitrario, divenuto indispensabile per pagare l'ingiusto!--Dunque
si assolva anche l'oste.
I veri colpevoli furono i falsi amici e i cattivi compagni. Alla testa
di tutti pongo Uguccione della Fagiuola, il quale avendo scoperto in me
i germi d'una nuova passione, che si andavano sviluppando, invece di
mostrarmi i pericoli a cui andavo incontro, mi fece coraggio a
persistere nelle prave abitudini. Egli era molto più vecchio di me, e
l'esperienza doveva tenergli luogo d'educazione. Avrebbe potuto dirmi
amichevolmente:--Bada, Daniele, a quello che fai; tu sei costantemente
innamorato delle cose pericolose, e trapassi con inconcepibile
leggerezza dall'amore della donna all'amore della botte. Sta in guardia,
non fidarti troppo nè dell'una nè dell'altra; entrambe ci lusingano da
principio con prestigiose illusioni, entrambe producono soavi emozioni,
brillano ai nostri occhi con ismaglianti colori, sorridono ai nostri
sguardi, ai primi baci esaltano il nostro spirito, ci promettono la
suprema felicità!... ma poi!... a misura che la passione si riscalda,
esse abusano della loro fatale influenza, intorbidano la nostra mente,
ci espongono a mille pericoli, e ci fanno smarrire la ragione ed il
senno!... Daniele, non fidarti nè della donna nè della botte; tu non sai
quanto il loro profumo sia ingannatore, tu ignori gl'istinti malvagi che
ascondono in seno, e i funesti veleni che circolano nel loro sangue.
Fuggi la donna e la botte. Se m'avesse detto così, io andava frate, e
tutto sarebbe stato finito; rinunziando alle gioie terrene mi assicuravo
almeno il paradiso per l'altro mondo, ma Uguccione tenne un altro
linguaggio.
--Bevi, bevi,--egli mi diceva,--il vino consola di tutto, la vita non ha
che disinganni e dolori, in fondo della bottiglia si trovano le
illusioni e le gioie: bevi e cerca l'oblio dei mali nel bicchiere, esso
ti farà dimenticare la miseria e i tradimenti, gli amori infelici, le
noie della solitudine, le amarezze del destino; bevi e sarai felice.
Ed io bevevo... ma bevevo come un sifone....
Egli mi faceva compagnia, e si stava allegri. Poi, per tenermi più a
lungo all'osteria, mi mise in mano le carte. Dapprincipio giuocavo con
indifferenza, ma a poco a poco m'entrò la passione dei fanti e dei
cavalli, delle spade e delle coppe; gli assi mi mettevano in
convulsione, avrei dato cento scudi per un dieci di danari, mi pareva
impossibile che l'uomo potesse vivere senza le carte, ci pensavo il
giorno e la notte, e le vicende del giuoco unite al liquore di Bacco mi
agitavano il sonno terribilmente. Le giornate mi parevano più lunghe, la
scuola sempre più noiosa; io attendeva con ansietà il momento di fare la
partita, e quando all'ora della mia passeggiata Bitto voleva condurmi
per la campagna a respirare l'aria pura e serena, io obbligava la povera
bestia a rinunziare a questo esercizio salutare per accompagnarmi
all'osteria a passare la sera in quell'afa infetta di vivande, di vino e
di tabacco. Le carte non rispettano le affezioni più sacre, non
riconoscono amici, nè credono ad altri piaceri all'infuori di quelli del
tavolino.
Così in breve tempo divenni giocatore e beone.
Pare impossibile come è facile diventare viziosi quando il cammino della
virtù riesce tanto faticoso! Eppure l'esperienza insegna che l'uomo non
può essere felice se non ha la coscienza tranquilla. Tutti vogliono
essere felici, ma molti fallano la strada, cercando da lontano e per vie
remote ciò che si trova da vicino, anzi dentro di noi.
Io giuocavo e bevevo gran parte della notte; le perdite al giuoco mi
animavano a raddoppiare le partite, e il vino mi eccitava la sete.
Uguccione della Fagiuola colle carte, e l'oste col conto mi pelavano
penna a penna, come si farebbe d'un pollo. Io era sempre pronto ad
essere spiumato da tutti e due; giuocavo come una ruota, bevevo come una
spugna, ed alla notte soffiavo come un mantice.
Una sera giuocando e bevendo, bevendo e giuocando, ho perduto tutto il
denaro che doveva bastarmi per vivere un mese; poi non avendo più
denaro, e volendo prendere la rivincita, ho perduto l'orologio, poi la
giubba, poi la cravatta... poi il cervello e le gambe, e sono andato a
finirla sotto al tavolo!...
Dopo un sonno profondo mi svegliai indolenzito, ammaccato, scapigliato,
sconcio, colla testa pesante e la borsa leggiera, in maniche di camicia.
Ero sotto il tavolo, all'oscuro, dimentico d'ogni cosa, sbalordito.
Chiamai la Rosa. Bitto venne a leccarmi il volto con affezione inquieta,
e pareva che volesse parlarmi. Non sapevo ove fossi, strepitai tanto che
finalmente vidi comparire l'oste in mutande e pantofole, con un fanale
in mano.
--Ha chiamato, signor maestro?
--Altro che chiamato!...
--Ebbene come va?
--Ma!.. mi pare che la vada malissimo... che non potrebbe andar peggio.
Ditemi un po' che cosa faccio qui in questo arnese... e in questo letto
un po' duro, ma a padiglione?
--Eh, quando si ha un buon sonno si dorme da per tutto.
--Benissimo... che ora è?
--Incomincia il crepuscolo.
--E perchè mi avete lasciato in terra tutta la notte?
--Per non farle male... gli ubbriachi bisogna rispettarli.
--Vi ringrazio dell'onore... ma come mi trovo qui?
--Vedo che la cotta è stata proprio solenne, se non si ricorda più
nulla! Ecco come passarono le cose: ha giuocato e bevuto fino a che ha
potuto reggersi in piedi, poi ha scivolato sotto al tavolo. I suoi
compagni volevano accompagnarlo a casa, ma erano cotti fino alle
midolle; ho pensato che andrebbero a dormire in un fosso. Ho detto fra
me: vadano pure, essi sono veterani avvezzi alle bastonate, ma un
coscritto non bisogna abbandonarlo. Se si rompe la testa possono darmene
la colpa, e così mi sono fatto scrupolo di disturbarla. Dormiva tanto
bene che pareva morto.... L'ho lasciato in pace al posto naturale scelto
dalla natura... ed io pure sono andato a dormire.
--Nel vostro letto.
--S'intende... nel mio letto.
--Fortunato mortale!... Ed ove sono i miei panni?
--Li ha giuocati e perduti, con l'orologio... povero maestro!
--Ora mi rammento benissimo... pazienza... è stato il fante di spade che
mi ha tradito!.. Mi dispiace che non avendo più un soldo nè in tasca nè
in casa, non posso pagarvi il mio debito prima d'aver trovato i
contanti.
--Di questo non si dia pensiero, signor maestro, mi pagherà un altro
giorno. Intanto vada a casa a vestirsi finchè le strade sono deserte; e
non si perda di coraggio per così poco. E mi aperse la porta.
Uscii con Bitto, che vedendomi mezzo spoglio mi guardava con
compassione.
Io mi vergognavo davanti al mio cane.
Spirava una fresca brezza mattutina, il cielo era sereno, l'aurora
tingeva i monti d'un roseo dorato. Il sorriso della natura mi faceva
male. Avevo in saccoccia la chiave di casa, entrai come un ladro,
penetrando con precauzioni infinite nella mia stanza per non essere
sorpreso in quello stato miserevole dalla Rosa. Il sole si alzava quando
io poggiava sul cuscino la mia povera testa pesante, e grave di pensieri
dolorosi ed umilianti.
All'indomani tutto il villaggio parlava della mia avventura. Uguccione
della Fagiuola l'aveva raccontata in piazza, il campanaro in canonica,
il cursore in ufficio, le donnette ai mariti. Le autorità civili ed
ecclesiastiche censurarono altamente la condotta scandalosa del maestro,
tutti ciarlavano, commentavano, infioravano, esageravano il fatto e
ridevano.
Se la coppa dell'amore appressata due volte alle labbra mi lasciò sempre
deluso, anche in mezzo ai fiaschi... ho fatto fiasco!... Tre delusioni
successive era troppo! Avrebbero bastato a schiacciare un gigante; io,
che non era che un insetto, mi trovai polverizzato addirittura.
Più di tutto mi crucciava il pensiero di ciò che avrebbe pensato la
famiglia Bruni de' miei stravizii, e mandai la Rosa con un pretesto per
esplorare il terreno. Al suo ritorno le andai incontro per abbreviare la
mia ansietà.
--Ebbene, che cosa pensano di me?...--le chiesi.
--Dicono,--mi rispose,--che siete un buon ragazzo, onesto e dabbene,
vittima degli astuti, degl'intriganti, degli arruffoni, che abusando
della vostra bonarietà vi rendono tributario dei loro disordini, dei
loro vizii, e poi vi denigrano e vi mettono in ridicolo.... La signora
Agata vi aspetta dopo pranzo per fare una gita con sua madre, non
potendo il signor Nicola accompagnarle a motivo delle sue occupazioni.


XIV.

All'ora fissata v'andai. M'aspettavo una ramanzina in piena regola,
invece fui sorpreso che non parlassero nemmeno de' miei malanni. Mi
accolsero colla solita benevolenza, chiedendomi scusa d'avermi
incomodato; ma conoscendomi compiacente e gentile, le signore mi
pregavano di accompagnarle in un sito deserto della montagna, essendo il
signor Nicola impedito, e non osando avventurarsi sole con Martino in
quei greppi.
Partimmo subito, seguiti dal domestico che portava un cesto coperto, e
preceduti da Bitto che andava ad esplorare il terreno, ed abbaiava alle
pecore che pendevano dall'erta e ci guardavano passare con attenzione e
diffidenza. Pare che certe bestie non abbiano troppo buona opinione
dell'uomo.
La strada fu lunga e faticosa per l'ardua salita, ma la buona compagnia,
l'aria fresca ed elastica e l'aspetto pittoresco e variato del paesaggio
me la fecero sembrare agevole e breve. Strada facendo aveva chiesto dove
s'andava, e l'Agata mi aveva risposto:
--Andiamo a fare un po' di bene... ve ne dispiace?
--Ne sono contentissimo, e ne sento bisogno io che faccio tanto sovente
del male.
Non mi rispose, e poco dopo continuò:
--I nostri montanari hanno l'abitudine d'emigrare in lontani paesi per
sostentare le loro famiglie col lavoro e fare qualche risparmio.
Talvolta ritornano a casa ricchi o almeno ben provveduti, talvolta
affranti dagli stenti, dalle privazioni, ammalati e più poveri di prima.
Ecco il nostro caso. Si tratta di un padre di famiglia ritornato misero
e infermo.
Intanto eravamo giunti davanti una catapecchia affumicata che sorgeva
come una vedetta a picco della valle, in un angolo sporgente a diritta
della strada maestra. Eravamo ad una grande elevazione; si vedeva al
basso il torrente come un nastro azzurro, serpeggiante fra le piccole
colture frastagliate, poi come un anfiteatro a scaglioni ove verdeggiava
un magro frumento in piccoli spazi di terreno sostenuti da muricciuoli a
secco, qualche casupola sparsa e biancheggiante fra i cespugli, e più in
alto i pascoli interrotti dalle frane e dalle valanghe, sparsi di alcuni
castagni giganti che si aggrappavano ai crepacci colle grosse radici;
grandi e piccoli macigni franati dalle cime erano sparsi sugli strati
erbosi che giungevano al margine dei precipizi. In alto e da lontano le
aride giogaie erano spruzzate di neve, che brillava al sole e spiccava
sull'orizzonte turchino.
A sinistra della strada s'alzava un bosco di abeti, che secondando le
curve della montagna andava a perdersi fra le gole lontane. Sul margine
del bosco in cima al muraglione sostenente il terreno tagliato dalla
strada, pascolava una capra, vicino alla quale sedeva una bambina bionda
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