Il bacio della contessa Savina - 13

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--Solo una vaga apprensione mi arresta.... un timore indeterminato di
pericoli ignoti.... di non bastare alla vostra felicità.... di non avere
virtù sufficiente per fissare la vostra vita.... Ve lo confesso
francamente: io non avrei la forza di sopravvivere al minimo
disinganno.... Intendo offrire tutta me stessa a chi mi possa promettere
altrettanto.... per la vita.... per l'eternità.... senza restrizione di
sorta.... fino l'ultimo pensiero.... O tutto o niente!...
Dicendomi queste cose il suo occhio aveva assunto un'animazione
straordinaria, che dava alla sua attitudine una posa decisa ed energica.
Era un nuovo aspetto della sua bellezza. Fiera come una regina che
impone le sue condizioni all'alleato, essa attendeva una risposta breve
ed esplicita come la sua sentenza. Non la feci attendere lungamente:
--Avrete tutto!...--le risposi.--Ve lo giuro sull'anima di mia madre!...
Essa mi stese francamente la mano, dicendomi:
--Sarò vostra per la vita!
--Dunque mi amate veramente?
--Sì, vi amo....
I nostri sguardi dissero molto di più, perchè non vi sono parole in
nessuna lingua per esprimere certi sentimenti dell'anima. L'eloquenza
dell'amore sta nel silenzio.
Stemmo fino a notte inoltrata soli ed al buio, senza scambiare una
parola. Io aveva presa una sua mano nelle mie, e un fluido arcano aveva
messo in comunicazione i nostri cuori che corrispondevano fra loro.
La Menica rientrando accese il lume, Martino mise della legna sul fuoco
che era quasi spento, e i signori Bruni, ritornati dalla loro
escursione, ci trovarono seduti uno vicino all'altro come due colombi in
un nido.
All'indomani scrissi una lunga lettera a mio zio nella quale gli svelavo
il mio amore per l'Agata e il progetto di matrimonio chiedendo il suo
assenso.
Non appena partita la lettera, rammentandomi il passato, incominciò a
frullarmi per la testa che il lirismo delle mie frasi potesse produrre
un funesto effetto sull'animo positivo di mio zio. Egli che giudicava
l'amore coll'aritmetica, che alla poesia d'un primo affetto opponeva
l'ostacolo dei milioni, che sfoggiava tutta la sua rettorica per
dimostrarmi che un misero non ha il diritto d'ammirare la bellezza
risplendente fra i fulgori della fortuna, egli avrebbe riso certamente
anche questa volta della mia nuova pretesa.
Ma ov'era la mia colpa, s'io non sapevo trovare le perle negli stracci,
se, attirato dalla bellezza d'un volto e dal prestigio d'un sorriso,
m'imbattevo sempre nella trappola dello scrigno, senza vederlo?...
È dunque facile immaginare quale fosse la mia sorpresa quando ricevetti
una lettera dello zio, che aderiva pienamente al mio piano, lodava
l'ottima scelta, mi muniva d'una commendatizia pel signor Nicola, nella
quale appoggiava la mia domanda con argomenti decisivi, e prometteva
d'intervenire alle nozze. Però, secondo i miei presentimenti,
l'aritmetica non mancava, ma questa volta i calcoli del buon zio non
erano fatti per dimostrare la mia inferiorità, ma per rialzare il mio
valore. Non si trattava più d'una sottrazione, ma d'una moltiplica.
Vedendo la necessità d'accogliere degnamente una sposa, avvezza agli agi
della vita, esso destinava immediatamente una somma per l'allestimento
della casa e le spese occorrenti, e mi faceva un annuo assegno, per
mettere la mia condizione economica in armonia con quella della sposa.
Questi atti generosi mi commossero fino alle lagrime e mi posero in
condizioni tali da poter chiedere la mano d'Agata senza arrossire. Un
padre affettuoso non avrebbe potuto fare di più, e la mia risposta fu
quale doveva essere quella d'un figlio che riconosce il beneficio, e che
esprime la sua gratitudine con tutta l'espansione del cuore.
L'esito della domanda formale della sposa fu quale potevo desiderarlo.
Il signor Nicola mi gettò le braccia al collo dicendomi che da quel
momento mi considerava quale suo figlio, la signora Giovanna mi baciò
con pari affezione, e l'Agata, che ci guardava commossa, mi parve più
bella che mai; la Menica piangeva della nostra allegrezza, e Martino,
incerto se dovesse ridere o piangere, restava fra le due, cogli occhi
lagrimosi e la bocca ridente, come le selci delle sue montagne
all'aurora d'un giorno sereno, bagnate dalla rugiada e rischiarate dal
sole.
L'epoca del matrimonio venne fissata per le vacanze autunnali; allora
gli sposi sarebbero liberi, lo zio avrebbe risparmiato di fare il
viaggio apposta fermandosi al villaggio dopo i bagni, e intanto ci
restavano alcuni mesi di tempo per mettere in assetto la casa e
apparecchiare il corredo. Quell'inverno scorse rapidamente, e fu uno dei
più fausti della mia vita. La felicità dell'aspettativa d'un bene
assicurato è superiore alla felicità del bene conseguito, perchè alla
più dolce realtà si accoppia sempre qualche piccola dose d'amarezza.
L'assoluto non esiste che nel cervello.
Facevamo ogni sera lunghe letture confacenti allo stato dell'animo.
Leggevamo dei romanzi nei quali la vita era una burrasca, e l'amore
trovava ogni sorta d'ostacoli per giungere al suo scopo; il confronto
colla tranquilla esistenza, che sorrideva ai nostri voti, accresceva il
valore di quella pacifica condizione, che ci rendeva tanto facile ciò
che a personaggi eroici costava sforzi inauditi.
I nostri occhi s'incontravano sovente, e mettevano i cuori in
comunicazione; talvolta l'Agata poggiava leggermente il suo piede sopra
il mio, e quella dolce pressione rendeva più soave l'armonia delle
nostre anime, producendo l'effetto dei pedali sul pianoforte.
Al di fuori, il nostro matrimonio era divenuto il soggetto principale di
tutti i discorsi. Si parlava della mia fortuna, e si diceva che il
signor Nicola sacrificava l'unica figlia, concedendola in isposa ad un
povero maestro. Altri rispondevano che un maestro foderato d'un canonico
diventava morbido come un cuscino imbottito. Le donne citavano le mie
prodezze al mulino e mettevano fuori dei cattivi pronostici; chi
ricordava la notte all'osteria, il vizio del giuoco e del vino, chi mi
dipingeva come uno scioperato, senz'ordine e senza giudizio, e tutti
facevano le meraviglie della incredibile condiscendenza dei Bruni.
Basta avere una fortuna a questo mondo perchè gli oziosi e i malevoli si
scaraventino contro di voi, vi facciano l'esame di coscienza come i
giudici inquisitori, vi contino in tasca i quattrini, e vi taglino i
panni indosso. Tutta invidia!... Nella pentola sociale bolle sempre
l'antico intingolo delle streghe, composto di mille sozzure, ove si
confondono i rospi coi serpenti, e tutte le carogne che appestano
l'aria. Non c'è rimedio, bisogna lasciare che la pentola bolla senza
coperchio, affinchè il vapore non si condensi e scoppii con grave
pericolo.
Uguccione della Fagiuola, che era stato il primo a trascinarmi
all'osteria e a mettermi in mano le carte, era il primo anche a
denigrarmi ed a pungermi colla sua lingua di vipera. Egli sosteneva che
tutti i canonici hanno dei nipoti che vengono rappresentati sulla cappa
magna da quelle code nere che spiccano sulla pelle dell'ermellino, come
tante macchie!... Colui ch'era stato il fomite principale de' miei
stravizi diventava il propagatore più maligno delle contumelie. I
malvagi sono sempre funesti; bisogna fuggire il loro contatto. Essi
vivono nei siti uggiosi e nel fango come i funghi velenosi; e sono
veramente i funghi sociali.
Uguccione coll'organo della chiesa scorticava le orecchie ai divoti, e
coll'organo della sua voce cavava la pelle ai galantuomini. Esso
rappresentava a perfezione la maldicenza con tutte le sue voci discordi
ed abbominevoli. Invece il campanaro, venuto a cognizione del mio
matrimonio, raddoppiò le sue riverenze, coll'intenzione di raddoppiare
il suono dei sacri bronzi, il giorno delle nozze, a gloria ed onore
degli sposi.... e della mancia che si aspettava in ricompensa del
frastuono col quale assordava il paese. Esso era l'avidità in persona.
Ugolino Gonzaga si struggeva di rancore, vedendo un maestruncolo del
villaggio salire più in alto di lui, che credeva di rappresentare la
scienza medica colla scatola delle pillole, e non poteva rassegnarsi che
il sillabario avesse soperchiato la terapeutica. Esso faceva la parte
dell'invidia. Il medico censurava il possidente più ricco del paese che
scendeva a stringersi in parentela con un orfano sprovveduto di censo,
quando avrebbe potuto maritare la figlia a un signore.
Insomma la maldicenza, l'avidità, l'invidia, la superbia serpeggiavano
nel piccolo villaggio, unitamente all'ignoranza e ai pregiudizii che ne
formavano il fondo.
Nauseato di tante ciarle volgari, irritato da tante calunnie, inasprito
da così malevoli insinuazioni accolte da una ciurmaglia d'idioti, io
esclamava:
--La natura è bella al villaggio, ma sarebbe più gioconda se si potesse
distruggere la razza malvagia degli abitanti!...
Poi ritornato in calma, e moderato dalla ragione e dal cuore,
riprendevo:
--Distruggerla moralmente, come si distrugge l'ignoranza, col mezzo
dell'educazione, trasformando quegli animali selvaggi in uomini
ragionevoli, onesti e civili.


XIX.

Amore e sdegno risvegliarono la mia musa; il miraggio della gloria
ritornò a inebbriarmi, i sogni teatrali di Milano vennero nuovamente a
cullare le mie speranze, ripresi la tragedia, ispirato dalle diverse
passioni che mi agitavano l'anima innamorata e sdegnosa.
Scrivevo lunghe tirate di versi da perdere il fiato, volavo all'empireo
sull'ali dell'iperbole, vedevo gli uomini al basso piccini piccini che
si raggiravano come formiche intorno al formicaio, e la mia elevazione
mi lusingava di giungere agli astri.
Finalmente finito, corretto, messo in netto, declamato nella solitudine
della mia stanza, il mio _Lucchino Visconti_ mi parve un capolavoro.
Desideroso di farne una prima prova, senza esporre il mio nome, dissi di
aver ricevuto da un amico di Milano il manoscritto di una tragedia, e
pregai l'Agata di fare degli inviti per darne lettura.
Per tale trattenimento letterario venne fissata una domenica, si
apparecchiarono dei rinfreschi e si mandarono ad invitare i notabili del
villaggio e dintorni. Tutti coloro che senza saperlo mi avevano servito
di modello facevano parte del pubblico: il parroco, il medico e sua
moglie, il farmacista, l'organista, il signor Nicola, e per giunta i
miei colleghi del circondario, i curati delle vicine parrocchie, i
cappellani, i fabbricieri, i sagrestani, i segretari comunali e i
cursori.
Alla sera del giorno fissato io giunsi col mio manoscritto sotto il
braccio, e trovai la società raccolta che mi attendeva con grande
aspettativa. Il salotto era stato apparecchiato opportunamente, le sedie
formavano un semicerchio intorno d'un tavolo coperto d'un tappeto verde,
e munito d'un bicchier d'acqua e d'una lucerna. Il paralume,
concentrando la luce sul manoscritto, lasciava nella penombra gli
uditori, ch'io non vedevo. La lettura incominciata alle otto finì alle
dieci. Tutto concentrato in me stesso io declamava con passione, con
impeto, con ardore o con tenerezza secondo i casi. Alla fine d'ogni atto
mi riposava pochi istanti, ed allora scoppiavano degli applausi
clamorosi che raddoppiavano la mia forza.
Finita la lettura, il battere delle mani e dei piedi, le acclamazioni
iterate, le esclamazioni di sorpresa, gli elogi enfatici ed entusiastici
annunziarono un vero trionfo.
--È un capolavoro!... stupendo.... inarrivabile!...--dicevano in
coro,--è un'opera destinata ad uno strepitoso successo.... l'autore è un
genio.... altro che Alfieri!...
Incominciò il rinfresco; vini fini, pasticcerie, salumi, liquori, caffè,
una gozzoviglia improvvisata, ma abbondante e saporita; tutto si
consumava, tutto scompariva nelle bocche spalancate come voragini, i
tavoli forniti di squisiti manicaretti restavano spogli come le campagne
dopo il passaggio delle cavallette. Uguccione della Fagiuola, l'uomo più
mordace del paese, non aveva il tempo da biasimare la tragedia: la
maldicenza tace quando ha la bocca piena.
Calmato il primo furore dell'entusiasmo e dell'appetito, s'erano formati
dei gruppi secondo le condizioni e le tendenze delle persone, chi per
digerire in pace e tranquillità quanto aveva divorato, chi per sputare
sentenze, chi per udire modestamente le opinioni dei giudici più
competenti.
Il dottore, colla solita prosopopea, lisciandosi i capelli, alzando la
testa, accomodandosi i solini, circolava pettoruto e tronfio come un
diplomatico ad un ballo di corte, ascoltando le conversazioni con un
sorrisetto beffardo, alzando le spalle di tempo in tempo in aria di
canzonatura, con evidente desiderio d'essere invitato a dire il suo
reputato parere.
Molti se ne avvidero, e finita la refezione, divorate perfino le
bricciole, e tracannata fino all'ultima goccia, egli venne pregato da
varie parti di presentare una critica assennata e sapiente di quel
lavoro letterario, lasciando da parte le opinioni volgari ed
incompetenti, pronunziando un giudizio definitivo e inappellabile. Dopo
essersi fatto pregare alquanto, colle solite giustificazioni della falsa
modestia, finse di cedere per cortesia al voto generale, e andò a
sedersi nel centro dell'uditorio, come un professore che deve dare la
sua lezione. Incominciò a soffiarsi il naso e a tabaccare con gravità,
poi chiuse gli occhi e si passò una mano sulla fronte, come per
raccogliere i reconditi pensieri che vagavano nelle cellule del suo
cervello, e finalmente, accennando di far silenzio, diede un'occhiata
all'intorno e incominciò in questi termini:
--Signore... e signori, è cosa ardua ed ardita ad un tempo il voler
giudicare un lavoro importante dopo una sola audizione. Tuttavia, senza
veruna pretesa, eccovi per sommi capi il mio giudizio: prima di tutto
questa produzione drammatica non può dirsi tragedia, a stretto rigore di
termine, e secondo le classiche tradizioni. Se gli antichi devono essere
maestri, essi ci fecero vedere che ogni catastrofe che non finisca col
ferro non ha diritto di vestire il coturno....
Siccome la maggior parte dell'uditorio non intendeva niente alle
elucubrazioni dottrinarie del dottore, così le trovava sublimi. Per
gl'idioti il sublime sta nell'ignoto. Egli continuava con sussiego
magistrale:
--Il brando e il pugnale sono i soli arnesi degni degli eroi da
tragedia, il veleno è cosa volgare, buono pei drammi prosaici dei teatri
diurni. La tragedia vuol sangue!... sangue, non droghe!... Lucchino
avvelenato fa la figura d'un marito babbeo vittima di un farmacista!...
Qui scoppiarono delle risa da varii punti della sala, il farmacista
fremeva, la signora Pasquetta si dimenava sulla sedia come se fosse
seduta sulle spine. Soddisfatto dell'effetto prodotto, il dottore
sorrise alla sua volta, e poi riprese il discorso:
--L'intervento della farmacia mi guasta la tragedia, il decotto fa
nausea, il tiranno colla colica diventa ridicolo.
Allora le risa ripresero con maggior forza di prima, e l'oratore dovette
subire una lunga interruzione. Egli stesso cercava invano di frenare la
ilarità che lo invadeva, e non riusciva che a singhiozzi interrotti.
Finalmente si giunse a ristabilire il silenzio ed egli riprese:
--Se il tiranno è un babbeo, suo fratello, l'arcivescovo Giovanni,
lasciato in disparte negli affari di Stato, fa la figura d'un idiota!...
--È giusto....--disse il parroco don Vincenzo Liserio.
--Ed Uguccione della Fagiuola,--soggiunse il dottore,--è un
imbecille!...
--Verissimo!--esclamò Tobia.
--Ma ciò che toglie all'azione ogni dignità, ciò che fa cadere il fatto
principale a livello degli intrecci comici di Pulcinella, si è la
balordaggine del protagonista che non s'avvede d'essere tradito dalla
moglie....
La signora Pasquetta diventò pallida, il farmacista si fece rosso, il
pubblico non osava fiatare, e il dottore imperturbabile proseguì:
--Per me dichiaro apertamente che _Lucchino Visconti_ non merita gli
onori della tragedia, la quale non deve occuparsi che degli eroi... o
degli scellerati, e lasciar da banda i minchioni. L'eroe, tradito
nell'onore, immerge la spada fino all'elsa nel cuore dei traditori!...
La signora Pasquetta diede un guizzo dal raccapriccio, ma uno sguardo
rassicurante del farmacista parve calmarla.... Il pubblico rideva sempre
di più.
--Avete ragione di ridere,--continuava il dottore,--i mariti ignoranti
non sono fatti per la tragedia, ma per la commedia. Lucchino è una
vittima come se ne vedono tante! La moglie infedele lo rende ridicolo
facendolo morire nel suo letto per mezzo di un farmacista, dopo
d'avergli gettato nel fango la corona ducale, e d'avergli messo sulla
testa la corona... del martire!...
A questo punto le risa sbardellate divennero convulse, non si sentivano
che gemiti e guaiti, pareva che subissasse la camera, anzi la casa; la
mimica che accompagnò le ultime parole del dottore era riuscita
irresistibile. Bisognava ridere o morire.
Il critico ebbe un successo molto superiore a quello ottenuto dal
tragico; così alla tragedia promessa era succeduta una farsa
impreveduta, e lo spettacolo fu completo.
Il dottore assaporava il successo con ebbrezza, vedeva in lui l'uomo
felice, e a chi gli faceva degli elogi, egli rispondeva:
--Ecco, io son fatto così!... non ho riguardi per nessuno... a chi tocca
tocca... io intendo la critica in questo modo... tanto peggio per le
vittime... non c'è merito... la franchezza del mio carattere è un dono
di natura.
Così finì allegramente quella serata, con grandissima soddisfazione
degli intervenuti, e specialmente del dottore, che ritornandosene a casa
a braccetto della moglie, gongolava del suo trionfo e ripeteva al
farmacista che li accompagnava:
--Dite la verità, Gaspare, vi pare che io abbia sfoderato dello
spirito?... Non voglio adulazioni, ma dovete confessare che ero in vena.
È inutile, ci vogliono delle occasioni favorevoli per farsi conoscere.
Io era nato per il fôro e la tribuna!... sarebbe la mia passione
demolire gli avversari. Povero _Lucchino Visconti_, l'ho
polverizzato!... Ma è un fatto positivo: il tempo delle tragedie è
finito!...
All'indomani, entrando in casa Bruni, il signor Nicola mi venne incontro
dicendomi:
--Ti prego per carità di non venirmi più a leggere delle tragedie, se
non vuoi farmi morire dal ridere... mio Dio! Dopo iersera mi duole
ancora la milza!...
Io corsi dall'Agata per sentire il suo parere, essendomi stato
impossibile di chiederglielo la sera antecedente.
--Avrei due cose da dirti in proposito,--mi rispose,--ma non posso
dirtene che una sola.
--Bene, intanto sentiamo questa.
--Tu sei l'autore della tragedia.
--È vero. Chi te l'ha detto?
--L'ho sentito dentro di me. Oramai ti conosco, e quando si conosce
l'albero, si conoscono le frutta.
--Questa è un'idea... orticola. Ma nelle lettere non è così: l'arte
copia la natura, o crea degli esseri immaginari che non hanno verun
rapporto coll'indole dell'autore.
--Scusami, ma io scopro sempre l'autore nel libro, qualunque sia il suo
prodotto.
--Dunque tu credi che un autore che racconta una storia di briganti
omicidi abbia nell'anima qualche cosa dei delitti de' suoi personaggi?
--È tutto il contrario. Io credo invece che i briganti assassini d'un
racconto abbiano sempre qualche cosa dell'autore... che li ha messi al
mondo. Per esempio: un'anima mite e serena non è capace, non solo
d'inventare, ma nemmeno di copiare esattamente dal vero personaggi
turbolenti e feroci; nè una mente fiera, esaltata, rabbiosa sarebbe
capace di creare tipi delicati ed angelici.
--Potrei citarti mille esempi contrari a quanto asserisci....
--Contrari in apparenza, ma in realtà no... sarebbe assurdo; dovresti
provarmi che in un libro manca l'autore... L'uomo non vede che la
superficie, e quando tiene in mano un bel pomo non si immagina che
dentro vi sia un verme che lo divora. Il crogiuolo per fondere le anime
non è ancora trovato, quindi non è possibile scoprire ciò che si mescola
a questa parte ignota dell'uomo; però sappiamo che la natura ha le sue
armonie, e possiamo dedurre dal noto all'ignoto che, come ogni rosa ha
le sue spine, ogni limpido ruscello il suo fango, così può anche darsi
che nell'anima dell'uomo più mite ed onesto si nasconda qualche punto
nero che sfugge ai nostri sguardi, come nell'anima dell'uomo tenebroso
si rifletta qualche raggio di luce.
--Potrebbe essere così, ma nel caso concreto della mia tragedia io non
vedo che un marito tiranno, un rivale ribaldo, una moglie infedele, un
amante insidioso... o vuoi forse farmi figurare sotto le spoglie
dell'amante insidioso?
--Non dico questo... lo vedremo in seguito; finora veramente non ti
posso ravvisare sotto quel triste soggetto.
--Dunque ove mi vedi?...
--Ti vedo e non ti vedo... ti sento piuttosto, mi pare di scorgerti fra
le linee, dietro i punti e le virgole. Tu cerchi di nasconderti nei
vani... dietro una parentesi... ti metti in maschera... ma io ti
conosco, e sento il tuo alito.
--Il tuo occhio inquisitore mi fa paura!
--Non fare il male... e non abbi paura.
--In ogni modo, questa è una teoria affatto nuova....
--Ebbene, domanderò il brevetto d'invenzione, col privilegio di tenerlo
a mio vantaggio per un decennio.
--Siamo intesi.... Ora ritorniamo alla tragedia, e dimmi francamente la
tua opinione.
--Questa è la seconda parte... che non posso dire.
--Cattivo segno!... vedo che non ti piace.
--Ti prego di dispensarmi da un giudizio... io non so mentire... e temo
che l'esser sincera mi faccia torto.
--Nulla può farti torto nel mio cuore; anzi la tua sincerità mi sarà
grata, come una nuova prova della rettitudine del tuo carattere.
--Ebbene, poichè vuoi assolutamente che ti dica la verità, devo
confessarti che la tragedia in generale non piacque....
--Ma e gli applausi?
--Meno poche eccezioni, dormivano tutti. Quando alla fine dell'atto non
intendevano più il suono della tua voce, si svegliavano ed applaudivano
con frenesia, per far credere che ascoltassero. Gli applausi più
clamorosi li udisti alla fine, e volevano dire: finalmente è finita la
noia, e incomincerà la refezione. È vero che i più intelligenti
ascoltavano, ma non potevano dissimulare interamente la fatica; a certi
punti tragici ridevano per alcune analogie trasparenti....
--E il dottore non li vedeva ridere?
--Sai bene che il dottore non vede niente!
--Ma dimmi finalmente la tua opinione.
--Giudica dall'effetto generale... la tragedia riuscì a tutti noiosa.
--Ma io non faccio caso di quel pubblico... idiota. Tu sei più
intelligente di tutti coloro... e tu non dormisti.
--Non tieni conto del mio affetto?... ogni tuo lavoro non può che
interessarmi assai... ma altro è l'interesse dell'affezione... altro un
giudizio imparziale e spassionato.
--Dunque il tuo giudizio imparziale si è che la mia tragedia è noiosa?
--In complesso è noiosa... è inutile farsi illusioni. Vi sono però varie
parti interessanti. Per esempio, quando parli d'amore vi sono
espressioni vere, sentite profondamente, veramente ispirate e
sublimi!... ma il resto è troppo lungo, prolisso... insomma noioso.
--Ti ringrazio,--io conchiusi,--apprezzo il valore della tua sincerità,
e saprò trarne partito.
--Ma figurati!... nemmeno per sogno!--e parlammo d'altro.
Ora confesso che non solo m'ero offeso, ma dentro di me avevo giudicato
l'Agata una saccentina sconclusionata, incapace di dare un giudizio
apprezzabile sopra un simile lavoro. Dissimulai la stizza dell'amor
proprio oltraggiato, e presi le mie misure in segreto per ottenere un
giudice competente.
Avendo saputo che c'era a Sondrio in quel momento un capocomico
generalmente stimato come uomo esperto nell'arte sua non solo, ma
altresì di molto merito letterario, gli mandai il manoscritto pregandolo
di leggerlo, e di dirmene francamente la sua opinione.
Pochi giorni dopo mi restituì la tragedia, con una lettera cortesissima,
ma sincera. Mi diceva in poche parole: «Non voglio ingannarvi, nè
adularvi, sarebbe far torto a chi non lo merita. Si vede in voi un
giovine ingenuo ed onesto, esaltato da una passione che gl'ispira
pensieri elevati, sogni poetici, qualche buon verso. Tutto il resto non
ha valore.
«Non siete chiamato pel teatro, ne ignorate completamente l'arte, e
tutti gli amminicoli che assicurano il buon successo, e vi manca la
scintilla che rischiara la via. Smettete l'immane sforzo che deve
costarvi un lavoro letterario; e pensate che la mediocrità si affatica
invano per arrivare alla gloria, riservata al solo genio.
«Attribuite la mia severità al desiderio d'esservi utile. Una indulgente
reticenza che vi lasciasse nel dubbio potrebbe nuocere al vostro
avvenire. Basta talvolta una vana speranza per mantenerci sulla via
dell'errore.
«Credendo di saper nuotare, l'uomo s'affoga; invece di fargli animo a
proseguire con nuovi tentativi è meglio prenderlo addirittura pei
capelli, e gettarlo sulla riva. Il vostro lavoro rivela un intelletto
ricco di molti doni di natura. Ogni uomo intelligente e laborioso può
raggiungere una meta che ricompensi le sue opere. Voi avete fallato
indirizzo, siete entrato in una foresta piena di triboli. Uscite di là,
cercate altrove la vostra strada, e vivete felice.»
La parola franca ed onesta di quell'uomo dabbene fece svanire
intieramente il sogno de' miei trionfi e della fortuna chimerica che
aveva illuso la mia gioventù, e risparmiò al pubblico dei teatri quelle
noie alle quali è condannato sovente dalla caparbietà dei mediocri, che,
prendendo per genio la loro boria, si ostinano a voli ripetuti, i quali
finiscono in vergognose cadute.
Icari della scena, colle ali saldate a cera, e che, per uscire dal
labirinto sociale, vanno a cadere nel mare drammatico; gente cui torna
più caro un biasimo che la classifica fra le persone in marsina, di un
elogio che la metta colle giacchette; vogliono essere piuttosto autori
seccanti e fischiati che onesti pizzicagnoli: aristocrazia della
democrazia!...
Ma non si deve disputare dei gusti.
Io invece ringraziai il capocomico con pari sincerità della sua, ed ho
avuto mille occasioni di benedirlo. Senza la sua leale franchezza, chi
sa di quanti piaceri mi sarei privato nella vita, di quanti ameni
passeggi mattinali pei campi, di quante buone letture sul canapè!... per
abortire qualche sconcia tragedia, o qualche dramma turpe e
sonnifero!--Benedetto il capocomico che mi ha aperto gli occhi,
tenendomi abbassato il sipario.
Cadutomi il velo che mi offuscava la vista e riconosciuto l'acume che
avea guidato l'Agata nel suo giudizio, le confessai francamente la
colpevole diffidenza che mi spinse al nuovo tentativo; manifestandole in
pari tempo l'effetto ottenuto e chiedendole scusa del mio stolto
orgoglio, le giurai che la mia prima tragedia sarebbe stata anche
l'ultima.
--Ho tracannato un fiasco solenne!...--le dissi,--e ne sono morto. I
fiaschetti ubbriacano, i fiasconi uccidono addirittura. Se almeno mi
fossi contentato del tuo giudizio!... ma la vanità si ribella alle
critiche sincere e benevole; l'orgoglioso si ostina a credersi un
destriero, fino a che un giudice competente gli dica chiaro: sei un
ciuco!... Ho avuto torto! e ti ringrazio della tua sincerità....
--Ho preferito il coraggio di dirti il vero, quantunque amaro, alla
viltà d'una menzogna,--essa mi rispose; e dopo breve pausa, riprese:--ho
sempre pensato che questa deve essere la norma costante di coloro che
vogliono vivere insieme onestamente, formando una famiglia proba e leale
fino allo scrupolo... Del resto,--essa aggiunse,--se ti manca
l'attitudine a scrivere pel teatro, ti confesso alla mia volta che non
ne sono troppo dolente, e mi pare, da quello che ne dicono i libri e i
giornali, che dietro le scene non si tenga scuola di morale, e piuttosto
si celino dei pericoli per la pace delle famiglie, che è miglior cosa
evitare.
--Saresti forse gelosa?
--Sì.... sono molta gelosa, te lo dichiaro. Chi non teme non ama. Non
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