Il bacio della contessa Savina - 16

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bacio in aria, una puerilità, una bolla di sapone, scoppiata da tanti
anni! e quella inezia aveva la forza di farmi infelice! ma perchè?...
perchè mia moglie mi amava talmente, che era gelosa perfino del
passato!... Dunque era l'eccesso della mia felicità che mi rendeva
infelice! era la dolce sorgente d'amore che avvelenava i miei giorni,
era il miele che mi sembrava sì amaro!... era per un bacio e in mezzo a
due amori che io mi struggevo d'odio contro la vita!...
I paradossi mi riconducevano al domicilio coniugale, rassegnato a vivere
o a morire, secondo il destino.
Non ho potuto mai sopportare lungamente i musi lunghi, ho sempre
preferito l'odio al rancore, la morte ai tormenti; perciò dopo le lotte
fui sempre il primo a presentare i preliminari di pace, e siccome
l'avversario aveva quasi sempre consumate le munizioni e bruciate tutte
le polveri, così si andava presto d'accordo. A poco a poco il barometro
segnava il sereno, ed il termometro indicava una temperatura più calda.
Ma le vicissitudini dell'atmosfera e i quarti di luna esercitano
realmente una costante influenza sul carattere della donna: e mi era
impossibile di realizzare sotto al piccolo tetto domestico la felicità
della pace perpetua, sognata da certi filosofi per l'umanità tutta
intiera.
Un nonnulla dava soggetto talvolta alle nostre beghe; uno scherzo
degenerava in alterco, o finiva in considerazioni melanconiche.
Un giorno, passeggiando in giardino, l'Agata venne a posarmi un fiore
nell'occhiello dell'abito. La ringraziai con un bacio sulla fronte, ed
essa mi disse:
--Te lo pongo a credito... ma a condizione che se l'altra paga, io
sospendo i pagamenti.
--Che cosa vuoi che paghi?...--io risposi con qualche
impazienza,--nessuna donna ha debiti verso di me.
--Sta zitto!...--riprese,--non negare almeno che sei in credito d'un
bacio!...
--È una strana pretesa davvero,--io soggiunsi,--la tua gelosia ti
esagera di molto il diritto degli innamorati. Essi non tengono conto nè
scrittura doppia dei crediti e dei debiti delle loro passioni, nè
possono esigere la liquidazione di partite abbandonate da un pezzo.
--Eppure scommetto cento contro uno che la contessa desidera pagarti il
suo debito.
--Prima di tutto questo è un oltraggio che offende gratuitamente una
persona onesta, ma è il solito della gelosia. In secondo luogo ti ripeto
per la millesima volta che la contessa non ha verun debito verso di
me... io non le ho fatto cambiali, e se un bacio è una cambiale, essa
non l'ha pagata alla scadenza, io non le ho fatto in tempo il protesto,
e quindi non ho più diritto all'esazione. Metti che sia fallita, e
finiamola.
--Io conosco dei falliti galantuomini,--essa riprese,--che sono andati a
far fortuna in America, e al loro ritorno hanno soddisfatto interamente
ai loro impegni.
--Consolati, sono casi tanto rari,--io le risposi,--che non hai nulla a
temere.
Ed essa di rimando:
--Ciò che è raro non è impossibile!...--e dopo una lunga pausa, quando
io sperava che fosse caduto il discorso, essa esalò un profondo sospiro
e riprese:--le donne hanno una seconda vista e presentimenti che non
fallano. Io sento dentro di me che un giorno tu riceverai un bacio dalla
contessa Savina!...
--No... no... mille volte no, nè essa vorrebbe darmelo, nè io vorrei
riceverlo; i nostri cuori vennero separati per sempre, noi non siamo più
liberi, siamo onesti, abbiamo figli e famiglia che non vorremmo tradire,
e sante affezioni che c'impongono dei doveri....
--I doveri cedono sovente alle passioni... che sono più forti della
volontà. Verrà un giorno!...--e qui alzava il braccio in aria fatidica,
quando io le chiusi la bocca con una mano, e con l'altra arrestai il
gesto minaccioso, dicendole:
--Basta così... Agata, tu metti troppo a cimento la mia pazienza, e la
tua ostinazione nelle accuse ingiuste e irritanti potrebbe condurci
nostro malgrado a ciò che vogliamo e dobbiamo fuggire!... basta così.
La nostra bambina col suo celeste sorriso comparve tra i fiori, come un
angelo disceso dal cielo a calmare le nostre anime, raddolcite
dall'amore... e amareggiate dalla gelosia.


XXII.

Così fra il dolce e l'amaro, coi quali si compone la vita, passavano gli
anni, e la nostra bimba era diventata una bella ragazzina, sapeva
leggere, scrivere e far conti. Sua madre ed io andavamo a gara
nell'istruirla, ma il pensiero di completare la sua educazione ci
preoccupava gravemente. Non essendo possibile conservarla al villaggio
ove mancano tutti i maestri, ci venne l'idea di collocarla nel collegio
di Como, ove sua madre era stata educata con ottimo risultato. Mio
suocero scrisse in proposito ad un suo corrispondente per nuove
informazioni, e gli fu risposto che, essendo morta la vecchia
direttrice, il collegio era caduto in discredito. Non bisognava più
pensarci. Allora scrissi a mio zio canonico, il quale ci propose subito
un eccellente istituto di Milano, diretto da una donna di molto senno e
gran cuore. Di più egli si profferiva cordialmente di visitare spesso la
fanciulla e di renderci esatto conto della sua salute e de' suoi
progressi, e questo era per noi un argomento di gran valore. Ma l'idea
d'una separazione ci spaventava: la Giuseppina era la nostra delizia, e
si temeva che la vita rinchiusa la facesse ammalare. Essa era avvezza
all'aria libera, e manifestava un continuo bisogno di agreste libertà.
Nel breve tempo delle sue lezioni stava seduta per forza, e appena
finito il còmpito correva dietro alle farfalle, seguita da Bitto, e
spariva su per le colline, cantando allegramente le sue canzoni. Poi
ritornava a casa ansante colle braccia piene di erbe e di fiori odorosi
raccolti sui poggi. Sua madre la sgridava, essa rispondeva con baci che
rasserenavano il volto materno. Ella era l'amore dei parenti, l'amica
dei fanciulli, la provvidenza dei poveri, la vaghezza del villaggio. Il
pensiero di allontanarla era sentito da tutti come una privazione
comune. Tuttavia bisognava pensarci seriamente, aveva raggiunto i dieci
anni e la sua bella intelligenza meritava un'accurata coltura; il nostro
affetto era troppo indulgente, mancava dell'energia necessaria ad
imbrigliare la sua eccessiva vivacità. L'interesse della nostra creatura
c'imponeva il sacrifizio del cuore, e quindi si discusse lungamente la
proposta dello zio. La troppa distanza dalla Valtellina veniva
compensata dal valore dell'istituto, e dall'affettuosa oculatezza d'un
parente di nostra piena fiducia. Ci siamo dunque decisi per Milano, e
prese le opportune disposizioni, venne fissato il principio di novembre
per condurla in collegio.
L'Agata ed io dovevamo accompagnarla, quando negli ultimi giorni
d'ottobre mio suocero cadde gravemente ammalato. Avevamo deciso di
ritardar la partenza, ma mio zio ci scriveva lettere sopra lettere,
eccitandomi all'esattezza, osservando che la direttrice non intendeva
transigere sui regolamenti del collegio, perchè la regolarità
dell'istruzione non permetteva di ammettere nuove educande, oltrepassata
la metà del novembre.
Il termine si avvicinava, e la malattia di mio suocero si andava
aggravando; esso non gradiva che le cure della moglie e della figlia, la
quale non poteva abbandonarlo. Bisognava dunque che io solo
accompagnassi la Giuseppina a Milano; necessità non ha legge.
Una tale prospettiva conturbò fortemente il mio spirito, mettendomi in
seria apprensione per le noie che mi sarebbero cagionate dalla gelosia
di mia moglie. Infatti non m'ingannavo, ed essa incominciò colle solite
insinuazioni a manifestarmi i più atroci sospetti. Che fare?... Io
rinunziava di buon grado a tal viaggio. Agata lottava fra il desiderio
di rimandarlo all'anno venturo, e il timore di privare sua figlia della
necessaria istruzione; ma l'età della fanciulla esigeva una sorveglianza
resa sempre più difficile dalla necessità che legava mia moglie al letto
del padre infermo. Mio zio c'insinuava il sospetto che, oltrepassata
l'età normale, nostra figlia non sarebbe più ammessa in collegio; ella
stessa desiderava compiere il suo destino e dedicarsi interamente allo
studio: perciò dopo mature considerazioni, secondando anche l'opinione
espressa dai miei suoceri, venne finalmente deciso che la Giuseppina
entrasse in collegio, e che io solo andassi ad accompagnarla. Mi dovetti
rassegnare; ma qualche giorno prima della partenza i sospetti di mia
moglie si accrebbero in modo tale da farmi perdere la pazienza.
Tempestai pieno di sdegno per così insana ingiustizia: le parole che mi
sfuggirono dall'irritazione della collera la persuasero maggiormente
ch'io avessi cessato d'amarla, la mia indignazione per tale assurdità la
riconfermava nel suo giudizio. Essa era profondamente convinta che la
contessa Savina mi amasse ancora, e che io non saprei resistere alla
minima seduzione; il mio racconto, troppo ingenuo e imprudente, l'aveva
persuasa che quell'amore non fosse che semplicemente sospeso in causa di
forze contrarie, come una pianta che ritarda la sua fioritura a motivo
delle brine d'una primavera tardiva, ma che schiuderà i suoi bottoni
nella stagione più avanzata, e non avrà minore profumo per aver
sbocciato più tardi, sotto l'influsso d'una temperatura elevata. Essa mi
sosteneva che il primo amore è il solo vero, sincero, durevole; lo
diceva per prova, non avendo essa amato che me solo.
--Tu dunque non ammetti secondi amori?...--io le chiedeva.
--No...--mi rispondeva sospirando,--non sono che ripieghi....
--Allora perchè mi hai sposato?
--È stata forse una follìa... prodotta anche questa dal primo amore che
ne fa tante!... forse sarà una disgrazia... perchè ti dichiaro che io
non sono donna da sopravvivere a un tradimento!... pensaci bene!...
--Non hai dunque fiducia nella mia affezione... nel mio onore... nella
mia onestà?...
--Tutte parole... che svaporano al soffio delle passioni!... più forti
della volontà... specialmente per certi uomini... troppo leggieri!...
--Ma che cosa puoi dire sul mio conto?
E qui saltava fuori la storia della mugnaia!...
--Ebbene, manda la bimba con chi vuoi, ma io non parto.
Allora nuove scene, perchè diceva che tradivo la mia debolezza, e non mi
sentivo abbastanza forte per affrontare il pericolo!
--Ebbene... partirò!...
Allora le pareva sicuro che il mio soggiorno a Milano avrebbe servito a
rannodare il passato al presente. Diceva che se la contessa ed io
avevamo perduta l'ingenuità e la freschezza giovanile, avevamo
d'altronde guadagnato in esperienza e coraggio, che la donna doveva aver
deplorata la soverchia timidità della fanciulla, e che certamente
aspettava la prima occasione favorevole per rifarsi. Infatti io potevo
contare di sicuro per questa volta sul bacio della contessa Savina!
Io sentivo invece dentro di me il profondo convincimento che mia moglie
aveva torto, che la mia coscienza era forte della sua onestà, e quindi
quegl'ingiusti pronostici mi accendevano di sdegno; accusavo l'Agata di
essere un'ingrata, visionaria, e taccagna!... ma invece di calmarla,
l'esasperava... e si passavano notti d'inferno!...
E mentre forse molti bricconi dormivano in pace, noi, onesti entrambi,
legati da un'affezione leale, sincera, scambievole, con una cara bambina
che cementava la nostra unione, noi eravamo agitati da fiere burrasche,
infelici senza giusto motivo e senza colpa! A furia di giuramenti sulla
medaglia di mia madre, sulla vita della mia bambina, giunsi finalmente a
moderare la sua fantasia, e ad assicurare alquanto il suo cuore.
Vedendola, se non più ragionevole, almeno più rassegnata, aggiunsi tutti
quegli argomenti che militavano in mio favore; e il più importante di
tutti era questo: la contessa Savina aveva un marito, essa lo aveva
seguito al domicilio coniugale, in conseguenza non dimorava più in casa
Brisnago, ed io non sarei certo andato a cercarla davanti al palazzo di
Montegaldo, che non sapevo nemmeno dove fosse. Di più non mi sarei
fermato a Milano che il tempo necessario per completare il corredo della
bambina in collegio: e sarei ritornato subito a casa, sperando di
trovarla più ragionevole, altrimenti malgrado la mia sincera affezione,
e tutta la sua, mi sarei gettato nel lago con una pietra al collo per
finire una vita sciocca, insopportabile e immeritata. Ed essa di rimando
con nuove spiegazioni, accompagnate da lagrime e singhiozzi, mi
dichiarava il suo affetto profondo, del quale pretendeva che le sue
inquietudini dovessero essere la prova più convincente.
--Grazie tante!--io rispondeva,--se queste scene sono prove d'amore,
preferisco l'odio che mi assicura la pace.
Ed era davvero l'amore d'una moglie riamata che pesava sulle mie spalle,
come peserebbe un carico di miele.
Giunse anche il giorno della partenza. Il povero nonno, accasciato dalla
malattia nel suo letto di sofferenze, non poteva lasciarci partire, e si
teneva la bimba stretta per mano, quasi avesse timore che le sfuggisse
per sempre; voleva ancora un altro bacio, poi un altro, e ancora un
saluto, e una carezza sui capelli, poi non potendo più reggere
all'angoscia ricadde sull'origliere con un singhiozzo... e ci lasciò
andare.
La nonna ci accompagnò in anticamera, ma sentendosi soffocare
dall'emozione, baciò più volte la Giuseppina, la strinse al seno
teneramente, e ritornò presso il malato. L'Agata aveva dimenticato i
pericoli del marito per occuparsi intieramente della figlia che stava
per lasciare. Quella separazione lacerava crudelmente il suo cuore,
eppure si forzava di dissimulare il dolore per non aggravare quello
della sua creatura, già troppo intenso. Sono momenti terribili, e chi si
trova in condizioni tali da poterli evitare, fa benissimo a tenersi le
figlie vicine, educandole in casa sotto la sorveglianza materna. In
quanto poi a quelle madri che senza assoluta necessità mettono le loro
figlie in collegio, per sollevarsi da un peso importuno, fanno ancora
meglio; le figlie non possono che guadagnare nel cambio.
Dopo ripetute raccomandazioni, baci, amplessi e sospiri, l'Agata ci
accompagnò sulla porta, e saliti nella vettura che ci aspettava da un
pezzo siamo partiti, mentre tutti ci mandavano i più cordiali saluti coi
cenni delle mani, e coi fazzoletti spiegati.
La gioventù si rassegna più facilmente dell'età matura, e l'aspetto dei
paesaggi pittoreschi della Valtellina, e poi il panorama incantevole del
lago di Como valsero a calmare nella bambina l'affanno provato per
lasciare la madre, i nonni e il villaggio, e a distrarla dai suoi
dolorosi pensieri.
Appoggiati al parapetto del battello a vapore, io le indicava i più bei
siti delle due sponde, i paeselli pittoreschi e le splendide ville, e le
facevo osservare col cannocchiale le note cime dei nostri monti lontani,
già spruzzati del primo nevischio.
È cosa piacevole assai servire di guida ai fanciulli nelle loro prime
escursioni, e specialmente ai propri figli; l'assistere alle continue
sorprese che li colpisce, il rispondere alle ingenue domande,
l'osservare l'intensità della loro ammirazione.
Alcuni viaggiatori stranieri, che entravano per la prima volta in
Italia, arrestarono i loro sguardi con viva simpatia e somma benevolenza
sulla vispa e svegliata ragazzina italiana, che davanti le opere
stupende della natura e dell'arte manifestava tanto entusiasmo, con
precoce intelletto del bello. Ed io andava superbo e soddisfatto che il
primo successo di mia figlia facesse onore alla patria.
Giunti a Como, la condussi a visitare la città, poi ci siamo rimessi
subito in viaggio. Quando vidi da lontano l'aguglia maggiore del Duomo
di Milano, sentii dentro di me un rimescolamento di gioia e di paura.
Godeva di rivedere alfine il mio paese, e mi pareva d'essere minacciato
da un pericolo imminente. Erano circa dodici anni che non entravo nella
diletta città, impedito dapprima da mio zio, poi da mia moglie,
sospettando entrambi che io volessi scalare il cielo di nuovo. La mia
insania giovanile li spaventava ancora, e per avere osato, come
Prometeo, alzare gli occhi al fuoco celeste, ero condannato in perpetuo
a restare incatenato ad un monte, e dilaniato il cuore da un avoltoio
col becco a due mascelle taglienti: l'amore e la gelosia.
Entrammo in Milano sulla sera, quando i fattorini del gas accendevano i
fanali. Il rumore delle carrozze, il movimento animato delle vie, lo
splendore dei magazzini, l'eleganza delle donne, il suono degli
organetti, mi allucinavano lo spirito. Mi pareva di destarmi da un lungo
sonno, nel quale avessi sognato un matrimonio fra i monti e conosciuto
dei personaggi fantastici, bizzarri, impossibili. La vettura ci
trascinava attraverso quelle vie che mi ricordavano la gioventù e
l'amore. Ogni signora che attraversava la strada mi sembrava la contessa
Savina.... Le interpellanze di mia figlia mi richiamarono alla realtà,
essa mi manifestava la sua ammirazione per quello spettacolo nuovo per
lei, per quelle belle vie larghe e pulite, per quell'elegante brulichìo
di gente ammodo, così diversa dai rustici montanari del villaggio.
Alfine giungemmo alla porta della casa di mio zio, e suonando il
campanello, non potea frenare la mia curiosità, e diedi un'occhiata in
isbieco al palazzo Brisnago. Tutte le gelosie erano chiuse.
Al suono della mia voce, Veronica mi corse incontro precipitosa, seguita
da mio zio che mi aperse le braccia, fra le quali gettai la mia
Giuseppina, che esso strinse al seno teneramente. Salite le scale, mi
ricomparvero dinanzi quelle stanze piene di ricordi giovanili, riconobbi
l'odore speciale di quei luoghi poco ventilati; quei mobili, quei quadri
mi facevano l'effetto d'antiche conoscenze che sorridessero al mio
ritorno. La Veronica non si saziava di contemplare la bambina e di
accarezzarla:
--Come è bella... e grande...--essa ripeteva;--mi pare proprio
impossibile che sia vostra figlia!
Mio zio mi chiedeva conto dell'Agata, della suocera, della malattia del
signor Nicola, del parroco, del dottore, e di tutte le sue conoscenze.
La cena ci venne servita nel solito tinello, ove il canonico, durante il
pranzo, soleva in altri tempi chiedermi conto de' miei studi pedagogici
e delle mie occupazioni del giorno, quando io gli rispondeva di
straforo, non potendo parlargli nè dell'amore, nè della tragedia. Dopo
alcune ore di ciarle, di domande, risposte ed esclamazioni, ci siamo
alzati da sedere per andare a letto. Mio zio si ritirò nella sua stanza,
augurandoci un buon riposo.
Veronica mi annunziò che condurrebbe la Giuseppina nella bella camera
vicina alla sua, e mettendomi in mano il lume acceso, mi disse:
--Voi non avete bisogno che v'insegni la vostra camera; felice notte,
Daniele, dormite bene.
Diedi un bacio alla bimba, e ripetendo gli augurii di buona notte, mi
ritirai alla mia volta.
Era nella modesta ma cara cameretta dello studente ch'io rientrava
finalmente dopo lunga assenza, quando i varii casi della vita avevano
fissato il mio destino in modo impreveduto. Chiusi la porta e m'arrestai
alquanto sulla soglia, contemplando con mesto raccoglimento quell'asilo
ove s'era ricoverata la mia gioventù; quella serra calda ove avevano
fiorito i pensieri della mia primavera; poi ne feci il giro lentamente,
come i divoti nei luoghi santi, guardando attentamente quelle pareti
ch'io conosceva perfino nei minuti rilievi e nelle minime anfrattuosità,
come un monaco la sua cella, come un prigioniero il suo carcere; e ne
scoprivo ancora i segni tracciati colla matita, e gli spruzzi delle
penne; indi osservai con pari interesse il letticciuolo de' miei sogni
giovanili, il canapè dei sospiri, delle lagrime, delle illusioni, il
tavolino di studio sul quale scartabellai tante carte, raccolsi tanti
concetti, formulai tante idee, e ne riconobbi ancora le macchie
d'inchiostro, rammentandomi gli accidenti che le produssero.
Sedetti e meditai lungamente, e ripensando al passato dimenticavo il
presente, e gli oggetti che mi stavano sotto gli occhi mi facevano
scomparire i lontani: la distanza offuscava la vista come la nebbia.
In Valtellina mi pareva di veder Milano nascosto dietro i monti, i
laghi, le campagne, lontano, lontano, nell'ombre semibuie del vespero.
Nella mia cameretta di Milano la Valtellina mi compariva alla sua volta
sfumata in un'atmosfera brumale, come una catena di montagne grigie che
si confondono colle nuvole in fondo d'un quadro.
Quei muri, quei mobili, quella finestra mi parlavano come amici da lungo
tempo abbandonati, io stavo ascoltandoli con religiosa attenzione.
Rivivendo nel passato si vive due volte, e la natura ci spinge con
istinto irresistibile a raddoppiare la vita.
Quando la stanchezza eccessiva ed il sonno persistente mi chiudevano le
pupille mi coricai, e dormii profondamente, ma la luce del crepuscolo
entrando per gl'interstizii delle gelosie mi trovò desto. Balzai dal
letto, mi vestii, ed aperta la finestra aspirai avidamente le brezze
mattinali.
Il palazzo Brisnago era sempre chiuso, le piante del giardino erano
cresciute: tanto meglio! potevo guardare francamente senza scrupoli. La
finestra e il giardino mi rammentavano naturalmente il mazzetto raccolto
e il bacio respinto, ma mi dicevano in pari tempo: tutto è finito!...
E chiedevo a me stesso: Chi sa in qual angolo di Milano sarà collocato
il palazzo Montegaldo?...
Sarebbe bene che lo sapessi, per evitare quella via, e non offrire il
minimo pretesto di sospetti al mio ritorno.
L'Agata mi chiederà subito:--l'hai veduta?...--ed io potrò
rispondere:--non solo non l'ho veduta, ma non sono nemmeno passato
davanti la sua casa.... No... no... non devo dire così... io devo
ignorare la sua dimora. Non potrei mai persuadere l'Agata d'aver
ricercato la località del palazzo Montegaldo per evitarlo. Nel dubbio,
la gelosia preferisce sempre di credere al peggio; la gelosia ha bisogno
di tormentarsi, e quando non trova motivi di farlo, li crea. Essa non
crede a nulla che possa calmarla, e presta fede a tutto quello che può
sconvolgerla; essa costringe gli onesti a farsi ipocriti per dissimulare
il vero... il quale viene spesso interpretato a rovescio!... quale
fatalità!...
E se mio malgrado incontrassi la contessa per via?... Spero che non mi
toccherà questa tentazione!... Milano è grande, ed io posso evitare
benissimo i luoghi frequentati dalle signore.
Però quel palazzo chiuso mi rattristava. I vecchi saranno tutti morti!
io pensava, i mobili dispersi, le stanze nude e deserte.
Divagavo in questi pensieri, quando lo scricchiolare d'una gelosia mi
fece alzare la testa. Una finestra al terzo piano del palazzo si apriva
lentamente:--C'è un guardiano... dissi fra me. Le gelosie rimasero
semichiuse durante una mezz'ora, poi vennero spalancate d'un tratto, ed
una donna vestita di bianco apparve davanti i miei occhi... era la
contessa Savina!...
A prima vista non la conobbi: la ragazza s'era fatta donna, al fiore era
succeduto il frutto. Era bella d'un'altra bellezza. I lineamenti avevano
acquistato un carattere deciso, lo sguardo s'era fatto più grave e
melanconico, le forme s'erano arrotondate, e un certo abbandono della
persona indicava la fatica di pensieri dolorosi.
Appena aperte le imposte, la contessa si arrestò un istante come
attonita a guardarmi, forse al pari di me stupefatta dalla sorpresa, e
dubbiosa della scoperta. Poi mi parve, da una contrazione quasi
impercettibile del volto, che mi avesse riconosciuto: chiuse le
invetriate e si ritirò lentamente. Io rientrai, caddi sul canapè,
sopraffatto da confuse emozioni, nelle quali però dominava una strana
paura... paura di quel fantasma che mi perseguitava con implacabile
fatalità... paura di me stesso... paura di nuovi tormenti, di nuove noie
sotto al tetto domestico. Avrei voluto fuggire ogni pericolo, sottrarmi
alla sorte che si ostinava a rendermi vittima di nuove complicazioni,
allontanarmi subito da quella malìa che si faceva giuoco della fermezza
delle mie buone intenzioni... ma come avrei potuto partire?...
Impossibile! bisognava abbassare il capo davanti il destino e
lottare!...
Allora mi spiegavo il motivo della desolazione eccessiva dimostrata da
mio zio per la malattia di mio suocero!... egli rimaneva deluso nella
speranza che venissi a Milano con mia moglie. Tuttavia, vedendomi al
fianco la Giuseppina, mi pareva più fiducioso del solito. Divagavo nelle
smanie della mia posizione imbarazzante, quando la Veronica entrò nella
stanza. Non era in caso d'aspettare lungamente la spiegazione di tanti
misteri, e le dissi subito senza esitare:
--Ditemi francamente, Veronica, qual è il motivo per cui la contessa
Savina di Montegaldo si trova nel palazzo Brisnago?
--Come?... non sapete nulla?
--Non so nulla....
--Il conte di Montegaldo è morto, or son tre anni, coperto di debiti. La
contessa ha dovuto vendere il palazzo del marito per soddisfare agli
impegni che egli aveva incontrati co' suoi vizii... ed essa è ritornata
a casa sua.
--La contessa è vedova?...
--Vedova... e la credo meno infelice di quando viveva il marito, che
gliene ha fatte passare d'ogni sorta! Figuratevi... un giuocatore... un
donnaiuolo.... un dissipatore.... insomma uno scapestrato!...
--Ma... e perchè l'aveva essa sposato?...
--Sapete bene, i signori!... l'ha sposato senza conoscerlo... imposto
dai genitori, perchè dicevano ch'era d'antico casato... un bel nome
insomma... e lo credevano ricco... e lo sarebbe stato senza i suoi
vizi....
--La contessa fu dunque infelice?
--Infelicissima... e già pochi mesi dopo le nozze si parlava di
divorzio... poi venne alla luce il figliuolo....
--Ah sì!... il giudice conciliatore!
--Che cosa dite?
--Dico che questo rampollo fece le veci d'un giudice conciliatore, e
ricongiunse il marito alla moglie....
--Come il galeotto al suo compagno di catena,--soggiunse Veronica,
alzando le spalle con aria sprezzante.--Bene o male rimasero legati per
riguardi di famiglia, fino alla morte.
--E il figliuolo è con lei?
--È la consolazione della madre; un buon ragazzo!... La contessa gli
darà un'educazione che lo tenga lontano dalle abitudini paterne... e ne
farà un uomo onesto.
--Che il cielo l'aiuti!...--io risposi.
E la Veronica si mise a parlarmi di mia moglie, del suo desiderio di
conoscerla, e non finiva mai di farmi gli elogi della bambina. Io la
ringraziai della sua costante affezione e dei regalucci che non mancava
di mandarmi ogni anno cogliendo l'occasione del viaggio dello zio quando
recavasi ai bagni, ed ella, per sottrarsi alla dimostrazione della mia
gratitudine, si ritirò, col pretesto d'apparecchiare la colazione.
Rimasto solo, incominciai a rimuginare le cose udite, considerando gli
effetti fatali d'una inclinazione giovanile, che, quantunque soffocata
in germe, continuava a far sentire il suo influsso sulla esistenza di
due persone. E mi proposi d'evitare con ogni cura un simile destino a
mia figlia chiudendola per tempo in collegio, e riservandomi a
sorvegliarla attentamente al suo ritorno in famiglia. Intanto doveva
pensare a sorvegliare seriamente me stesso, per evitare, non pericoli
impossibili, ma le occasioni più innocenti che potessero offrire il
benchè minimo pretesto alla cieca gelosia di mia moglie. E pensavo con
raccapriccio a quel momento terribile nel quale sarei costretto di
raccontarle la impreveduta ricomparsa della contessa Savina davanti la
famosa finestra!
La infelicità del suo matrimonio verrà attribuita certamente alla sua
inclinazione per me, la sua vedovanza le darà indizio d'imminente
pericolo, il suo ritorno alla casa paterna verrà interpretato come
un'insidia, la sua innocente ricomparsa come un tentativo di seduzione.
E troverà le prove evidenti di tutto!... Se le racconto questi fatti,
dirà che non posso tacere nemmeno con lei di ciò che mi trabocca dal
cuore; se non gliene parlo, quando li sentirà raccontare dagli altri,
dirà che il mio silenzio rivela la colpa!...
Che fare in posizione così imbarazzante?... questo mi pareva un problema
più insolubile della quadratura del circolo!
Incominciai allora a fantasticare sulle probabilità compromettenti: per
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