Castel Gavone: Storia del secolo XV - 01

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CASTEL GAVONE
STORIA DEL SECOLO XV
DI
ANTON GIULIO BARRILI

MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1875.

Stabilimento Fratelli Treves


A Santo Saccomanno.

_A te, valoroso artista, il cui scalpello sa infondere nel marmo tanta
parvenza di vita, io dedico questo libro, in cui mi sono ingegnato di
rinfrescare la vita e le costumanze d'un tempo trascorso. È una storia
paesana e per me quasi domestica, poichè si ragguarda alla terra ove
mio padre ha passati gli anni della studiosa adolescenza, ove mia
madre è nata, e dove io medesimo ho vissuto tanti bei giorni.
Fanciullo ancora, io mi aggirai per quelle valli, consolate da un'aria
così pura; mi commisi a quel mare tinto, in azzurro da un così limpido
cielo; m'inerpicai su quei greppi, dove annidano i falchi e donde
l'anima si eleva così libera e franca. Colà non è palmo di suolo che
io non abbia corso, con quella pienezza di gaudio che ti fa parere
come in casa tua, e con quel senso intimo di pace, che ti fa gustare
la poesia delle solitudini. Il culto delle antiche memorie io lo
derivo da quella terra così varia e così nobile, colle sue caverne
ospitali ai prischi uomini della Liguria, co' suoi ponti romani, colle
sue torri severe, cogli archi a sesto acuto e le finestre partite a
colonnini, donde egli sembra che tuttavia ci guardi il passato,
mestamente amoroso.
Tra le storie che illustrano questo mio diletto suolo materno, ho
amato raccontar questa dello assedio sostenuto dai vecchi marchesi del
Finaro, contro le armi di Genova, così onorevole pei combattenti
dell'uno e dell'altro campo, Liguri tutti, antenati nostri, e, se ne
togli ciò che è vizio particolare dei tempi, uomini esemplari per rara
fortezza d'animo e singolar gentilezza di costume. O m'inganno, o il
segreto di quella nobiltà di sentire, che è di presente patrimonio
comune, ha da cercarsi in quelle stirpi di cavalieri del medio evo; i
quali però non sono soltanto i mal ricordati progenitori di degeneri
schiatte, ma i padri di tutti noi, gl'istitutori de' forti caratteri e
dei cuori gentili.
E tu che le cose gentili e le forti imprimi sicuro nel marmo,
gradirai, se non altro, le buone intenzioni, che io, scultore a mio
modo, pongo oggi sotto il patrocinio della tua cara amicizia._
ANTON GIULIO BARRILI.


CASTEL GAVONE


CAPITOLO I.
Nel quale si narra di due viaggiatori che amavano saper molto e dir
poco.
A' dì 26 novembre dell'anno 1447 della fruttifera incarnazione (così
dicevasi allora, nè io mi stillerò il cervello a rimodernare la
frase), due cavalieri, che pareano aver fretta, galoppavano in sulle
prime ore del mattino per la strada maestra che, svoltate le rupi di
Castelfranco, lunghesso la marina del Finaro, risale verso il borgo.
Che risalga è un modo di dire, trovato da noi, i quali abbiam sempre
la mente alle carte geografiche, e ci raffiguriamo il settentrione su
in alto e l'ostro umilmente segnato nel basso. La strada di cui parlo
era per contro ed è tuttavia in pianura, come la spiaggia che rasenta
e come la valle in cui piega. Questa valle, che per amore del Medio
Evo io dirò del Finaro, ma che i lettori possono, senza scrupoli di
coscienza, chiamar di Finale, è stretta, ma piana, e la si abbraccia
tutta quanta in un colpo d'occhio. Essa è conterminata da tre
montagne; due la fiancheggiano, accompagnandola cortesemente fino al
mare; un'altra la chiude a tramontana, o, per dire più veramente, la
divide in convalli, dandole in tal guisa la forma di una ipsilonne, il
cui piede si bagna nel Tirreno e le braccia si allungano verso il
padre Appennino, che in quei pressi per l'appunto incomincia,
spiccandosi dall'altura del Settepani, ultimo anello della catena
delle Alpi marittime.
Nella inforcatura dell'ipsilonne (poichè ho presa a nolo questa
inutilissima tra le lettere dell'alfabeto, ne spremerò tutto il sugo)
si alza il monte del Castello, che ha il borgo del Finaro alle falde.
Due torrenti, Aquila da levante e Calice da ponente, scendono dalle
convalli, circondano il borgo, si maritano sotto le sue mura (stavo
per dire sotto i suoi occhi), pigliano il nome di Pora e in un letto
che è lungo un miglio, o poco più, consumano le nozze modeste,
vigilate in sulla foce dalle due montagne accennate più sopra;
Monticello a levante, che finisce poco lunge dalla spiaggia nei dirupi
bastionati di Castelfranco, e Caprazoppa a ponente, ruvida schiena di
monte che s'inarca a mezza via, indi si abbassa, si prolunga a
dismisura verso mezzogiorno e coll'estremo suo ciglio si getta a
piombo nel mare.
Tra questi due monti, e lungo la spiaggia, si stende ora una piccola
ma ridente città, che porta il nome di Finalmarina. Al tempo di cui
narro, si diceva in quella vece la Marina del Finaro e non era che
un'umil terra di duecento fuochi; laddove il borgo feudale, murato in
capo alla valle, ne noverava ben quattrocento, e, coronato dal suo
castel Gavone, dimora e sede di giustizia ai marchesi Del Carretto,
comandava su tredici borgate minori, sparsa sui greppi che gli
sorgevano intorno, e per le valli che gli serpeggiavano da tergo.
Intanto che io tengo a bada il lettore benevolo, i due cavalieri hanno
avuto il tempo di varcar la Marina, offrendo spettacolo di sè ad
alcune frotte di pescatori, che traggono a terra le reti, e dando una
sbirciata a due galere, che stanno sulle ancore in un cantuccio della
rada, coi provesi legati agli argani della spiaggia. Giunti a poca
distanza dal torrente, hanno voltato a destra, verso la valle, dalla
cui apertura una severa ma bella veduta si affaccia loro allo sguardo.
La Caprazoppa, co' suoi massi enormi, sporgenti da ripide falde
scarsamente vestite di umili cespugli ed erbe di facile contentatura,
riceve ed ammorbidisce nella sua tinta rossigna, qua e là chiazzata
d'azzurro, la vivida luce del sole. Laggiù, in capo alla valle, il cui
fondo è ancora a mezzo velato dall'ombra della costiera di Monticello,
s'innalza il dorso alpestre, su cui è murato il castello Gavone,
superba mole solitaria, fiancheggiata da quattro torri, che siede a
custodia dei passi sottostanti. Veduto a quella distanza, così solo in
mezzo alle balze digradanti, il nobile edifizio comanda l'ammirazione
e la riverenza. Lo si direbbe un avvoltoio, posato alteramente sulla
sua rupe, in atto di spiare intorno e meditare da qual parte abbia a
calarsi veloce, per afferrar la sua preda. Non lunge dal castello, la
rupe si deprime un tal poco, indi risale, si gonfia e tondeggia in
ampio dorso sassoso. È questa la roccia di Pertica, che, veduta da
settentrione, apparisce dirupata, inaccessibile, come una di quelle
rocche incantate che vide e ritrasse la fantasia dell'Ariosto. La
vetta del monte, le bianche torri di Castel Gavone e i sottoposti
declivii, risplendono al sole; il borgo del Finaro non si vede, ascoso
com'è dietro un colmo di piante, ma lo s'indovina dalla merlatura di
qualche torrione, o dalla guglia di qualche campanile, che sbuca dal
verde.
I due cavalieri s'erano avviati per una stradicciuola sulla riva
sinistra del torrente. Poco o nulla, inoltrandosi, potevano più
scorgere di quella scena meravigliosa, che, allo svoltare della
Marina, s'era parata dinanzi a loro. Il luogo era piuttosto basso; la
prospettiva chiusa da alberi frequenti, da siepi e casolari. Ma
eglino, a quanto pareva, non si curavano molto di godere la bella
veduta, bensì di trovare un certo edifizio, che doveva esser meta, o
stazione, del loro viaggio.
Ora, sebbene da quelle parti là non fossero mai stati, tale era la
forma, e così chiara l'insegna del luogo cercato, che essi non ebbero
mestieri di pigliar lingua da alcuno, per ritrovarlo. La forma era
comune, anzi rustica a dirittura, ma notevole per un largo terrazzo
sormontato da una pergola, su cui alcuni ceppi di vite, serpeggiando
lunghesso i muri, erano saliti ad intrecciare i nodosi lor tralci, che
per la stagione inoltrata apparivano spogliati di fronde. L'insegna,
poi, era un ramo di pino, sporgente sull'angolo dell'edifizio, vicino
ad un muro di cinta, nel quale si apriva il portone, per dar àdito
alla casa e all'orto attiguo.
Giusta le apparenze, il padrone del luogo, o fittaiuolo che fosse,
raccoglieva nella sua persona le due dignità di ortolano e di ostiere.
I due cavalieri giunsero davanti al portone spalancato, che lasciava
scorgere un'aia pulita e lucente, sebbene non d'altro fosse composta
che di terra battuta, con un frascato in aria, all'altezza del primo
piano, e qua e là alcune rozze tavole e panche niente più
appariscenti, secondo il costume delle osterie di campagna. Di là
dall'aia, e proprio di rincontro al portone, si dilungava un
pergolato, che risaliva tra due file di pilastri sul fianco della
collina.
--Dovrebbe esser qui;--disse il più vecchio dei due, uomo intorno ai
sessanta, dal volto abbronzato e dalle membra poderose, strette in un
farsetto di pannolano, su cui era buttato alla scapestrata un corto
mantello.--Questa veduta risponde benissimo a ciò che vi ha detto il
magnifico messere Ambrogio Senarega. C'è il terrazzo colla pergola,
c'è la frasca sull'uscio, il viale coperto in fondo dell'aia....
--E l'insegna che dice tutto!--interruppe il compagno, d'una ventina
d'anni più giovine e più nobilmente vestito.--Vedi, Picchiasodo; qui
sul portone sta scritto a lettere da speziali: «_Fermatevi all'Altino;
c'è buona l'accoglienza, e meglio il vino_.»
--L'oste si vanta;--rispose il Picchiasodo;--ma gli darò io una
ripassata al suo vino, e se non mi va, il primo pezzo di muro che
mando a rotoli, vuol esser questo, dov'egli ha posto l'insegna.--
Intanto, erano entrati sotto il portone.
L'oste, faccia contenta e grulla (così almeno portava l'apparenza), si
fece innanzi premuroso, con un ragazzone e una nidiata di bambini alle
spalle.
--Entrate, magnifici messeri!--gridò egli, cavandosi umilmente la
berretta e mettendo inchini su inchini.--Maso, piglia i cavalli e
conducili in istalla.
--No, non occorre:--disse il più giovine dei due viaggiatori, che in
quel mezzo scendeva d'arcione.
--Metteteli soltanto al coperto; ci si ferma per poco.
--E se il tuo vino non è buono, si parte subito!--aggiunse
quell'altro, che rispondeva al nome di Picchiasodo.
--Ah, per questo,--rispose l'oste con aria di sicurezza profonda,--non
ho niente paura. Vedrete, messere, sentirete che vino! Non fo per
dire, ma ci ho il meglio della vallata. Soltanto alla tavola del
nostro magnifico Marchese si può bere il compagno.
--Vedremo.... confronteremo!--disse gravemente messer Picchiasodo.
Ed era per aggiunger dell'altro; ma il suo compagno gli diede
un'occhiata, che ebbe il potere di arrestargli la parola tra i denti.
--Venga dunque il tuo vino!--ripigliò l'oratore interrotto.--E siccome
io m'immagino che voi, messer Pietro, non vi disporrete a mandarlo giù
così di buon mattino, senza un briciolo d'accompagnatura....
--No certo;--ribadì l'altro sollecito.--Non ci sei che tu, per ber
vino ad ogni ora, come se fosse acqua di fonte.
--Ah, baie! Io e lui siamo amici vecchi, messere, e si sta come pane e
cacio. A proposito di cacio, hai tu qualcosa da ungere il dente? Di'
su!
--Comandate, magnifici messeri!--fu pronto a dir l'oste, a cui erano
rivolte le ultime parole del Picchiasodo.--C'è pane e cacio, uova da
farne una frittata in un batter d'occhio, e se vi piace, posso anche
ammannirvi un pollo allo spiedo....
--Ottimo amico! Ostiere degno della mia stima e della mia
pratica!--gridò con burlesco fervore quell'altro.--Portaci il pollo,
la frittata, il cacio, il pane, tutto quello che hai!--
L'oste, serviziato per indole e giubilante per quella mattutina
ventura, non se lo fece dire due volte, e, comandato al Maso che
accompagnasse i due forastieri al pian di sopra, ov'era luogo più
degno di loro, entrò difilato in cucina, per ammannire alla svelta
tutto il meglio della credenza. La moglie si diede a pelare un pollo,
ostia innocente, acciuffata in quel punto sull'aia e messa a morte
senza processo; il figlio più grandicello a rattizzare il fuoco e
disporre il menarrosto; un altro a raccattare nell'orto due talli
d'indivia e due carciofi primaticci; egli a trar fuori dall'armadio il
pane, il cacio, il vasellame e tutto l'altro che bisognasse. Volea
fare le cose a modo, mastro Bernardo; dare in tavola i principii,
servire per bene i suoi ospiti, che gli pareano persone d'assai.
--Per altro, diceva egli (e qui faceva capolino la natural diffidenza
del campagnuolo), o come va che due cavalieri di quella fatta, avviati
al Finaro, si fermino qua, all'insegna dell'Altino? Capisco che alla
Marina non abbiano trovato il fatto loro; ma qui siamo a cento passi
dal borgo, e, con quelle cavalcature vistose, in quattro salti erano a
casa.--
Onesta considerazioni mastro Bernardo le faceva ad alta voce, in
quella che spicciava le sue faccende. Il Maso, che tornava in quel
punto da apparecchiare la tavola, lo intese e da buon cortigiano entrò
a dire la sua.
--Padrone, o che credete, che l'Insegna dell'Altino la non ci abbia il
suo buon nome per tutto il paese? Chi non lo sa, che il miglior vino
di Calice viene a farsi bere nella nostra osteria? E non sono già soli
i terrazzani, che ci hanno la divozione a questo santo, ma anco i
forestieri, che pure non avrebbero a risaperne gran cosa. Vi
ricordate, padrone, quel pezzo grosso di genovese, che c'è capitato
due volte e non c'era luogo al mondo che gli piacesse di più?
--Uhm!--brontolò mastro Bernardo, che in sulle prime aveva fatto bocca
da ridere.--Brutta gente, quei genovesi! E se questi due fossero della
pasta di quell'altro, meglio sarebbe dar loro acquetta, che vino di
Calice!
--Ho dunque a portar loro l'acquetta?--chiese il ragazzone, con aria
che volea parere melensa.
--Di che acquetta mi vai tu novellando?
--Non sapete, mastro Bernardo? quel vinello fiorito, che è sempre in
fin di botte, perchè oramai nessuno lo vuole?
--Ehi, bada a te, mascalzone! Vuoi forse trincartelo tu, che fai
sempre a screditarlo? Ci ho a fare un nipotino ancora, prima che tu ne
assaggi!
--Un nipotino su quel vinello? Sarà acqua schietta, allora--notò il
Maso tra sè.
E raumiliato in vista, ma contento d'aver detto la sua, andò a
spillare il migliore, per servir degnamente i due forastieri; indi,
colmate le bottiglie, si affrettò a portarle di sopra, insieme col
pane e i camangiari.
Si affrettò, dico, ma non fu tanto sollecito a ritornare, come al
padrone pareva che egli ragionevolmente dovesse; epperò n'ebbe da
mastro Bernardo un'altra ripassata delle solite.
--Diamine!--sclamò il Maso.--Come ho a fare? Cinquantadue scalini non
si salgono e non si scendono mica in un batter d'occhio!
--Cinquantadue! Tanti ce n'ha dal pian terreno al terrazzo.
--E appunto lassù ho dovuto apparecchiare. Hanno voluto così.--
Mastro Bernardo rimase lì a mezzo, colla mano sullo schidione e le
ciglia inarcate.
--Che diavolo!--gridò egli sbalordito.--Sul terrazzo? in fin di
novembre?
--La giornata è bella;--notò il ragazzo.--I due messeri hanno detto
che par primavera e vogliono profittarne per godersi la vista....
--Della Caprazoppa!--interruppe l'ostiere.
--Eh, già, della Caprazoppa;--soggiunse il Maso.--Voi stesso, padrone,
non dite che la valle è stretta, ma bella a vedersi? E poi, non si
vede soltanto la Caprazoppa, di qua. Si guarda a manca, e si vede il
mare; a destra, e si vedono le case del borgo, il castel Gavone e la
roccia, di Pertica, Così l'hanno intesa i due forastieri, e, scambio
di mettersi a tavola, sono andati a sedersi sul murello, per
contemplare il paese.
--Uhm! uhm!--borbottò mastro Bernardo.--Che fossero davvero due
genovesi? Bisognerà sincerarsene.
--Padrone,--ripigliò il Maso,--s'ha a darlo in tavola, il pollo?
--Non ancora; lo porterò io, quando sarà rosolato per bene. Va intanto
lassù, moccicone, e vedi se non hanno mestieri di te.--
Cuoceva assai più del suo pollo, l'ostiere. Natura l'avea fatto
curioso; amore della sua terra lo facea sospettoso per giunta. E qui
cade in acconcio un cenno storico, il più breve che per me si potrà,
donde il lettore benevolo avrà qualche lume intorno alla diffidenza di
mastro Bernardo.
Quel tratto di paese, che dopo il 1100 formò il marchesato del Finaro,
era compreso per lo innanzi nel marchesato di Savona, e facea parte
del patrimonio di quel famoso Abramo, che la leggenda disse nato
d'ignoti pellegrini e rapitore d'una figliuola di Ottone I, ma che la
storia chiarisce figlio d'un conte Guglielmo, venuto di Francia, con
trecento lance, in aiuto al marchese Guido di Spoleto.
Di questo Aleramo, che ben potè avere ottenuta in moglie l'Adelasia
della leggenda, poichè egli appare esser stato carissimo ad Ottone I,
e da lui fatto signore di largo dominio, nacquero i marchesi di
Monferrato e, ramo minore, ma non manco rigoglioso ed illustre, i
signori Del Carretto, marchesi di Savona e d'altre terre
sull'Appennino. Venuto a morte nel 1268 Giacomo Del Carretto, sesto
della discendenza d'Aleramo, l'eredità sua andò spartita in tre figli,
e l'ultimo d'essi, Antonio, ebbe per suo terziere, e trasmise ai suoi
successori, il Finaro.
Congiunti d'antico parentado ai marchesi di Monferrato, prossimi
consanguinei dei marchesi di Millesimo, di Ponzone, di Cortemiglia e
via via, di tutti i borghi delle Langhe, ultimi rimasti sulla Riviera
di ponente a rappresentarvi il feudalismo invasore delle regioni
settentrionali d'Italia, non potevano i marchesi del Finaro esser
veduti di buon occhio dalla genovese Repubblica, che, utilmente pei
futuri destini dalla penisola, sebbene non sempre con mezzi leciti e
con nobiltà d'intento, mirava al dominio di tutta Liguria. Però non
istettero molto a nascere e ad infierir le contese. E Genova, fattasi,
nel 1305, per cessione sforzata d'uno tra que' marchesi, padrona di
una parte del territorio, a viemmeglio assicurarsene il possedimento,
innalzava sollecitamente sulla marina del Finaro la ròcca di
Castelfranco, che aveva a perder di poi.
Ma Castelfranco e i diritti di Genova sulla terza parte del Finaro,
avevano cionondimeno a rimanere continuo argomento di litigio tra la
Repubblica e i marchesi Del Carretto. La quistione sarebbe stata
presto risolta colla peggio di questi, se le intestine discordie
genovesi non avessero condotta la città in gravi distrette e travolto
il suo reggimento in balìa dei signori di Milano. E i marchesi del
Finaro ne fecero lor pro, alleandosi coi nemici di Genova,
accogliendone ad onore i fuorusciti, dando aiuto ai capitani di
ventura, mandati a guerreggiarla, e quinci e quindi occupando le terre
circonvicine, che ella aveva per sue.
In questa maniera di guerra, si chiarì più audace de' suoi antecessori
il marchese Galeotto, uomo d'animo grande oltre lo stato, e, ne' suoi
avvedimenti contro Genova, sovvenuto dal patrocinio di Filippo Maria
Visconti, signor di Milano. E appunto nella primavera di quell'anno,
che fu, siccome si è detto, il 1447, una nave del Finaro,
impadronitasi d'una nave genovese de' Calvi, l'avea tratta come buona
preda al marchese. Dolse ai genovesi lo sfregio sul mare, più che non
avessero potuto gli altri danni molteplici in terra; perciò fu
deliberato di trarne vendetta sollecita, e tanto più allegra, in
quanto che, essendo al termine di sua fortuna, e altresì di sua vita,
il Visconti, ed ospite di Galeotto essendo il fuoruscito Barnaba
Adorno, antico doge, balzato di seggio da Giano Fregoso in quell'anno,
i vecchi nodi coi nuovi pareano stringersi al pettine, e molti torti
si vendicavano in uno.
Per altro, infiammati i genovesi alla guerra, Giano Fregoso mirava a
sfruttare quello sdegno cittadino per utile suo; e copertamente faceva
proposta di pace a Galeotto, chiedendogli in moglie Nicolosina, la sua
bella figliuola, e in balìa l'ospite Adorno, il cui riscatto, già
fermato in diecimila genovini d'oro, prometteva egli di costituire in
dote alla sposa. Disdegnò le celate proposte il marchese, mentre pure
incalzavano le intimazioni della Repubblica, aperte queste e solenni.
E in quelle proposte di Giano, e in queste intimazioni del Doge,
parecchie ambascerie s'erano spese, tra il marzo e il novembre, ma
tutto senza alcun frutto presso il marchese. Egli, o fidasse
nell'aiuto de' consanguinei, stretti in lega con lui, o dal medesimo
spesseggiar dei messaggi argomentasse debolezza ne' suoi nemici, o non
pigliasse consiglio che dal suo animo prode, si tenne saldo nel niego.
E pronto si teneva altresì alla prova dell'armi. Il borgo era munito
d'ogni maniera di difese; Castelfranco, scolta avanzata del Finaro,
mentendo alle ragioni per cui era stato costrutto, si mostrava
preparato a sostener l'urto de' suoi fondatori. Senonchè, i genovesi
parevano piuttosto propensi a minacciare, che a muover guerra risoluta
e gagliarda. L'ultima ambasceria, quella di messere Ambrogio Senarega,
non avea l'aria di recare ai Del Carretto le ultime ragioni della
Repubblica; epperò se ne aspettava un'altra, con grande molestia dei
finarini, i quali vedevano le loro valide braccia rapite all'utile
lavoro dei campi o delle officine, per aspettare un nemico che non
veniva mai, e tutti li costringeva a quell'uggioso stato di
aspettazione, che non è guerra, nè pace, e non dà modo di godere i
frutti di questa, nè di sperare imminenti le conseguenze, buone o
triste, di quella.
E adesso il lettore intenderà di leggeri con che animo mastro
Bernardo, da buon cittadino e da oste a cui premeva il suo traffico,
paventando il futuro, si facesse a considerare il presente, e con che
po' di sospetto dovesse badare a que' due forastieri, i quali, in
cambio di starsene in una camera al caldo, andavano a far sosta sul
terrazzo, e più assai che di gustare i principii di tavola, si
mostravano teneri di studiar prospettiva.
L'impazienza rosolava mastro Bernardo, ben più che i carboni ardenti
non rosolassero il pollo. Ne avvenne, che egli si tenesse ancora nelle
dita una serqua di giratine, e messo il pollo in un vassoio di terra
savonese (che cominciava allora a soppiantare le terre cotte di
Majorica), lo portasse egli in persona a' suoi ospiti.
Erano ambedue seduti sul murello dell'altana, quando l'ostiere
comparve dall'abbaino, col suo piatto fumante tra mani.
Picchiasodo fu il primo a vederlo,
--Degno ostiere!--gridò egli, tirando dentro una gamba, che tenea
cavalcioni sul muricciuolo.--Tu hai fatto le cose alla spiccia.
--Magnifici messeri,--disse Bernardo inchinandosi, nell'atto di
deporre il vassoio in mezzo alla tavola,--temevo non aveste a
spazientirvi e a prendere in uggia l'Altino....
--In uggia? che diavol dici? in uggia questo paradiso terrestre? Io ci
ho succhiato una dozzina di olive indolcite, e stavo per isfogliarci
un carciofo, davanti a questa bella veduta.
--Un po' chiusa....--notò timidamente l'ostiere.
--Tu sei modesto, mio caro.... A proposito, il tuo nome?
--Bernardo, ai vostri comandi.
--Diciamo dunque mastro Bernardo. Ora, vedi (e frattanto Picchiasodo
con certi colpi di trinciante, che non erano da scalco, faceva a
spicchi il pollo infilzato nel forchettone, per darne il meglio a
messer Pietro), a me piacciono quei monti, che chiudono la vista....
quei monti che calano addosso al paese, come falconi sulla preda.
--Ci sarà una strada;--entrò a dire con piglio di mezza domanda il
compagno.
--Una strada? sicuro;--rispose l'ostiere;--quella che voi facevate,
messeri.
--Eh, quella, si sa; ma un'altra su quella costiera, o qui, dall'altra
banda.... Queste montagne non saran mica inaccessibili.
--Occhio alla pentola, Bernardo!--disse l'ostiere tra sè.--Son
genovesi, costoro, o ch'io non so più a quanti dì è san Biagio.
E ad alta voce soggiunse:
--No, magnifici messeri; ci sono alcuni passi, ma da non farne conto;
buoni per menare al pascolo le capre, e nient'altro.
--Male!--sclamò il Picchiasodo, battendo le labbra.--Strade ci
vogliono, mastro Bernardo; strade ci vogliono, perchè la gente a modo
non abbia a scavezzarsi il collo.
--Le strade larghe tirano i nemici in casa,--sentenziò l'ostiere,
temperando l'agro dell'osservazione con un suo riso melenso.
--E la strette non invitano gli amici;--replicò il più giovine e il
meno loquace dei due forastieri.--Per ventura nostra, abbiam fatto il
giro più lungo, a venir qua, ed abbiamo azzeccato una strada da amici.
--Amici! Beato chi ne ha!
--E ne ha sempre chi merita. Ne ha, verbigrazia, in buon dato il tuo
magnifico marchese, messer Galeotto, che è un cortese e liberal
cavaliere.
--Dite anche giusto ed umano,--soggiunse mastro Bernardo con
impeto,--che in tutta la nobilissima stirpe dei signori Del Carretto
non è il più leale, il più degno dell'amore e della venerazione del
popolo.
--Tu lo ami molto, a quel che pare.
--Messere, che dirvi? Siam povera gente e si conta nulla; ma se
bisognasse buttarci nel fuoco per lui....
E mastro Bernardo fece l'atto di dar la capata.
--Qualche volta riesce un po' duro di pagare la taglia;--notò il Maso,
che si rodeva da un pezzo di non poter dire la sua.
--Che c'entri tu, mascalzone? Ti paion cose da dirsi, coteste? Eh,
mastro Bernardo,--soggiunse l'altro, stringendosi nelle spalle,--non
vi lagnate voi qualche volta, e non avete detto ancora l'altro dì....
--Che tu se' un pendaglio da forca o ch'io vo' lardellarti la lingua,
per farne vivanda regalata al diavolo, tuo padrone. Va via, e vedi se
la Rosa ha in pronto la frittata. Perdonate, magnifici messeri! Quel
tristanzuolo mi ha fatto perdere la tramontana, colle sue invenzioni.
Non dico che qualche volta.... Sicuro, i tempi son grami e le riprese
scarse; ma io ho sempre pagato volentieri la taglia, la decima, e
tutte l'altre gravezze.... perchè, già, il castello e la chiesa non
son mica fatti d'aria, e di qualcosa hanno pure a campare.
--Sta di buon animo!--disse gravemente il Picchiasodo.--Se tu hai
qualche volta mormorato del fisco, hai anche puntualmente pagato. La
penitenza cancella il peccato, e noi non ne diremo nulla al tuo ottimo
signore. Alla sua salute intanto,--aggiunse il solenne bevitore,--e
ogni cosa gli vada com'io di gran cuor gli desidero.
--Non son genovesi!--notò mastro Bernardo tra sè.--Indi, a voce alta
proseguì:
--Vedo che voi, magnifici messeri, siete amici del nostro Marchese,
che Iddio prosperi e innalzi su chi gli vuol male. Di certo siete qua
venuti per fargli una sorpresa....
--Vedi il destro arcadore! Ei l'ha imberciata alla prima. Sicuro,
siamo venuti a fargli una sorpresa, e sarà più contento egli di veder
noi, che non tu di buscarti un genovino d'oro.
--Moneta del nemico, è sempre buona a pigliarsi;--si fece a dire
quell'altro, che il Picchiasodo chiamava rispettosamente messer
Pietro;--e anche non amando i genovesi, si possono avere in pregio i
genovini.
--E' sono il meglio di quella gente là!--rispose mastro Bernardo,
ridendo liberamente, da uomo che non aveva più sopraccapi.--Ma ecco la
frittata, magnifici messeri;--soggiunse, vedendo tornare il Maso e
levandogli di mano il piatto, con quel disco appetitoso nel
mezzo;--guardate se non par d'oro anche questa.
--Or ora ne faremo il saggio;--disse il Picchiasodo.--Ma guardate,
messer Pietro, voi che siete così vago della bella natura; guardate
com'è bene indorata dal sole quella vetta laggiù. Di' su, amico
ostiere, come si chiama?
--È la roccia di Pertica,--rispose mastro Bernardo.
--La è proprio a cavaliere del castello;--notò il Picchiasodo.--Io,
per me, se fossi nei panni del Marchese, temerei sempre di vedermi
cascare di lassù un genovese sulla groppa.
--Sì, se un genovese avesse l'ali!--disse asciuttamente mastro
Bernardo.
--Che? non ci si sale, fino a quel colmo?
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