Castel Gavone: Storia del secolo XV - 08

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Un giorno, usando di quella dimestichezza che aveva col capitano
generale (dimestichezza nata nel vivere un tal po' brigantesco, che
anni addietro aveva fatto con esso lui su quel di Novi) se ne lagnò
apertamente con messer Pietro, padrone suo riverito.
--I pigionali della colombaia,--diceva egli, accennando ai difensori
di Castelfranco,--son liberali a lor posta, mandandoci ad ogni tratto
qualche regaluccio coi màngani, e a me la mi cuoce, di non poterli
rimeritare con qualche pera zuccherina del nostro orto. Anche la
signora Ninetta ne ha, son per dire, uno spasimo, e se la mi crepa un
giorno o l'altro, state sicuro che gli è proprio di stizza.--
La signora Ninetta era, come il lettore arguto avrà indovinato alla
prima, una bombarda, e aggiungerò la più bella del campo e la
prediletta di Anselmo Campora, che amava caricarla e darle il fuoco
egli stesso, senza aiuto di valletti.
--Chètati, via;--gli disse di rimando messer Pietro;--c'è tempo a
tutto. Prima di metter mano alle artiglierie, dobbiamo impadronirci
della Marina e piantarci saldamente a cavallo. Che diresti di me se,
mentre tu fossi qua a sfrombolare quella colombaia, come la chiami tu
per dispregio, non ricordando che l'hanno murata i Genovesi tuoi
padri, io lasciassi calare quattromila uomini a far impeto sui tuoi
passavolanti, cortane e falconi, in un luogo dove non potrei certo
spiegare tutta la mia gente in battaglia?
--Voi dite sempre bene, messer Pietro, e meglio operate;--rispose il
Picchiasodo;--ma infine, sapete, amor di padre....
--Sì, sì, lo capisco;--interruppe l'altro ridendo,--Dirai dunque alla
signora Ninetta che stia di buon animo, e si risciacqui la bocca, che
presto avrà da usare tutti i suoi vezzi e le sua moine più dolci.--
E messer Pietro mantenne la parola. Nella notte sopra l'Avvento,
assicuratosi con una grossa guardia di fanti dalla parte di Calvisio,
che il nemico non s'attentasse di molestarlo sui fianchi, s'inoltrò
verso la Marina col grosso dell'esercito. Da Castelfranco udirono lo
scalpiccìo di quella grande passata; ma, per la notte buia non potendo
aggiustar la mira, poco o nissun danno arrecarono coi verrettoni e coi
sassi alle spedite compagnie del Fregoso.
Il marchese Galeotto, col fiore de' suoi combattenti, aspettava il
nemico alle prime case della Marina. Furioso lo scontro; accanita la
pugna; i Finarini fecero miracoli di valore per una intiera giornata.
Quivi si segnalò Paolo Adorno, nipote di Barnaba, combattendo a corpo
a corpo con Giovanni di Cuma, che fu balzato d'arcioni e campato a
fatica dai suoi serventi e compagni.
Vantaggio di quella giornata, in apparenza, nessuno. I Finarini, a
maggior sicurezza e fors'anco ad insidia, si ritrassero sotto le mura
del Borgo; i Genovesi, padroni della Marina, non ardirono di mettervi
il campo, e solamente vi collocarono alcuni drappelli per invigilare
il nemico.
Per altro, messer Pietro si sentiva oramai da quella parte aver le
mani più libere, e allora comandò ad Anselmo Campora di condurre
innanzi le artiglierie, per battere finalmente il castello.
Erano queste artiglierie, con nome vecchio, una cosa nuova, cioè vere
armi da fuoco, non più macchine da trarre per forza di contrappeso, o
di tensione, come usavasi dapprima. Una polvere infiammabile, che
alzava per la propria virtù esplosiva corpi leggieri in cui fosse
rinchiusa, era conosciuta dugento e più anni addietro; ma per assai
tempo si restrinse a far volare certi razzi, nè fu usata ad avventar
palle e saette, se non intorno al 1300. I cannoni, le spingarde, gli
schioppi, che furono le prime armi da fuoco, erano canne di bronzo, e
di non grave dimensione, adattate ad un fusto di legno. Semplici in
principio e quasi manesche, le nuove artiglierie s'ingrandirono man
mano e si fecero più complicate. La bombarda, ad esempio, che fu la
più grossa e che apparve dopo la prima metà del secolo XIV, constava
di due parti disuguali; l'anteriore, chiamata tromba, era una specie
di mortaio di forma conica, a cui s'adattava un gran sasso ritondato e
ravvolto in pelle, o tela cerata; la posteriore consisteva in un
cilindro, in cui si metteva la polvere, e dicevasi mascolo, per essere
in quella il maschio della vite che collegava i due pezzi. Nè sempre
la carica si faceva con un sasso, ma altresì con un cartoccio di
scaglia, fasci di verrettoni, fuochi artifiziati, bigonci di sassi,
canestre, sacchetti d'ogni minutaglia, o fosse di piombo, o di ferro.
Colla bombarda si apriva la breccia nelle muraglie e nei ripari
nemici; ma, essendone i tiri troppo rari, usavasi tener lontani dalla
breccia i difensori, facendo spesseggiare colà i colpi d'artiglierie
minori, che erano bombardelle, falconi, colubrine, cerbottane,
ribadocchini. Inoltre, una bombarda di mezzana grandezza dicevasi
cortana; passavolante la bombarda più lunga.
Toglievasi la mira con due traguardi, collocati alle due estremità
della tromba, e alzando e abbassando la parte anteriore del pezzo, con
piuoli, o zeppe di legno. La vite di mira doveva essere un trovato del
moltiforme ingegno di Lionardo da Vinci. La carica, poi, non si
accendeva colla miccia, bensì con ferro rovente, in forma di uncino,
che si accostava al focone. Ad ogni colpo fatto, la canna si
rinfrescava, ungendola d'olio, od anco di aceto; più tardi l'acqua
giustamente prevalse.
Usavasi anche il mortaio solo, senza la tromba, sotto il nome generico
di bombarda; e forse fu questa la sua forma più antica, che sottentrò
ai màngani, ai trabocchi, alle briccole, ingegni di vecchio stampo,
che tutti traevano, come il mortaio, in arcata.
La difficoltà di maneggiare queste armi, il tempo soverchio che si
spendeva a caricarle, ed anche in parte il pericolo che c'era a
trattare la polvere, furon cagione che l'uso di que' graziosi ordigni
per lunga pezza stentasse a volgarizzarsi e che per quasi tutto il
secolo XV l'arte della guerra non n'avesse mutamenti essenziali. In
molti luoghi i trabocchi e le briccole durarono a fronte delle
spingarde e dei falconetti. Genova, ad esempio, non ebbe bombarde fin
dopo la guerra di Chioggia. Il Giustiniani lo nota espressamente in
due luoghi, accennando la moltitudine delle bombarde veneziane
«ritrovate di nuovo per questo tempo (1379)» e, aggiungendo più sotto,
«l'uso delle quali non avevano ancora i Genovesi.»
Tre di questi ingegni poderosi furono adunque tirati avanti, per
comando del capitano generale, e il buon mastro dei bombardieri li
fece collocare di fronte al castello. Altri ne furono piantati lì
presso, ma di minor mole, detti cerbottane e falconi, e la mattina del
10 di gennaio incominciò la serenata, come il Picchiasodo la chiamava,
in quel suo stile faceto che i miei lettori conoscono.
Dominava il concerto la signora Ninetta, che ad ogni colpo gettava un
sasso di cinquecento libbre. Il suo primo saluto andò a dirittura a
cascare dentro il castello, come impromessa di altri, non meno
aggiustati ed efficaci, che dovevano uscire dalla sua bocca d'oro.

E questi non si fecero molto aspettare. Anselmo Campora (ho già detto
che il cavalier servente della signora era lui in persona) levò una
zeppa di legno di sotto alla gola della, bombarda, le abbassò il mento
d'altrettanto spazio, le fece posar tra le labbra una di quelle
giuggiole che ho detto di sopra, tolse l'uncino rovente dal braciere,
l'accostò al focone, e tonfete, mandò il secondo saluto al castello.
La palla imbroccò il parapetto e, rotolando giù dalla cortina, si
trasse dietro una rovina di pietre. Un lembo di parapetto, colle sue
caditoie, era spiccato dal sommo delle mura.
Intanto che questo accadeva sotto Castelfranco, il Vecchia da Lodi,
co' suoi cinquecento fanti e una ventina di cerbottane, portate dagli
scoppiettieri in ispalla e munite d'un piede da porle in terra quando
occorresse di trarre, s'inoltrò dalla Marina fino ai prati
dell'Altino, che sono a mezza via tra il Borgo e la spiaggia del mare.
I lettori hanno già pratica del luogo; io aggiungerò che il
Picchiasodo, saputo del comando dato al suo compagno d'armi, gli aveva
raccomandato di salutargli tanto e poi tanto un certo ostiere suo
amico, e di farsi dare un fiaschetto di quella malvasia, che teneva in
serbo, per gli uomini di conto.
Ohimè, povero mastro Bernardo, _quantum mutatis ab illo_! La frasca e
l'insegna ce le aveva tuttavia sul portone; ma da parecchie settimane
non vendeva più vino e l'accoglienza era triste. Gli ultimi fiaschi
glieli avevano bevuti gli uomini del marchese, tornando dal
combattimento alla Marina, e se egli non si era ritirato ancora nel
Borgo, ciò doveva attribuirsi ad amore del suo povero nido e ad una
tal quale superstiziosa idea che la sua fuga dovesse tornare di mal
augurio alla patria. Fino a tanto che io sarò qua, pensava egli nel
suo corto cervello, non ci verranno a squadronare i genovesi; e dopo
tutto, chi terrebbe d'occhio queste quattro panche e questi quattro
caratelli vuoti?
Fu un brutto quarto d'ora per mastro Bernardo quello in cui i soldati
genovesi comparvero all'Altino e fecero capo alla sua osteria. Ben si
provò il dabben uomo a sorridere e a fare inchini a tutte quelle facce
proibite (almeno, secondo lui, avrebbero dovuto esserlo in ogni paese
ben governato); ma quando il comandante di tutti que' diavoli
scatenati gli ebbe detti i saluti e l'imbasciata del Picchiasodo, di
quell'arnesaccio che lo aveva fatto cantare da quel babbio ch'egli era
e che oramai sentiva di essere, il povero mastro Bernardo fece a
dirittura una smorfia.
--Maledetta lingua!--borbottò egli tra i denti.
E borbottò ancora di più, quando, sotto pretesto di cercargli il vino
che non aveva, quei furfanti si sparpagliarono qua e là per la casa,
sguisciarono in cantina e gli sfondarono le botti, che non ci avevano
colpa.
Per contro, siccome ogni ritto ha il suo rovescio, mastro Bernardo
ebbe in quel medesimo giorno vendetta allegra di tanto dispetto. Sui
prati dell'Altino, il Vecchi da Lodi si scontrò nei soldati del Finaro
e lì, fino a tarda sera, altro che botti sfondate! Cento cinque
genovesi restarono, tra morti e feriti, sul campo. Dei Finarini, che
erano appostati in luoghi eminenti, o coperti, pochi furono feriti, e
questi dalle cerbottane, coi lor tiri di rimbalzo e lontani.
San Giorgio, come si vede, tirava innanzi a dormire.
La mattina vegnente, il Vecchio Calabrese co' suoi duecento uomini
andava in aiuto al Vecchia di Lodi, e ambedue, con impeto temerario,
s'inoltravano fin sotto le mura del Borgo. Simili spacconate eran
comuni in que' tempi. La grande mobilità delle fanterie leggiere, e la
nissuna delle nuove artiglierie, che sole avrebbero potuto tenere in
rispetto gli audaci, consentivano di correre molto paese innanzi e
indietro, senza fare e senza ricevere gran danno. Questo, come disse
il poeta, «era il costume dei braveggiatori, che fan poche faccende e
gran rumori.»
Senonchè, stavolta i braveggiatori s'erano spinti troppo sotto, e
balestroni, e spingarde, e cerbottane (che anco di quest'armi da fuoco
ne aveano qualcheduna al Finaro) mandarono un tale diluvio di roba
assaettata sui malvenuti, che questi furono costretti a voltar le
calcagna, e molti, anzi, non fecero a tempo.
Ma di queste e d'altre maggiori perdite d'uomini, poco importava al
capitano generale. Con simili scascamuccie e affrontamenti quotidiani,
egli teneva a bada il nemico, e, meglio ancora, lo aveva sempre sotto
la mano; frattanto serrava i panni addosso a quelli altri che
difendevano Castelfranco.
Nello spazio di otto giorni, la signora Ninetta e le due altre comari
che le facevano compagnia, gittarono su quel povero baluardo la
bellezza di cento sessantatre nespole. Per una bombarda, a que' tempi,
sei o sette colpi al giorno erano un bel trarre, e ne ho detto le
ragioni più sopra. Le mura erano così profondamente scombussolate, che
non poteano più reggersi; e ad ogni nuovo colpo ne crollavano con alto
frastuono larghissime falde. Già sui parapetti e lungo i ballatoi non
si poteva più stare.
Come il Fregoso vide in tal guisa avviato il lavoro del Campora, mandò
sotto le mura un araldo. Allo squillar della tromba, Antonio Del
Carretto, il difensore del castello, si affacciò sulle macerie.
--Per comando dell'illustrissimo capitano generale dei Genovesi, messer
Pietro Fregoso, vi è intimata la resa;--disse l'araldo;--fatelo, e sia
pel vostro meglio; se no, tra due ore si dà la scalata e non isperi
allora di aver salva la vita nessuno.
--Di ciò non mette conto parlare;--rispose Antonio, con piglio tra non
curante e faceto.--La guerra è cosiffatta, e cui non garba il giuoco
stia co' frati e zappi l'orto. Dite piuttosto, che patti ci fa il
vostro capitano, se noi si rende questo mucchio di pietre?
--Libera uscita,--soggiunse l'araldo,--e portando tutti con voi le
armature; ciò consente messer Pietro Fregoso, in segno d'onoranza al
valore.--
Il bravo Antonio rimase un tratto sopra pensiero. Gli cuoceva di dover
cedere e tuttavia ben vedeva di non poter resistere più a lungo. Per
sè, avrebbe forse rifiutato; ma il patto era onorevole pe' suoi
compagni, e certo, poichè la difesa avea toccato agli estremi, meglio
valeva portare a Galeotto cinquanta animosi soldati, che
seppellirglieli sotto le rovine d'un castello perduto.
Così pensando, chiese ancora che gli si concedesse tempo fino al
giorno di poi; avrebbe reso il castello, se nello spazio di
ventiquattr'ore non gli giungeva soccorso. Messer Pietro gli fu tanto
cortese da recarsi egli in persona sotto le mura, per rispondergli che
non poteva contentarlo. Galeotto era chiuso nel Borgo e i Genovesi
padroni della vallata; cedesse adunque, accettasse i patti larghissimi
da lui consentiti a un così prode nemico, e co' suoi occhi medesimi,
nel tragitto dalla Marina al Borgo, si sarebbe sincerato della sfidata
condizione in cui era.
Antonio ben vide che non gli restava altro scampo e si arrese. Ebbe
all'uscita tutti gli onori che un esercito vittorioso potesse rendere
al valore sfortunato, e mentre nel campo di San Fruttuoso le
bombardelle e i falconi facevano gazzarra per questo primo trionfo
delle armi genovesi, egli si ridusse malinconico al Borgo, coi suoi
sessanta compagni, la sera del 18 gennaio.
--E uno!--aveva detto il Picchiasodo, palpando amorosamente il collo
della signora Ninetta mentre i difensori di Castelfranco passavano
muti e dimessi davanti alla loro capitale nimica.--Or viene la volta
di castel Gavone.--
L'incontro di Antonio col marchese Galeotto alle porte del Borgo fu
commovente. Antonio, triste e raumiliato, quasi non ardiva alzar gli
occhi a guardare il cugino; ma Galeotto gli andò incontro con piglio
amorevole, lo abbracciò e di altro non ebbe cura che di confortarne lo
spirito.
--Di che vi accorate, cugino, quando io trovo nella vostra difesa
argomento a sperar bene del futuro? La resistenza di Castelfranco ci
ha fatto guadagnare un mese di tempo. La lega dei nostri congiunti ha
avuto agio a raccogliere gli aiuti, che mi si annunzia esser pronti a
Garessio. Anche di Francia ne aspetto. Noi qui possiamo tener saldo un
anno, e in un anno molte cose possono accadere a Genova e altrove.--
Le parole di Galeotto furono molto lodate, come quelle che facevano
testimonianza d'animo grande e in pari tempo avveduto.
A rinfrancare vieppiù lo spirito de' suoi, quella medesima notte egli
fece dal Borgo una vigorosa sortita generale. Antonio gli aveva detto
non esser gran gente nella vallata, e Galeotto ne approfittò.
Ributtate le prime schiere genovesi, piombò sulla Marina prima che il
nemico avesse potuto raccapezzarsi, e fu tale la furia, che egli
pervenne senza contrasto alla riva del mare, dov'erano tirate in secco
alcune feluche e fregate corriere. Tosto i soldati vi balzano dentro a
farvi bottino, e per fermo v'appiccavano il fuoco, se l'impresa non
portava via troppo tempo; indi, con larga preda e buon numero di
prigioni, se ne tornano indietro.
Comandava la spedizione Francesco del Carretto, figlio a Corrado e
cugino di quel Marco, signore di Osiglia, che segretamente se la
intendeva coi Genovesi. Galeotto lo aveva nominato suo capitano
generale, in omaggio alla Lega, di cui aspettava, siccome ho detto,
gli aiuti.
Con questo colpo audace si ricattarono i Finarini della resa di
Castelfranco. Già l'ho detto e ripetuto; san Giorgio ancora non avea
preso partito. E lo spirito conturbato di mastro Bernardo aveva, nel
giro di pochi dì, una seconda consolazione. A farlo pienamente felice
mancava tuttavia che un certo Anselmo Campora fosse preso e impiccato
per la gola.
Ma già, contenti in tutto, a questo mondo, trovarli!


CAPITOLO VII.
Come Giacomo Pico parlasse a madonna Nicolosina e qual risposta ne
avesse.

Riposiamoci un tratto dai combattimenti e dai pensieri di guerra. Il
castello Gavone, lontano ancora da queste gravi molestie, c'invita.
Lassù, in una camera alta del torrione dell'Alfiere (che guarda alla
marina da ponente, come il torrione della Madonna a levante, mentre
gli altri due, del Marchese e della Polvere, guardano, nello stesso
ordine, dalla parte di tramontana) c'è il nostro Giacomo Pico, seduto
la maggior parte del giorno su d'una scranna a bracciuoli, nella
strombatura d'una smilza finestra, dond'egli beve la tiepida luce del
sole.
La perdita del sangue lo ha infiacchito, lo ha reso bianco in volto
come un cencio lavato; ma infine, quel che gli ha tolto di forza e di
fierezza, gli ha aggiunto, in una certa misura, di leggiadria. Dico in
una certa misura, intendiamoci; che non aveste a pigliarlo in iscambio
d'un fior di bellezza, nato lì per lì e sbocciato sotto la penna dello
scrittore, per comodità delle sue invenzioni. Vo' dire soltanto che il
ruvido giovinotto s'era in quella occasione raggentilito di molto e
che aveva fatto una ciera, da pigliarci amore le donne a cui piacciono
le pallidezze e i languori.
Madonna Nicolosina e madonna Bannina, figlia e madre, come sapete,
consolavano spesso di lor presenza il ferito. La Gilda andava e
veniva, aliava a guisa di farfalla, e trovava modo, ora con un
pretesto, ora con un altro, di essergli sempre dattorno. Nè ciò gli
sarebbe dispiaciuto (perchè una bella ragazza non fu veduta mai di mal
occhio da alcuno) se a lui da molti giorni non avesse pigliato la
smania di restar solo, almeno per dieci minuti, con madonna
Nicolosina.
E questo, per l'appunto, questo che desiderava più ardentemente, non
gli era anche riuscito. In quella vece, e più d'una volta, era rimasta
sola con lui la Gilda, desiderio e tormento del suo amico Tommaso
Sangonetto. La fortuna è cieca, avrebbe notato costui, se lo avesse
risaputo. Ma il lettore, che già conosce un cantuccio del cuore di
Gilda, penserà con ragione che non fosse tutta fortuna, quella che
faceva trovare la ragazza a quattr'occhi col ferito. Senonchè, la
povera Gilda sprecava ingegno e fatica; Giacomo Pico non le aveva mai
detto pur una di quelle parole, che ella si aspettava sempre da lui.
Se la Gilda avesse avuto un miccino d'esperienza degli uomini, avrebbe
saputo che quando uno di questi bipedi implumi è presso ad una donna
non brutta, nè spiacente, e non incomincia a coniugarle quel verbo,
gli è segno evidente che l'ha coniugato, o pensa di coniugarlo ad
un'altra, E la Gilda, a guardarsi nulla nulla dintorno, avrebbe capito
altresì dove fosse l'argomento delle coniugazioni di Giacomo Pico. Di
belle ragazze, al castello, non ce n'eran che due.
Tornando al ferito, il lettore avrà argomentato di leggieri che, se
egli poteva pensare ai colloquii e mandare dal profondo dell'anima le
sue giaculatorie alla giovine castellana, il suo non era un mal di
morte per fermo. Diffatti, la ferita, non essendo delle più gravi, si
andava rimarginando, e la gioventù, questa, gran medichessa che la sa
più lunga di tutto il dotto collegio, aveva secondato le cure del
cerusico Rambaldo, che era, per altro, la prima lancetta del
marchesato.
Ma ohimè, se una piaga si era risanata, un'altra s'era inciprignita; e
questa era la piaga fatta nel cuore di Giacomo dagli occhi
inconsapevoli di madonna Nicolosina.
Così, mentre il corpo si rinvigoriva di giorno in giorno, l'animo si
struggeva nel desiderio di potersi aprire alla donna de' suoi
pensieri, o almeno di conoscere che cosa pensasse ella di lui.
Amorevole e sollecita gli era parsa bensì in tutti que' giorni e più
assai che non fosse mai stata con lui negli anni andati, quando la
tenera età, non che scusare, consentiva ogni dimestichezza maggiore;
ma anche qui non c'era da cavarne un costrutto, essendo l'affettuosa
cura un uffizio di pietà, naturalissimo nella donna, per chi soffre
d'un male visibile, a cui ella possa portare rimedio, o sollievo. Ora,
se egli avesse potuto dirle di quell'altro suo male invisibile che
portava nel cuore, come sarebbe stata accolta la sua confessione da
lei? Questo era il busilli.
A tutta prima, vedendola giungere all'Altino, aveva argomentato in
cuor suo.... Che cosa? Nulla e tutto. Nicolosina era pallida, ansante,
confusa; una immensa pietà le traspariva dallo sguardo smarrito; una
ineffabile tenerezza governava i moti convulsi di quella labbra
smorte, che per lunga pezza non poterono profferire una parola, una
sola parola, E più tardi, quali cure affettuose! quale umanità più che
fraterna negli atti! come pendeva ansiosa dai responsi di messer
Rambaldo, che era venuto al letto del povero ferito! con quanta
sollecitudine gli occhi della leggiadra castellana si partivano dalle
labbra del discepolo d'Esculapio per andarsi a posare sul viso smorto
di lui!
Che pensare di ciò? Un giorno gli venne in mente che ella sapesse la
cagione del suo duello col Fregoso. Volea sincerarsene; ma le parole
gli morirono sul labbro. E poi, come si è detto, madonna Nicolosina
non era mai sola al suo capezzale.
E voleva altresì domandare del Cascherano. Che c'era egli di vero in
quella chiacchiera di mastro Bernardo, che aveva fatto nascere il
guaio? Di certo, l'ostiere, anco ingannandosi sul conto de' due
forastieri, non aveva inventato il personaggio e il matrimonio di
pianta. E forse, anzi senza il forse, la Gilda ne sapeva l'intiero. Ma
il chiederne a lei non avrebbe dato a divedere che troppo gli premeva
di madonna Nicolosina? Tanto faceva aprirsi a dirittura con questa e
dirle spiattellato: madonna, io muoio d'amore per voi.
Fosse almeno capitato il Sangonetto a trovarlo; si sarebbe
raccomandato a lui, che pigliasse lingua da alcuno. Ma il Sangonetto
aveva preso il largo; in vece sua, era diventato un pezzo grosso;
tornato a mala pena dalle Langhe colla promessa degli aiuti, aveva
spiccato il volo per altri lidi. Nessuno sapeva per dove; egli stesso,
andato per pochi istanti a vedere l'infermo e trovar modo di
bisbigliare una parolina alla Gilda (che lo vedea volentieri come il
fumo negli occhi) non ne avea pur rifiatato. Vanaglorioso ed ingrato,
il nostro Tommaso già sentiva la carica.
Diremo noi brevemente dove fosse andato; in Francia, alla corte di
Carlo VII, il re di cui avea detto Lahire, che perdeva «allegramente»
il suo regno, e a cui il fiore dei cavalieri francesi e una
meravigliosa pulzella dovevano riconquistarlo più tardi; ci era
andato, non già come ambasciatore, bensì col più umile e più sollecito
ufficio di corriere, e portava, da buon corriere, una lettera.
In essa, Galeotto rammentava l'ossequio dei Carretti e la loro
divozione ai reali di Francia; ricordava come un Nicolò, suo zio
paterno, combattendo per Carlo e pel nome francese, fosse stato ucciso
in battaglia dagl'Inglesi invasori; soggiungeva essere egli stato mai
sempre nemico acerbo ai Fregosi, i quali, essendo Barnaba Adorno doge
di Genova, avevano ingannato Sua Maestà, pigliandone molte migliaia di
fiorini contro la promessa d'impadronirsi di Genova e darla a lui; e
l'avevano presa e l'avevano tenuta per sè. Vendicasse adunque lo
scorno patito, soccorrendo il Finaro contro i Fregosi. Questi erano
odiatissimi a Genova, di guisa che sarebbe tornato agevole al re,
combattendo i Fregosi e avendo dalla sua il Finaro, insignorirsi di
quella repubblica. Anche Galeotto, come si scorge di qui, vendeva la
pelle dell'orso. Costume dei tempi!
Andava dunque il Sangonetto con grande celerità e presentava la
lettera. Essa piacque oltremodo al re, che s'era allacciata al dito la
gherminella di Giano Fregoso e stimò d'avere gran sorte, se poteva,
con poco disagio suo, dare a quel cattivo pagatore una grande
molestia. A pronta dimostrazione dell'animo suo verso il marchese
Galeotto, mandò subito al Finaro un prode italiano, allora ai servigi
di Francia, messer Giovanni Sanseverino, con venticinque lancie, ed
altri aiuti promise. Que' cavalli intanto dovevano essere la mano di
Dio pel marchesato, che molti invero non avrebbe potuto nutrirne, o
adoperarne in quelle strette sue gole, ma di un certo numero avea pure
mestieri, per contrapporli ai cavalli nemici e sostenere all'uopo gli
assalti dei fanti.
Ed ecco perchè Giacomo Pico non aveva più visto il Sangonetto, nè
potuto sciogliere uno dei nodi che più gli stavano a cuore. Intanto i
giorni passavano; la guerra, non pure era cominciata senza di lui, ma
vigorosamente condotta fino alla resa di Castelfranco, senza che egli
potesse ancora uscir fuori e nelle aspre fatiche del campo acquetare
un tratto le acerbe battaglie del cuore.
Ben presto, dal vano della sua alta finestra, potè vedere co' suoi
occhi il nemico. Una bastita per tutto l'esercito genovese era
innalzata da due giorni a Monticello, proprio alla vista del borgo, e
due grosse bombarde v'erano collocate a difesa. Tre battifolli subito
dopo erano edificati più avanti, l'uno sul poggio di Maria, l'altro
nella vigna di Nicolò Giudice, il terzo all'Argentara, sul fianco
stesso della terra assediata. Quest'ultimo, per altro, non fu
costrutto dai Genovesi senza grande spargimento di sangue.
Dicevasi allora che tante fabbriche militari si facessero per
arricchire i Fregosi. Nicola, cugino di messer Pietro, intascava per
ogni nuova bastita dugento fiorini, e questi in prezzo dell'opera sua,
mentre assai più gliene erano pagati per l'opera degli artieri, ai
quali non ne dava neanco cinquanta. Ma queste forse erano ciarle dei
malevoli. Anche i nemici dicevano che tante bastite non servissero a
nulla; eppure, la mercè di questi saldi ripari, l'esercito genovese
aveva potuto farsi tant'oltre, in luoghi così malagevoli per natura, e
pericolosi, poi, se tenuti da un forte e risoluto nemico.
In tal guisa era stretto il Finaro, che, a detta del Picchiasodo, non
poteva uscirne un uccello a volo, che nol vedessero i Genovesi, ed
egli inoltre poteva contare le casseruole e i tegami appesi alla
parete nelle cucine degli assediati.
Questo era forse un vanto soverchio; ma certo la vicinanza dei nemici
doveva parere già troppo molesta a Galeotto, che, insieme col fratello
Giovanni, usciva ogni giorno a battaglia. Francesco, il capitano
generale, non era più con esso loro; andato verso Garessio, per
affrettar la venuta degli aiuti che mandava la lega, avea fatto come
il corvo dell'Arca; non s'era più visto, e gli aiuti promessi,
nemmeno.
Tardi ricordò Galeotto che il suo capitano generale era cugino di
Marco, del tiepido signore di Osiglia; più tardi ancora riseppe che
Genova a Marco e ai cugini suoi prometteva di dare la parte loro del
marchesato, quella stessa che i loro antenati Emanuele ed Aleramo
avevano posseduta. E quando ciò seppe, argomentò che dai congiunti
suoi delle Langhe non aveva più nulla a sperare, e che le vie di
Calizzano e di Osiglia, donde si sentiva sicuro alle spalle, non gli
teneano più fede.
Non si smarrì tuttavia, non si perdette d'animo; che anzi, il sapersi
solo, accrescendogli la malleveria dell'impresa, gli aggiunse le forze
della disperazione. Sì, veramente, con mani e con piedi, come aveva
scritto al doge di Genova, era egli inteso a difendersi. E quella sua
baldanza inanimiva i Finarini, li incuorava non solo ad affrontare
arditamente i pericoli, ma a sopportare con fermezza i danni della
guerra.
E questi pur troppo erano gravi. Dal poggio di Maria, le cortane e le
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