Castel Gavone: Storia del secolo XV - 07

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Egli, Sangonetto, non l'aveva, e non potè essere che testimone al
combattimento, che era finito colla peggio del suo povero amico.
--Fu un colpo disgraziato!--diceva il prode Tommaso.--Ed io non ho
potuto ricattarmi sul compagno del Fregoso, perchè non avevo meco che
questo coltello da caccia.
--Bravi giovani!--sclamò il dabben gentiluomo.--Ma dimmi, è così grave
la ferita, che il nostro Pico non possa muoversi dall'Altino?
--Oh, non dico questo, magnifico messere; su d'una lettiga si potrà
sicuramente portarlo via di laggiù.
--Va dunque; piglia quattro soldati alla porta di San Biagio e sia il
nostro Giacomo condotto al castello, dove gli sarà usata ogni cura.
--Padre mio,--entrò a dire timidamente quell'anima pietosa di madonna
Nicolosina,--se noi gli andassimo incontro?
--Perchè no?--soggiunse il marchese, assentendo del gesto.--È delle
dame aver cura ai feriti. Giacomo Pico ha salvato la vita a me; la mia
famiglia deve essergli grata. Andate dunque e veda il Finaro che le
sue castellane son pronte ad ogni ufficio di carità pei nostri fedeli
servitori e soldati. Ma ora che Pico è ferito, chi porterà l'annunzio
della sfida di Genova al capitano della Lega, a Millesimo?--
Tommaso Sangonetto, che stava coll'occhio alla penna, vide che quello
era momento da farsi avanti e acciuffar l'occasione.
--Magnifico signore,--diss'egli, inchinandosi,--non valgo io nulla per
obbedirvi? Son tutto vostro e se v'è cosa che io possa fare, in cambio
del mio povero amico, eccomi ai vostri comandi.
--Sì, puoi servirmi benissimo;--rispose il marchese Galeotto.--Si
tratta di portare una lettera a messer Francesco del Carretto, signor
di Novelli. Lo troverai a Millesimo, nella torre di Oddonino. Andando
a staffetta, potrai essere domani, all'alba, in Millesimo. Va dunque a
pigliare il nostro Giacomo e torna; ti metterai in viaggio tra
un'ora.--
Ed ecco il nostro Tommaso Sangonetto ambasciatore dell'esoso tiranno.
La fortuna capricciosa lo aveva innalzato a quel segno; ma la fortuna
egli l'avea anche aiutata con una mezza serqua di bugìe; non le era
dunque debitore di nulla. Per contro, egli poteva credersi obbligato
di qualche cosa alla disgrazia di un amico, e, pensando al povero
ferito che andava a togliere dall'osteria dell'Altino, aveva anche
ragione a considerare la profonda verità dell'adagio, che tutto il mal
non vien per nuocere. Disgrazia di cane, ventura di lupo, dicevano i
vecchi.
--Un bel garbuglio s'è fatto!--andava egli digrumando tra sè.--Giacomo
in di grosso ha capito quello che dee lasciar credere della sua
sfuriata contro il Fregoso. Mastro Bernardo, che è stato cagione di
tutto il guaio, non parlerà. Io ci ho guadagnato di poter dire una
parolina alla Gilda e di diventare un pezzo grosso alla corte. Non c'è
che dire; sono ambasciatore, o giù di lì; lascio la spada pel caducèo,
il panzerone per la guarnacca; _cedant arma togae_!--


VI.
Nel quale si vede come San Giorgio, invocato da due parti, non sapesse
a cui porgere orecchio.

Era un fiorito esercito quello che la repubblica genovese avea posto
sotto il comando di Pietro Fregoso, e che questi guidava dal campo di
Vado all'impresa del Finaro.
Come Genova avesse provveduto a radunar gente, s'è già accennato a suo
luogo. Seicento fanti dovea fare il vicariato di Chiavari,
quattrocento il vicariato della Spezia ed ottocento le tre podesterie.
La città di Genova dava quattrocento balestrieri, milizia sceltissima
e assai riputata; Varazze, Savona e Noli, davano mille fanti; Albenga,
i Doria d'Oneglia e i signori della Lengueglia, quattromila; Filippo
Doria, del Sassello, cinquanta balestrieri; Giovanni Aloise del Fiesco
e gli altri parenti suoi, si mettevano alla discrezione del Doge; gli
Spinola di Luccoli, così quelli che possedevano castella, come quelli
che non ne possedevano, erano obbligati a fornir per un mese dugento
balestrieri; quanto al Doge, ne metteva del suo quanti bisognassero. E
questi dovevano essere i più numerosi e più certi nel campo.
Invero, non si poteva a que' tempi far troppo assegnamento sulle forze
comandate, e questo non già per manco di prodezza nei combattenti,
bensì per la poca e varia durata del loro servizio. Comuni e
feudatarii non usavano imporlo che per breve stagione, talvolta di
trenta dì, come nel caso citato degli Spinola, tal altra di quaranta;
spirato il qual termine, le milizie in tal guisa raccolte lasciavano a
mezzo l'impresa meglio avviata e si sbandavano tosto. Bene per moneta,
o grazia speciale, si consentiva al comandante un servizio più lungo;
ma questo per privati accordi dovea stipularsi; ad ogni modo, egli non
era da farci a fidanza. Perciò, in ogni impresa, occorreva ai comuni
ed ai principi aver gente in altra maniera, e, a dirla in poche
parole, pigliar mercenarii in condotta.
Il nome solo di mercenarii è un doloroso ricordo per noi italiani. In
quelle soldatesche vaganti era la forza, e la loro prevalenza nelle
guerre del medio evo ci spiega come fosse possibile lo imperversare di
tante fazioni e il soverchiare di tante tirannidi. Piccoli comuni
inghiottiti dai grandi; questi oppressi dalla violenza di un solo, o
lacerati dalle gare di molti; discordie tirate innanzi fino alla
calata di un più possente nemico, che aggravi la sua mano di ferro
sulla contesa città; vicarii d'Impero e vicarii di Chiesa, con
tradimenti e raggiri, fatti padroni di vaste provincie, incautamente
preparate a stimolare la cupidigia di stranieri monarchi; questo ed
altro hanno procacciato i mercenarii all'Italia. Il bisogno, nei
comuni e nei principi, di guerreggiarsi l'un l'altro, aveva tirato
quella peste tra noi, e le grosse paghe avean fatto della milizia un
gradito mestiere; laonde privati cittadini e gentiluomini agli
sgoccioli radunavano spesso un certo numero di cavalieri e di fanti,
coi quali andavano a soldo del migliore offerente.
Forastieri in principio, furono italiani dappoi. Italiano, per citarne
uno fra tanti, era quell'Astorre Manfredi che comandava nel 1379
quella terribile compagnia della Stella, mandata da Bernabò Visconti a
molestare il territorio dei Genovesi. Questi, per altro, il 24 di
settembre di quel medesimo anno, la ruppero sulla spianata del
Bisagno, tuttochè forte di ben quattromila uomini e saldamente
appoggiata alla collina d'Albaro, menando prigione il maggior numero e
deputando un commissario a giudicarli. Aveva egli dal Comune il mero e
misto imperio e la podestà della spada, affinchè procedesse _juris
ordine servato et non servato_, cioè a dire che potesse giudicare
sommariamente. E così fece messer Giorgio Arduino, che tale aveva nome
il fiero magistrato, mandando tutti que' scellerati predoni alle
forche.
Ma lasciamo in disparte le grandi compagnie, che non entrano nel
nostro povero quadro, e ristringiamoci a parlare di quelle piccole
masnade di venturieri, che, datisi al mestiere dell'armi, cominciavano
ad essere caporali di lancia, e, venuti in fama di prodezza,
riuscivano a far manipolo di gente, che poi conducevano a' servigi di
questo e di quello. La loro condotta era di tre sorte. Dicevasi che un
condottiero serviva _a soldo disteso_, quando egli, con un dato numero
di cavalli e di fanti, militava operosamente sotto il comando del
capitano generale; era in quella vece condotto _a mezzo soldo_ quando,
senza obbligo di passare la mostra, e in forma di compagnia,
guerreggiava a suo bell'agio le terre sopra le quali era mandato; da
ultimo, stava _in aspetto_ quando, per certa piccola paga, il
principe, o comune che fosse, teneva impegnata a suo pro' la compagnia
del condottiero, per ogni caso di guerra.
A tal gente aveva fatto capo il Doge di Genova, per rafforzare
l'esercito d'un buon nerbo di cavalli e di fanti. E sotto il comando
di messer Pietro Fregoso erano venuti in condotta per tutto il tempo
che avesse a durare la guerra, Firmiano Migliorati con dugento fanti,
Francesco Bolognese con quattrocento, Vecchia da Lodi con cinquecento,
Santino da Riva, lombardo egli pure, con altri cinquecento, Bombarda
di Nè con trecento, Giovanni di Trezzo con trecento del pari e Pietro
Visconte con dugento cinquanta. Cinquecento ne aveva Bartolomeo da
Modena; dugento per ciascheduno Giovanni da Cuma, Soncino Corso e
Carlo del Maino; trecento Cipriano Corso, duecento Antonello da
Montefalco ed altrettanti il Vecchio Calabrese; cento il Giovine
Calabrese, cento Battista di Rezzo, come Carlino Barbo, Bertone
Maraviglia e Bertoncino il Poccio, da ultimo, ne aveva cinquecento
egli solo.
Parecchi portavano anche condotta di lancie. Cinquanta ne comandava
Firmiano Migliorati; venticinque Santino da Riva; dieci per
ciascheduno Bartolomeo da Modena e Giovanni da Cuma; venticinque
Beltramino da Riva.
E qui bisognerà fermarsi un tratto per dire che cosa fossero le
lancie. Parlo pei meno intendenti di queste astruserie militari, che
pure ricorrono tanto frequenti nelle storie italiane anteriori alla
prevalenza dei cannoni e degli schioppi maneschi.
Nella cavalleria, più che nei fanti, era a que' tempi il nerbo delle
battaglie. Questi, se arcadori e balestrieri, incominciavano la pugna;
i cavalieri vi facevano poscia lo sforzo decisivo. Sepolti, per così
dire, entro a montagne di ferro, portati da cavalli smisurati e
coperti anch'essi di ferro, correvano a furia gli uni sugli altri, e
vincitore era facilmente colui che levasse il nemico d'arcione. Il
ferire, essendo intatte le armature, non tornava agevole, salvo in un
punto, cioè sotto l'allacciatura dell'elmo. E a ciò, se il cavaliere
non reputava più utile imporre un riscatto al caduto, badavano i
serventi del vincitore e gli altri fantaccini accorsi nella mischia.
Così poderosamente armato e bisognoso d'aiuti, il cavaliere aveva
sempre un cavallo di riserbo, talvolta anche due, ed un manipolo di
pedoni con sè. Potevano esser quattro e cinque, non mai meno di tre
serventi, uno dei quali armato di balestra, e un altro di lancia, o di
partigiana. Costoro si chiamavano anche saccomanni; gli altri si
diceano paggi, o ragazzi, nel primo significato del vocabolo, che è
quello di servi, adoperati in umili esercizi. E tutta questa famiglia
dicevasi lancia, giusta il costume degl'inglesi venturieri calati in
Italia, che tolsero il nome dall'arma principale del combattente;
laddove, più anticamente, da noi i cavalieri erano detti militi, per
antonomasia, quasi i soli che meritassero tal nome, o barbute, o
elmetti, dalla più nobil forma dell'armatura del capo. Quest'elmo, un
panzerone di ferro e un'anima d'acciaio sul petto, bracciali, cosciali
e schinieri di ferro, erano le difese del cavaliere; daga, e spada
soda, lancia a posta sul piè della staffa, erano l'armi di offesa.

Nomi diversi, secondo i tempi e le fogge del loro armamento, avevano i
fanti. Portavano giaco e cervelliera di ferro, spada e mazza, oppure
una picca di smisurata lunghezza. Dicevansi tavolaccini e palvesarii i
balestrieri che combattevano al riparo d'un tavolaccio, o d'un
palvese, scudi alti quanto la persona e terminati in punta, che si
conficcavano in terra. Le balestre (chi nol sa?) erano aste di legno,
cui s'adattavano archi di ferro; le maggiori avevano un piede, di
guisa che il balestriere non durava altra fatica che di tenderle,
appuntarle e scoccarle; altre, più grandi, e dette balestroni, o
spingarde, specialmente adoperate nella difesa, o nell'assedio delle
fortezze, si montavano la mercè d'una girella e scagliavano tre
verrettoni, e all'occorrenza anco pietre.
L'argomentò mi tirerebbe a parlare eziandio delle macchine; ma il
troppo stroppia e fo punto. Tra fanti e cavalli, bombardieri, artefici
e bagaglioni, erano forse quindicimila sotto i comandi del Fregoso,
all'impresa del Finaro. Pochi erano i cavalieri in paragone degli
altri; ma i luoghi montuosi e ristretti in cui era portata la guerra,
non richiedevano gran nerbo di gente a cavallo. Del resto, in aiuto
alle lancie, militavano con messer Pietro molti nobili genovesi, e tra
essi quasi tutti i giovani della casata Fregosa.
Le prime bandiere giunsero in vista del Finaro il giorno che era stato
indicato, cioè a dire il 5 del mese di dicembre. Le vedette collocate
dal marchese al passo delle Magne, si ritrassero a Verzi e di là fino
al Calvisio, per dare avviso dell'approssimarsi del nemico. Galeotto
aspettava il Fregoso al passo di Val Pia, per sbarattare le prime
compagnie che si fossero perigliate laggiù. Ma messer Pietro non avea
fretta di calare nella valle; per quattro giorni intieri stette sul
poggio di Castiglione, aspettando l'arrivo di tutta la sua gente; e
frattanto gli artefici, per suo comando, prendevano a far bastita in
quel luogo.
Dicevasi bastita, o battifolle, quell'edifizio che un esercito
innalzava in prossimità del nemico, per comandare un passo
contrastato, o una città assediata, ed era alcun che di simile al
vallo degli antichi romani e al campo trincierato degli eserciti
moderni. Facevasi di legno e di pietre, munivasi di steccato, di
scarpa e di fosso tanto più profondo quanto più era consentito dal
tempo e richiesto dalla poca eminenza dei luoghi. Colà dentro riparava
l'esercito con tutte le sue salmerie ed ingegni di guerra, così per
custodirsi da un colpo disperato del nemico ed aver tempo a mettersi
in arme, come per tornarvi a rifugio e riordinarsi nel caso d'una
sconfitta.
Messer Pietro era uomo avveduto e non gli accadeva mai di badare ad un
negozio, che non ponesse mente in pari tempo a tutte quelle cose che
potevano aiutarne il buon esito. La sua bastita non appariva una delle
solite a farsi in somiglianti occasioni; capace era e fortissima, con
quattro torri sugli angoli, come se anche di là dond'era venuto
temesse egli un assalto. Que' monti, che scendevano dirupati fin
presso al mare, gli parean traditori, ed egli inoltre, quanto al senno
di poi, non voleva rimorsi.
Quella bastita, del resto, anche avanzandosi egli col grosso delle
schiere entro la valle del Finaro, doveva rimanere il suo ricettacolo,
il suo emporio, la sua piazza forte. Però l'aveva innalzata in luogo
così eminente e lontano, e fatta così ampia, così validamente munita.
I Finarini, che stavano spiando tutto ciò dalle loro beltresche e
battifredi rizzati sui colli di rimpetto, in cominciavano a beffarsi
di questo Fabio temporeggiatore, e delle sue fabbriche tanto lontane.
--Scenda,--dicevano essi,--venga alla prova sotto le mura di
Castelfranco e vedrà se, scompigliato al primo urto, gli riesce di
tornare in salvo su quella bicocca.--
E messer Pietro, la mattina del 14, bravamente discese. Santino da
Riva, colle sue lancie, correva sulla sponda sinistra del torrente di
Pia, per assicurare le spalle dell'esercito dalla imboscate nemiche. I
quattrocento balestrieri di Genova calarono in bell'ordine sotto il
comando di Nicola Fregoso, giovin cugino di Pietro, e s'avviarono
verso la foce del torrente. Giunti ad un luogo coltivato, che avea
nome di Vigna Donna, si fermarono, con gran meraviglia dei difensori
di Castelfranco, che si aspettavano un assalto e stavano ai parapetti,
pronti con verrettoni, sassi, e pece bollente, a respingerli. Questo
per la difesa del castello; ma dietro ai saglienti dei bastioni c'era
preparato dell'altro, per attaccar battaglia sul lido. Erano colà
forse due mila Finarini appostati, che dovevano piombare sul nemico, a
mala pena si fosse avventurato all'assalto.
Ma messer Pietro non volle pigliarsi la briga di andarli a cercare.
Piantatosi a Vigna Donna, accennò di volervi attender battaglia, e,
poichè questa non gli fu data, di volervi dormire. E giunse difatti la
sera, senza che egli si fosse scostato di là. Il luogo doveva
piacergli di molto, poichè egli ci stava ancora la mattina vegnente;
anzi ci avea messo casa. Il principio d'uno steccato appariva in quel
luogo; il fosso era scavato in giro e il cavaticcio ammontato a
rincalzo dei pali, minacciosamente aguzzi e appuntati all'ingiù.
Quello era stato il lavoro di tutta la notte, e certamente messer
Pietro ci aveva fatto vegliare la metà dell'esercito. Di torri non
c'era ancor segno in quel luogo; chè sarebbero state opere inutili. Il
palazzo di Gandolfo Ruffini, murato in quella vigna, era parso la man
di Dio al prudente capitano, che n'avea fatto il mastio della sua
nuova difesa. Una strada coperta, tutta irta di punte, metteva dal
battifolle improvvisato fino alla bastita del poggio di Castiglione.
I difensori di Castelfranco incominciarono a capire il disegno di
messer Pietro. Voleva esser sicuro del fatto suo, il capitano
genovese, e dar battaglia colle spalle al coperto. E quanta riserva di
pali faceva portar tuttavia da lunghe file di bagaglioni! Ormai ce
n'erano tanti accatastati là dentro, da farne, non che una doppia, o
tripla stecconata, una selva.
Così passò la giornata del 15; i Genovesi lavorando senza posa a
rafforzare il battifolle e portando sempre nuovo legname; i Finarini
aspettando un assalto da alcune compagnie di fanti, che proteggendo i
lavori dei manovali, accennavano di avvicinarsi a Castelfranco. Erano
giunti a due balestrate dalle mura, nel luogo detto di San Fruttuoso,
poco stante dalla spiaggia del mare; ma non s'inoltravano di più.
--Che diavol fanno?--si chiedevano i difensori di Castelfranco l'un
l'altro.--Oramai, il battifolle di Vigna Donna è diventato una
legnaia.
--Provvedono forse ai casi loro per quest'inverno, che sarà freddo
laggiù.
--T'appiccherà il fuoco messer Galeotto, statene certi; e di qui ci
vogliamo goder la fiammata;--
Questi i ragionari sul parapetto. Intanto giungeva la notte,
senz'altro di nuovo per tutto quel dì, tranne qualche colpo di
balestra scambiato sul lido tra le vedette dei Finarini, appostati
sotto Castelfranco, e alcuni più audaci scorridori nemici.
La notte fu buia e tempestosa; soffiava il libeccio e il mare frangeva
rumoroso alla spiaggia. Tuttavia, dall'alto dei bastioni si udiva un
continuo rumore nel campo, un alternarsi di voci, un cozzar di ferri,
un cigolar di ruote, ed anche un picchiar di martelli e di badili, che
indicavano una strana assiduità di lavoro.
Messere Antonio del Carretto, che con sessanta animosi ed esperti
soldati difendeva il castello, venuto nel cuor della notte, com'era
debito di buon capitano, a fare la sua passeggiata lunghesso le mura,
non dubitò di attribuire quello strepito di carri allo avanzarsi delle
macchine da fuoco, che il giorno vegnente avrebbero preso a fulminare
la ròcca. Quanto ai badili e ai martelli, pensò che continuassero il
lavoro del giorno addietro, e non vi badò più che tanto.
--A domani, dunque!--diss'egli.--L'assalto è imminente.--
E in questa credenza, mandò un soldato ad avvisare il cugino Galeotto,
che i Genovesi portavano innanzi le artiglierie.
Venne finalmente l'alba, quantunque grigia, piagnolosa e svogliata. Ma
i suoi incerti barlumi non rischiararono nessun apparecchio di
macchine, e in quella vece si vide un nuovo steccato a San Fruttuoso,
come la mattina antecedente lo si era veduto a Vigna Donna. E l'uno
appariva collegato all'altro, come ambedue alla bastita di
Castiglione.
Capirono allora i difensori del castello che cosa significasse la
legnaia del giorno addietro, e stupefatti domandarono a sè stessi se i
Genovesi intendevano di andar oltre a quel modo, sotto i loro occhi,
fino alla vista della Marina.
La cosa non era del tutto improbabile. I Genovesi andavano meritamente
famosi in tutta la Cristianità, ed anco in Turcheria, per la loro
eccellenza nelle opere di legname usate alla espugnazione della città.
Quest'arte l'avevano ereditata da Guglielmo Embriaco, di cui ho
raccontato altrove le mirabili imprese.
Per altro, dal valoroso Capodimaglio avevano anche ereditato il
costume di menare arditamente le mani, e non era da credere che
volessero lavorar di accette e martelli più del bisogno. Certo, se
avevano fatte tre bastite in cambio d'una, egli c'era il suo bravo
perchè.
Ed erano riusciti una meraviglia, quei tre battifolli, quantunque
edificati all'infretta. Per una lunga diagonale, dal poggio di
Castiglione insino a San Fruttuoso, dove la spiaggia del mare
incomincia a restringersi sotto l'eminenza di Castelfranco, si
stendeva non interrotto un ciglione, protetto da fosso e steccato. Il
marchese Galeotto, che era accorso di buon mattino al castello, non
potè rattenersi dallo ammirare l'operosità e l'avvedutezza militare
del suo avversario.
Per contro, il non vedere le artiglierie sugli approcci, diè
grandemente da pensare al marchese. Il nemico se ne stava cheto nel
campo; solo erano usciti pochi drappelli di balestrieri, correndo un
tratto del lido, sulla fronte delle opere avanzate, e scambiando, come
il giorno addietro, qualche colpo co' suoi. Badaluccavano; e frattanto
messer Pietro proseguiva qualche suo alto disegno, che a lui non venia
fatto d'intendere. Forse non ne aveva alcuno; ma in guerra, e pel
nemico che deve indagare ogni cosa e fondarsi su tutti i possibili e
su tutti i probabili, averne e non averne è tutt'uno; sconcerta sempre
e fa rimanere sospesi.
Ora, l'incertezza non garbava punto al marchese Galeotto; il quale
volle averne l'intiero, andando sul nemico da due parti, di fronte e
di fianco, dalla Marina e dalla valle di Pia. Il Fregoso poteva non
aver altro in mente che di espugnare Castelfranco, chiave del
marchesato dalla parte del mare, e forse traccheggiava, vuoi per
compiere le sue opere di difesa, vuoi per aspettar gente, o
artiglierie che gli mancassero ancora. In questo caso, un assalto dei
nemici doveva tornargli molesto; ragion questa per testarlo di colta.
O meditava, tenendo a bada i nemici sulla Marina, di andarli a pigliar
dalle spalle sui monti, e l'assalto improvviso anche da quella banda
riusciva a guastargli il disegno. Pareggiate in una data misura le
forze, chi assalta ha sempre bel giuoco.
A pareggiare le forze, ed anche un pochino le sorti, che sogliono
quanto quelle aver peso nella bilancia, non parve a Galeotto esserci
partito migliore che quello di una incamiciata. Nel fitto delle
tenebre la pochezza del numero non faceva danno, anzi tornava a
vantaggio, purchè i meno avessero cuore; inoltre, nello scompiglio
d'un assalto non aspettato, una linea così lunga di accampamento si
difendeva men bene che a giorno chiaro, contro un numero tre volte
maggiore.
Così pensando, sceglie cinquecento de' suoi più animosi e provati; li
fa calare a tarda sera dal monte che corre alle spalle di Castelfranco
e si rovescia con essi sullo steccato di Vigna Donna. Dalla marina
altri ne escono in numero di forse trecento, e li comanda Barnaba
Adorno, che non ha voluto abbandonare il suo ospite, poichè il giorno
delle tristi prove è giunto ancora per lui. Questi e gli altri hanno
indossato una camicia sul giaco, per riconoscersi nella mischia a
vicenda.
Tutto andò francamente come avea disegnato il marchese. Prima a dar
dentro furono gli uomini di Barnaba Adorno, dalla parte di San
Fruttuoso. Giunsero senza intoppo sino all'orlo del fosso, lo
colmarono con fascine, tempestarono di colpi la stecconata, e fecero
impeto nel battifolle. Ma lì, a poca distanza dalle prime difese,
l'ingegno acuto di messer Pietro avea seminato i tranelli, facendo
scavare carbonaie e bocche di lupo, nelle quali cascarono molti
assalitori a rinfusa. Lo scompiglio fu grande e poco il danno degli
assedianti, che tosto si fecero addosso ai malcapitati ed appiccarono
la zuffa.
Messer Pietro, dati i comandi più urgenti a spronare il coraggio de'
suoi, e lasciato in quel luogo il cugino Nicola, si partì dallo
steccato di San Fruttuoso per correre indietro, a Vigna Donna. Il suo
disegno non era stato indovinato dal marchese, appunto perchè era il
più semplice. Pietro aspettava quell'assalto notturno, e volea trarne
profitto, per mostrare ai nemici la saldezza delle opere sue. Ora
l'assalto dato a San Fruttuoso, sulla fronte ristretta e quasi
cuspidata del campo genovese, non gli pareva che una finta, laddove il
gran colpo doveva esser ferito sul fianco, alla bastita di Vigna
Donna.
Nè s'ingannava. Sorprese e rovesciate la scolte, si scagliava appunto
allora il marchese sullo steccato. Rami, sarmenti, pietre, e quanto
poteano avere alle mani, tutto gittavano i suoi fanti animosi nel
fosso, per far la colmata. Incitandoli coll'esempio, fu egli il primo
a scrollare con braccio poderoso i pali, a romperne la traversa a
replicati colpi di scure, balzar dentro del varco, faticosamente
aperto nel palancato, e, menata a tondo l'arme villana, incignare
gagliardamente l'attacco.
Ma se per avventura fu terribile il colpo, non riuscì la difesa men
fiera. Al grido delle scolte, allo strepito dei nemici accorrenti, si
erano levati in armi i soldati genovesi e colle partigiane spianate
venivano incontro a quelle bianche fantasime, piombate allora nel
campo. Dàlli, dàlli! San Giorgio e Fregoso! Ammazza, ammazza! San
Giorgio e Carretto! E la mischia s'impegnò d'ambe la parti accanita.
Messer Pietro, uomo di partiti se altri fu mai, per mettere lo
scompiglio in mezzo ai nemici e far vedere in pari tempo alla sua
gente come pochi fossero costoro e in poco spazio ristretti, comandò
di portare innanzi fascine incatramate, appiccarvi il fuoco e gittarle
a tutta forza di là dalla chiusa. I molti che ancora non avevano
potuto penetrarvi e che facean ressa al palancato, sopraffatti da
quella pioggia di fuoco, dovettero dare indietro solleciti e
sparpagliarsi pei campi; intanto una torbida luce rischiarò gli
assalitori alle spalle e mostrò ai genovesi quanto poco di terreno
avessero, con tutto il loro impeto, guadagnato i nemici. Frattanto il
Picchiasodo, che non avea niente a fare del suo mestiere, e sempre si
doleva di stare colle mani alla cintola, imbattutosi in una catasta di
pali aguzzi che erano avanzati agli artefici, prese, colla fretta di
un uomo che lavorasse a cottimo, a sfrombolarne gli assalitori.
Volavano i tronchi l'un dopo l'altro, rombavano in aria, cadeano nel
fitto dei combattenti, ammaccavano le cervelliere, rimbalzavano sulle
braccia, chi coglievano di punta e chi di schiancio, facendo ognun
d'essi il lavoro di quattro soldati. Anche il marchese Galeotto ebbe a
saggiarne la forza, che uno di quegl'insoliti verrettoni gli portò via
netta la scure dal pugno. Anselmo Campora seguitava a picchiare (e
come sodo!) mostrando coi fatti di non averlo scroccato, il suo
soprannome di guerra. E intanto, dàlli, dàlli, ammazza, ammazza, le
grida cozzavano come i ferri; San Giorgio e Fregoso, San Giorgio e
Carretto s'incontravano in aria, accompagnati salivano al cielo.
Il povero santo delle battaglie sicuramente udì quelle invocazioni
notturne, dal luogo de' suoi celesti riposi; ma io porto opinione che
egli, per non sapere a cui porgere orecchio, tagliasse corto, dicendo
che la notte è fatta per dormire, e si voltasse dall'altro lato,
lasciando a' suoi divoti la cura di levarsi d'impaccio da sè.
Grande fu l'uccisione da ambe le parti. Ma gli uomini di Galeotto non
potevano, con tutta la loro maravigliosa prodezza, fare un passo più
oltre, serrati com'erano e oppressi da una moltitudine di nemici.
Oltre di che, dalla parte di San Fruttuoso era cessato il frastuono
delle voci e dell'armi; segno che Barnaba non avea potuto sfondare la
cerchia dei Genovesi e aprirsi l'adito fino ai compagni d'attacco.
Allora Galeotto comandò la ritirata, e, perchè non avesse a mutarsi in
dirotta, con un pugno de' suoi migliori la protesse egli medesimo fin
oltre il fosso; indi, col favor delle tenebre, nè volendo messer
Pietro arrisicare i soldati in una caccia notturna, potè ricondursi in
salvo a Calvisio. I Genovesi profittarono delle ore che ancora
avanzavano al romper dell'alba, per isgomberare il fosso e rifar lo
steccato.
Passarono quattro o sei dì senza cose notevoli. Messer Pietro faceva
le mostre di dormire. Sapeva prodi i Finarini e, da buon capitano,
mirava a stancarli, a condurli allo stremo, senza spreco de' suoi. Il
Picchiasodo solea dire che messer Pietro faceva come la gatta di
Masino, che chiudeva gli occhi per non veder passare i sorci; e
frattanto si struggeva di quella inerzia apparente.
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