Castel Gavone: Storia del secolo XV - 12

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alla Marina, donde si vedevano ormeggiate a poca distanza dal lido le
galere nemiche, e sotto a Castelfranco, dove la rocca incominciò a
piover sassi e il battifolle di san Fruttuoso a vomitar fuoco sulle
prime schiere dei finarini. Il nemico era andato a far testa colà,
come sul principio dalla guerra; Galeotto non volle saperne altro e
tirò indietro la sua gente, pensando che messer Pietro Fregoso non
tenesse fermo laggiù che per coprire la sua ritirata. I ricordi greci
occupavano quel giorno la mente di Galeotto, che si sovvenne allora di
Temistocle e dei suo detto memorabile: a nemico che fugge, ponte
d'oro.
Checchè ne fosse del partito preso dai genovesi, il fatto era che i
capi dell'esercito stavano appunto allora a consiglio presso il
capitano generale messer Pietro Fregoso, nella chiesa di Nostra Donna
in Val Pia, per avvisare il da farsi. E pare che la deliberazione
fosse appunto di lasciare l'impresa, poichè nella notte seguente le
artiglierie erano chetamente levate dai battifolli di San Fruttuoso e
di Vignadonna, e una grande fiammata annunziò ai finarini che quelle
bastite di Val Pia, e l'altra più forte e più vasta del poggio di
Castiglione, erano condannate a perire, essendo l'esercito genovese
già in salvo sulla via delle Magne.
Il marchese Galeotto si applaudì di aver seguitato il consiglio di
Temistocle e dimenticò i suoi primi sospetti intorno al cavallo di
Troia. Sì certamente, quella era la riprova del fatto; i suoi nemici
giurati, sebbene a malincuore (e questo egli se lo immaginava e lo
intendeva benissimo), aveano pur dovuto ritirarsi dal campo, stupiti
dalla tenacità del suo animo e della validità delle suo difese. E non
ragionava poi male; senonchè, mostrava di conoscer poco messer Pietro
Fregoso, uomo, come suol dirsi, tutto d'un pezzo, il quale avrebbe più
facilmente perduto un braccio, una gamba, od altra parte della
persona, che deposto un disegno della sua testa.
Invero, entro le mura del Finaro e proprio nella corte dei signori del
Carretto, c'era taluno che intorno ai consigli di messer Pietro poteva
saperla più lunga che non il marchese Galeotto. Ma quest'uno ci aveva
le sue brave ragioni per non dirne nulla al marchese e non turbare
l'allegrezza recata nel castel Gavone da un primo giorno di sole.
Quel lieto giorno il marchese Galeotto lo celebrò da par suo, col
matrimonio di madonna Nicolosina, Le nozze, durando l'assedio,
avrebbero dovuto farsi, malgrado l'animoso proposito della giovinetta,
nella piccola chiesa di san Giorgio, che era nel recinto di castel
Gavone, e per fermo sarebbero riuscite dimesse e malinconiche oltre
ogni dire, senz'altra musica che quella eterna e fastidiosa di Anselmo
Campora. Furono fatte in quella vece allegre e sontuose nella chiesa
di san Biagio, non più esposta ai colpi delle artiglierie genovesi,
dinanzi a tutta la corte ed al popolo, per doppia cagione festante.
Giacomo Pico era tranquillo e sereno all'aspetto; tanto sereno (senza
ilarità, s'intende, che sarebbe parsa soverchia, epperò simulata) che
madonna Nicolosina, dimenticato volentieri il doloroso colloquio avuto
con lui nella torre dell'Alfiere, gli si dimostrò cortese ed umana
come per lo passato. Egli per altro, se non isfuggiva, neanco cercava
le occasioni di vedersi trattare a quel modo da lei. Anche il conte di
Osasco, siccome interviene a tutti i felici, che non vedono mai più in
là d'una spanna, era entrato in grande amore per Giacomo Pico e lo
avea tolto a confidente delle sue allegrezze. Carlo d'Osasco era
giovine e doveva ancor molto imparare a sue spese. A testimonianza del
suo candore basti dir questo soltanto, che egli con quel nuovo amico
s'era aperto della sua più grande ventura, cioè del primo incontro
avuto con madonna Nicolosina, a mala pena arrivato al castello. Donde
il Bardineto avea tolto argomento ai dolorosi raffronti che tutti
indovinano, crogiolandosi sempre più nella sua rabbia nascosta e
fortificandosi ne' suoi disegni di vendetta.
In apparenza adunque Giacomo Pico si era meritata la stima di tutti.
Della fede che si riponeva in lui come soldato, neppur sarebbe
mestieri discorrere. Valoroso sempre, si era nelle ultime fazioni
dimostrato valorosissimo tra tutti i più famosi campioni del Finaro, e
Galeotto avea detto un giorno alla presenza di tutta la sua corte che,
se avesse avuto intorno a sè dodici uomini della prodezza di Giacomo
Pico, non avrebbe dubitato di ragguagliare sè stesso a Carlomagno,
tanto il buon esempio di dodici paladini avrebbe innalzato lui a
sostenere quel gran paragone. I cavalieri francesi erano a dirittura
innamorati di _Messire Picot de Bardinette_. In parecchi scontri aveva
cavalcato con esso loro, e, per la nobil presenza in arcioni, come per
la sua furia nel dar dentro ai nemici, s'era lasciati indietro i
migliori. Da essi poi aveva imparato a non dar quartiere, e ammazzava
i caduti, che gli era un gusto a vederlo. Gianni Fontaine, detto
l'Abate, un giorno che Giacomo si era tratto ad onor suo da un
manipolo di genovesi che gli si erano serrati ai fianchi e
minacciavano di farlo a pezzi, lo battezzò (se il verbo è consentito
in questa occasione) col nome di _Picot le Diable_. Donde gli altri
cavalieri cavarono per conseguenza esser verissimo il proverbio che
Dio li fa e poi li accompagna, _veu qu'un Abbé estoit au mieulx
avecque un Diable_.
Il Cascherano, colla sua modesta prodezza, non raccomandata agli
esaltamenti di amici chiassoni, che nel collega magnificavano in fin
de' conti sè stessi, il Cascherano, dico, era facilmente eclissato da
questa gloria del Bardineto. Non si tornava da un affrontamento al
castello, che non si levasse a cielo il valore, o qualche impresa
singolare di Giacomo Pico. E lui umile, schivo, anzi scontroso
senz'altro, a tirarsi in disparte, e, quanto più spesso poteva, a
nascondersi. Modestia, forse? I lettori conoscono il Bardineto per un
ambizioso di tre cotte, che volentieri rammentava le sue prodezze e i
suoi alti servigi alla gente. Eglino han dunque da credere che in
questa ritrosia del Bardineto ci entrasse un avanzo d'amarezza, o un
bieco disegno formato in mente pur dianzi, o tutt'e due le cose in un
punto.
De' suoi amori colla Gilda nessuno avea fumo. La poveretta sfioriva ad
occhi veggenti, e madonna Nicolosina argomentava che ne fosse cagione
la sua fiamma nascosta o sventurata per Giacomo; ma perchè non sapeva
come aiutarla in cotesto, o neanco poteva entrargliene a fine di
conforto amorevole, perchè da un pezzo l'ancella stava un po' grossa
con lei quanto il grado e l'ufficio suo consentivano, la bella e
pietosa Nicolosina non si era animata a dir nulla.
Il fatto si era che la Gilda, non pure serbava rancore contro la sua
signora per aver dato un giorno negli occhi al suo Giacomo, ma sentiva
altresì vergogna e rimorso della propria caduta e non si vedeva
abbastanza amata da lui, che voleva tener coperto di un velo sì fitto
ciò ch'ella avrebbe volentieri mostrato alla luce del sole. Il che,
per altro, va inteso con discrezione; imperocchè, se a lei, la più
parte del giorno, quando non era vicina al suo Giacomo, pareva di non
essere amata in quella guisa che pure avrebbe voluto e che sentiva di
meritare, in altr'ora i segreti colloqui, i giuramenti e gli ardori di
Giacomo, aveano potere di ridarle la speranza e la vita. Questa è
debolezza insieme e virtù della donna, tanto migliore e più scusabile
di noi, capricciosi e violenti rapitori della sua pace, quando non
siamo a dirittura brutali. E il Bardineto soleva riconfortare la
vittima, dicendo, che, a mala pena finita la guerra e pagato il suo
debito di vassallo al marchese, avrebbe chiesto commiato da esso lui e
la donna amata lo avrebbe seguito in altra terra, probabilmente in
Francia, ove di certo si sarebbe mutata la sua sorte. Il Sanseverino e
gli altri cavalieri francesi, lo avevano anzi stimolato a quel
viaggio, facendogli sicuro il favore e una lauta provvigione del re.
Le nozze di madonna Nicolosina furono splendide per isfoggio della
corte e per lieto concorso di popolo. Quanti fiori e fronde aveano
cansato negli orti e nei campi il cieco furore dell'esercito nemico,
tanti furono spiccati quel dì per mettere le fiorite in tutte le vie
donde aveva a passare la bellissima coppia. Veramente fu un giorno di
sole, pari a quelli che rinnovano l'aspetto della natura, dopo
parecchi altri di pioggia.
Ma i giorni si seguono e pur troppo non si rassomigliano l'un l'altro.
Il marchese Galeotto a cui le allegrezze domestiche non facevano uscir
di mente le cure più gravi de' suoi minacciati dominii, aveva mandato
esploratori in gran numero e per diversi sentieri, che codiassero il
nemico e gli dessero lume delle sue intenzioni, se veramente erano di
desistenza, com'egli credeva. Ora, il giorno dopo la festa, alcuni di
quei messaggieri gli aveano rapportato che l'esercito genovese,
scambio di proseguir cammino su Noli e Spotorno, per rifarsi al campo
di Vado o sciogliersi colà dove si era formato, piegava su in alto per
Magnone e per Vezzi, castello murato sulle falde dell'Appennino, e
signoreggiato da un Ansaldo Cicala, cavalier genovese; donde,
inoltrandosi per quegli alpestri sentieri, s'era sparso fino al monte
Porrino, di rincontro alla villata di Rialto.
Cotesto fu un sopraccapo non lieve per Galeotto; tanto più che i
nemici accennavano, col taglio e la riquadratura degli alberi, a voler
fare una bastita e metter campo lassù, certo per comandare i passi
dell'Appennino. E in questo giudizio lo confermarono i ragguagli del
giorno dopo, secondo i quali una parte dell'esercito nemico scendeva
speditamente su Gorra e Gottafrigia, proprio alla vista del castello
Gavone.
Qui prego il lettore a ricordarsi della ipsilonne, accennata nel primo
capitolo di questa povera storia. Ci siamo? La Marina del Finaro e il
breve corso del Pora sono il piede e la gamba di quella inutilissima
tra le lettere dell'alfabeto. Il Calice e l'Aquila, affluenti e
genitori del Pora, sono le due braccia che si prolungano in strette
convalli verso le falde appennine, chiudendo nella inforcatura il
Borgo, la vetta soprastante di castel Gavone e la roccia di Pertica,
che lo comanda, ma a che è inaccessibile dalla parte di tramontana.
Lungo la valle del Calice, che è il braccio occidentale, s'inerpica la
strada che mette in Piemonte, contornando il dorso del Settepani alla
torre di Melogno. Lungo la valle dell'Aquila, che è il braccio
orientale, risale un'altra via che mette in Monferrato, tagliando
l'Appennino sotto il monte di San Giacomo. Il castello di Vezzi è a
levante di questa via.
E adesso il lettore benevolo intenderà, spero, come l'esercito
genovese, lasciando il castello di Vezzi e varcando l'Aquila alle sue
scaturigini, potesse andar su Rialto, paesello di montagna presso alle
sorgenti del Calice, e lasciando la sponda orientale di questo, colle
villate di Carbuta e di Calice, che sono alle spalle di Pertica,
scendesse per le Vene e San Pantaleo a cercare la strada battuta, che
mette a Gorra o Gottafrigia, proprio alla vista di Pertica e del
castello Gavone. Al nome di Dio, ci siamo finalmente arrivati!
Detto il come, diciamo anche il perchè. Messer Pietro Fregoso aveva
potuto scorgere, durante l'assedio del Borgo dalla parte del mare, che
il marchese Galeotto, sebbene abbandonato dal grosso del suo
parentado, riceveva pur sempre dalla parte dei monti aiuto d'uomini e
di vettovaglie. Per tal modo, in fortissimo luogo com'era e combattuto
cogli scarsi ingegni di quel tempo, il suo nemico poteva durarla, non
che per mesi, per anni. Diffatti, anche distrutto il Borgo dalle
artiglierie genovesi, a Galeotto rimaneva il castello su in alto,
donde avrebbe tuttavia comandato i passi, per cui gli veniano gli
aiuti. Di là, dunque, di là bisognava andare ad offenderlo.
Cotesto gli era detto eziandio da una lettera cieca che un prigioniero
restituito aveva trovato nella tasca del suo farsetto, con tanto di
soprascritta al capitan generale. «A che vi ostinate di fronte?
Pigliate il vostro nemico alle spalle. La pianura davanti al Borgo dà
libero campo alla cavalleria, ed ogni avvisaglia, essendo voi così
sotto alle mura, mette a repentaglio le vostre bombarde, come di
recente è avvenuto. Inoltre, badate. Il duca d'Orleans ha comandato al
balìvo di Trasnay, suo governatore in Asti, di venire in aiuto al
Finaro. Il vostro Tommaso di Bagnasco a stento lo rattiene in Ceva,
mentre Spinetta del Carretto fa fuoco e fiamme perchè s'accosti a
Garessio, dove al marchese Galeotto riesca più agevole tirarlo a' suoi
fini.»
Piaceva il consiglio a messer Pietro, chè anzi da parecchio tempo lo
venia vagheggiando tra sè. Ma prezioso sopra tutto gli parve l'avviso
dell'ignoto corrispondente.
Avrebbe voluto andar subito a vedere co' suoi occhi il terreno. Ma
anche il campo richiedeva la sua vigilanza; però gli convenne studiare
il modo di spartire gli uffizi. E poichè Anselmo Campora era, come
suol dirsi, il suo occhio destro, mandò lui a specolare lassù, se
c'era verso di condurvi l'esercito.
Da questa savia risoluzione di messer Pietro ne avvenne che, mentre
sotto le mura del Borgo si continuava a badaluccare, i contrafforti
tutti dell'Appennino, sui confini settentrionali del marchesato, erano
diligentemente osservati da quel furbo compare del Picchiasodo, la cui
avvedutezza e le naturali inclinazioni corografiche sono oramai note
ai lettori. E a mala pena fu di ritorno costui, messer Pietro ordinò
la partenza.
Il colpo ebbe quell'esito che s'è detto più sopra e gli assediati non
ne sospettarono punto. Mercè quel trapasso, il Finaro veniva ad esser
più chiuso che dapprima non fosse. Il mare, si sa, apparteneva ai
genovesi per ragion di possesso. Teneano per Genova, il Borghetto, a
ponente, e Noli, la fortissima Noli, a levante. Restavano gli sbocchi
dell'Appennino, e questi oramai, col suo stratagemma di ritirata,
occupava l'esercito.
Tardi si avvide Galeotto dell'inganno, ma non volle altrimenti si
dicesse avergli ciò fatto perdere il tempo, e fresco ancora di quelle
sue domestiche allegrezze guidò il fiore de' suoi a sloggiare il
nemico da Gorra. E cotesto gli venne fatto di colta, poichè i genovesi
non erano ancora in numero bastante lassù, nè avevano avuto modo di
rafforzarvisi, con una delle solite bastite. È per altro da dirsi che
non patissero troppo di quella perdita, poichè dagli abbandonati
gioghi di Gorra e di Gottafrigia dilagavano facilmente a Giustenice,
luogo assai più occidentale di Gorra, da essi posseduto ab antico e
recentemente da essi accennato come appiglio di guerra nelle loro
ambascierie al Finaro.
Accorse a difendere la rocca di Giustenice l'animoso Giovanni,
fratello di Galeotto, con centocinquanta finarini. Erano seco lui,
Giacomo, figliuol di Oddonino, e l'Antonio, che abbiamo già veduto
rendere Castelfranco. I lettori superstiziosi avranno per malaugurio a
Giustenice la presenza di questo cavaliere sventurato. Difatti, poco
resse il luogo agli assalti, e dopo tre giorni di combattimenti
continui, in uno de' quali morì d'un colpo di balestra Beltramino da
Riva, condottiero di lancie nell'esercito dei genovesi, questi
penetrarono nella terra, e per una via coperta, che la repubblica
aveva fatta ne' primi tempi del suo dominio colà, si avvicinarono
tanto al castello, da atterrarne impunemente il primo muro di cinta.
Ne trovarono per altro un secondo, di più recente costruzione, più
saldo e più acconcio a difendere; laonde messer Pietro, per non aversi
a trattenere di soverchio davanti a quella bicocca, comandò di far
inoltrare un paio di bombarde.
E qui si fece onore, come potete immaginarvi, il nostro Picchiasodo.
Uno solo de' suoi colpi, mandando in rovina un pezzo di volta, uccise
nel castello quattordici uomini e parecchi altri ne ferì sconciamente.

Intanto messer Pietro, avuta sotto le mani la maggior parte
dell'esercito, ritornava su Gorra e, respinto il suo avversario, vi si
piantava più saldo che mai. Dolse del fatto a quei di Giustenice che
fino allora aveano sperato soccorsi, e che da due giorni, difettando
di pane, dovevano cibarsi di crusca. La quale eziandio venendo a
mancare, si arresero il 12 di aprile, e tosto, sotto buona scorta,
furono condotti alla Pietra e imbarcati per alla volta di Savona.
Pochi giorni di poi, una galera li portò fino a Genova, ove il doge
Giano Fregoso li voleva prigionieri per quindici giorni almeno; così
annullando i patti della resa, secondo i quali la valorosa schiera
avrebbe dovuto esser posta in libertà, con che promettesse di non
impugnare più oltre le armi contro Genova, per quanto tempo durasse la
guerra.
Colà, veduto il doge e uditone amare parole, a cui fieramente rispose,
Giovanni Del Carretto fu chiuso cogli altri nelle carceri Grimaldine;
donde passò con Giacomo suo cugino a meno squallida prigionia nel
castello di Lerici. Lo sventurato Antonio e il resto dei difensori di
Giustenice rimasero prigioni in Genova; e per gli uni e per gli altri
non furono quindici dì, ma dieciotto mesi di carcere. Non bella cosa
da parte di Giano; ma i tempi erano tali da consentirne di
simiglianti, e di peggiori per giunta.


CAPITOLO XI.
Dove è detto del Maso, ragazzo, come cangiasse stato e quante volte
padrone.

Domando una grazia ai lettori; ed è quella di ricordarsi d'un
personaggio umilissimo, apparso nei primi capitoli di questo racconto,
del Maso, a farla breve, del ragazzo che servì i due forastieri
all'osteria dell'Altino.
Ragazzo, servo adoperato a vili esercizii, come a dire stalliere,
guattero, o giù di lì; questo avea fatto di lui mastro Bernardo,
l'ostiere, dopo averlo raccattato per via, alla guisa dei trovatelli,
e tirato su a scapellotti; ma le sorti della patria, condotte allo
stremo, ne avean fatto un soldato. A malincorpo, se vogliamo;
imperocchè, qual è il negozio di qualche importanza che non si cominci
a farlo così? Ve n'ha che piacciono maledettamente, e cionondimeno
l'incignarli è stato un guaio de' grossi; testimone il gusto matto che
io provo adesso a ragionare coi popoli, dopo averci fatto il viso;
che, a dir vero, non fu la fatica d'un giorno.
Per altro, in quella guisa che mettendosi a tavola suol venir
l'appetito, la necessità aveva portato la consuetudine, e la
consuetudine un certo gusto alla vita soldatesca, in quel miscuglio di
balordaggine e di malizia che era il ragazzo dell'Altino. Già, egli
bisogna dire a sua scusa, che balordo lo avea reso il padrone, non gli
lasciando mai pace e rimeritando alla cieca con pan buffetto e cacio
scapezzone ogni bella e brutta cosa ch'egli dicesse, o facesse. Triste
vita pel Maso, sentirsi a trillare nel capo la sua vivace natura, e
doverla respingere nel più profondo del cuore! Aveva voglia di saltare
per la casa e doveva star cheto per la paura di qualche soprammano;
era mogio e doveva saltare in fretta, per cansarsi da un sottonsù che
gli era scoccato senza preamboli. Se ne ricattava con certi suoi
lazzi, smorfie e marachelle degne d'una bertuccia, di cui spesso
recitava il paternostro in qualche angolo della casa, quando avveniva
che i saluti del burbero padrone fossero giunti al loro ricapito.
Mastro Bernardo non era cattivo, bensì un tal poco fantastico. La
povertà inasprisce il carattere, e all'ostiere dell'Altino il non
poter sempre ragguagliare l'entrata con l'uscita facea spesso uscire
il cervello dai gangheri. Del resto era un buon diavolo, amava il suo
paese, la sua casa, la sua famiglia, e, quantunque a modo suo, anche
il ragazzo, bocca inutile, com'egli soleva chiamarlo. Quando vennero i
tristi giorni pel Finaro, fu egli che diede al Maso l'esempio delle
opere forti. Veduto lo spianto della sua casa e la impossibilità di
ripigliare il suo traffico di vin cristiano, era andato a mettersi
nelle mani della sua cara nipote; per intercessione di lei aveva
appoggiato la sua famigliuola al castello, e, indossato un vecchio
panzerone di ferro che si ricordava de' suoi vent'anni, aveva detto
tra sè: «crepi l'avarizia, quest'oggi il marchese avrà un soldato di
più».
Gli era venuto sulle prime il ghiribizzo di attaccare il Maso alla sua
guerresca persona; ma ricordò saviamente di essere tavolaccino e non
capolancia, e, data licenza al ragazzo, gli disse: va, accònciati con
qualche pezzo grosso e sii soldato fedele! Voleva anche dargli lo
scapellotto d'uso; ma questa maniera d'essere armato cavaliere non
facea comodo al Maso, che fu pronto a sbiettare.
Ed era andato, come gli raccomandava il padrone; e al tempo in cui lo
ritroviamo, era paggio, cioè a dire governava il cavallo di messer
Antonello da Montefalco, capitano dei finarini dopo la partenza di
Francesco del Carretto, il quale, come sanno i lettori, aveva imitato
il corvo dell'Arca.
A' servigi di quel provato uomo di guerra, il nostro Masuccio, se
ancora non aveva fatto prodezze, certo ne avea vedute e di molte. Esse
per altro non aveano tolto che i genovesi piantassero bastite per ogni
dove, a Gottafrigia, al poggio della Croce, che è presso Gorra, sul
dorso di Pian Marino, sulle alture di Melogno, a Orco, a Collamonica
presso Feglino, nel luogo di Corsi dirimpetto a Carbuta, facendo per
tal guisa alla terra assediata una corona di torri. In questo
frattempo il Maso aveva combattuto due volte a Rialto e aiutato alla
presa di Santino da Riva e di sessanta cavalieri, che sotto il suo
comando s'erano avventurati fin là.
Più tardi, essendo stretto da vicino il Borgo, avea combattuto a
Pertica e risicato di andar prigioniero, insieme col suo capolancia,
con Geronimo Doria, Spinetta del Carretto e il cavaliere Scalabrino.
Il colpo era fatto da una imboscata di pochi genovesi, e per fermo
riusciva, se le donne del Finaro, correndo a furia sul luogo e tolte
in iscambio d'un drappello a rinforzo, non avessero tratto i mal
capitati cavalieri dalle ugne dei nemici. Anche le donne combattevano,
od altrimenti uscivano fuori per dare una mano ai mariti. Madonna
Bannina, la vecchia marchesana, in quella che pietosamente si recava a
soccorrere i caduti, era stata colta da un verrettone sopra il
ginocchio; la qual ferita, perchè non potuta rammarginare, fu cagione
più tardi che la nobil donna morisse.
Queste prove di fortezza non erano soverchie. Il Finaro reggeva a
stento e pativa difetto d'ogni cosa. Ancora una speranza restava; ed
era che i francesi, per quel tempo signori del Piemonte, venissero da
senno in aiuto al marchese. Del balivo di Trasnay, che non si era
fatto avanti, ho già raccontato a suo luogo.
Aggiungerò che, andato a Cherasco il magnifico marchese Spinetta del
Carretto ed esposta la domanda del cugino all'illustrissimo signor
duca d'Orleans, n'ebbe licenza di pigliarsi Bonifazio Castagnola,
eccellente capitano ai servigi di Francia, il quale oziava allora in
aspetto, con gran numero di cavalli, a San Michele di Ceva.
L'aiuto era grande, e, col rinforzo di parecchie compagnie di fanti
levate da Millesimo e da altre castella del parentado, poteva riuscir
pari al bisogno, Senonchè, il punto difficile era quello di penetrare
nel marchesato, rompendo la cerchia fortificata dell'esercito
assediante. Il Castagnola sperò di venirne a capo, facendo massa su
Carcare; la qual cosa avrebbe persuaso ai nemici, che certamente
stavano alle vedette, di andargli a contendere il passo per la via di
San Giacomo, mentre egli con una marcia sforzata si sarebbe gittato a
ponente, sulla via di Melogno. E così fece, e l'impresa fino ad un
certo segno potè dirsi riuscita a bene; ma giunto alla torre di
Melogno e veduto come fosse guardato quel passo, gli venne manco
l'ardire. Che più? Inoltratosi per malagevoli sentieri a specolar
quelle vette, lo vide formicolar di nemici; la croce rossa in campo
bianco sventolava da per tutto. Che sarebbe egli andato a fare nel
Borgo, se non vinceva prima una battaglia in aperta campagna? E questa
battaglia, come poteva argomentarsi di vincerla, in mezzo a quella
selva di bastite, e in quelle gole tutte comandate da greppi, donde i
sassi eran difesa bastante contro un esercito anche due volte più
numeroso del suo?
Così lenteggiava il valentuomo, forse meditando in cuor suo di seguir
le pedate del balivo di Trasnay. Ma gli uomini di Millesimo, ligii al
marchese Galeotto, volevano fare ad ogni costo qualcosa, tentare
almeno d'introdur vettovaglie nella terra assediata. Perciò, caricate
dugento bestie da soma, si gittarono una notte alla ventura per certi
tragetti, e la fortuna arrise all'ardire. Del resto il capitano
Bonifazio aveva appoggiata la salmeria con una forte dimostrazione
delle sue schiere, la quale valse a sviare l'attenzione del nemico,
mentre il convoglio, protetto da un pugno di animosi cavalieri,
giungeva a riparo sotto le mura del Borgo.
Qualche tempo addietro, il Borgo era stato miracolosamente
vettovagliato dalla parte del mare. Onorato Lascari, conte di
Ventimiglia e di Tenda, desideroso di venire in aiuto al suocero
Galeotto, avea comperato una gran quantità di frumento in Arles, e da
Marsiglia su tre galere la condusse al Finaro. Lo sbarco era avvenuto
felicemente il 24 giugno; donde al popolo parve di dover arguire una
grazia particolare di san Giovanni Battista. I genovesi, per contro,
che ci avevano nel loro Duomo le ceneri del santo e non potevano
fargli il torto di credere che egli potesse sconoscere a quel modo gli
obblighi dell'ospitalità, attribuirono la fortuna dei loro nemici ad
un gagliardo vento di libeccio che non avea consentito alla _Grimalda_
e alla _Scarabina_ (due loro galee mandate ad impedire lo sbarco) di
svoltare in tempo il capo di Noli. Chi avesse ragione non so; lascio
la quistione in sospeso e tiro di lungo.
Seguirono per tutto l'autunno fazioni di poco rilievo; quella, tra
l'altre, di Bonifazio Castagnola, che pigliò Calizzano e fe' dire alla
gente che, non potendo il cavallo, s'era dato a picchiare la sella.
L'esercito genovese, scemato di alcune compagnie mercenarie, s'era
accresciuto di certe altre ed avea preso in condotta Gaspare di Monte
Brianzo e il famoso Pietro Torello, capitano lombardo, con cento e
cinquanta cavalli. Intanto si ciarlava di pace, ma così, fiaccamente,
senza scaldarcisi il sangue. I genovesi dovevano restituir
Castelfranco e mandar libero senza riscatto il marchese Giovanni,
cogli altri prigionieri fatti a Giustenice. Quanto al marchese
Galeotto, egli non ci aveva a rimettere un bruscolo.
Questo almeno credeva, e non era de' suoi errori il più grave;
dovendosi avere per tale la speranza in lui nata e cresciuta che
simili pratiche fossero fatte da senno. Ma egli s'era fondato sulla
morte di Giano Fregoso, avvenuta in dicembre, dopo una malattia di tre
mesi, e sulla elezione a doge del fratello di lui Ludovico,
generalmente creduto meno avverso ai Carretti. Ora di che tempra fosse
Ludovico Fregoso e che potesse Galeotto aspettarsene, sarà manifesto
tra breve.
Torno intanto al Maso, che questi discorsi m'han fatto lasciare in
compagnia di messer Antonello da Montefalco, mentre avrei dovuto già
raccontare com'egli cambiasse di bel nuovo padrone, e questa volta
senza molto suo gusto.
Ciò avvenne una mattina sullo scorcio di dicembre. Alcuni drappelli di
finarini erano usciti dalla porta di San Biagio a foraggiare nella
campagna di Pertica; dappoichè, non solamente difettavano le
vettovaglie pei combattenti, ma eziandio la paglia e lo strame per
quella moltitudine di cavalli che il marchese Galeotto aveva radunati
nel Borgo.
Messere Antonello da Montefalco guidava egli stesso quella importante
fazione. Epperò non ci mancava la persona del Maso, che si vedeva
marciare di costa al cavallo del capitano, colla sua balestra manesca
in ispalla.
Al Fregoso queste continue sortite degli assediati davano una molestia
incredibile e direi quasi superiore alla loro importanza. In fondo in
fondo, non recavano molto sollievo alla terra, che troppo aveva
serrati addosso i nemici; senonchè, per questa medesima angustia del
teatro della guerra, mettevano ogni volta a risico una parte
dell'esercito assediante, che era su tutti i punti costretto ad una
ugual vigilanza, e doveva, nella persona del suo comandante, viver
sempre in sospetto.
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