Castel Gavone: Storia del secolo XV - 18

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massa informe, come un sasso, o un batuffolo di cenci (la frase era
del Campora) precipitava da quel greppo, ruzzolava per la china
paurosa del monte.
--Animo, ragazzi!--gridò il Picchiasodo.--Ci abbiamo avuto un'ora di
svago. È tempo di tornare ai fatti nostri. E così vada bene ogni cosa
per noi, come questa c'è andata, coll'aiuto di Dio.
--_Amen_!--risposero i bombardieri, che vedevano il loro comandante di
buon umore e s'arrischiavano a far gazzarra con lui.

CAPITOLO XVII.
Che è il più breve, e che parrà anche, per virtù del commiato, il più
bello di tutti.
La mattina del 6 di febbraio 1449, i genovesi si erano impadroniti,
come ho raccontato, del castello Gavone. Il giorno 8 di maggio avevano
a discrezione le mura e gli abitanti del Borgo.
Questa vittoria, siccome i tre mesi di estrema resistenza dimostrano,
era costata sangue e fatica non lieve all'esercito. Gli assediati con
uno sforzo inaudito avevano tentato perfino di ricuperare il castello,
e in più d'uno scontro i genovesi si erano veduti a mal passo. Lo
stesso capitano generale, entrando alla riscossa ed esponendo la
persona, come del resto era suo solito in cosiffatti frangenti, toccò
la sua brava ferita. Ma finalmente, veduti mancare i soccorsi che il
marchese Galeotto cercava di raggranellare ne' suoi feudi d'oltre
Appennino, e che chiedeva, ora a Torino, ora alla corte di Francia, i
finarini si arresero, dopo quasi un anno e mezzo di lotta.
A Genova, tenendosi certa la vittoria, si era disputato nell'uffizio
di Balìa se fosse ben fatto assaccomannare e distruggere in tutto la
terra del Finaro; ma il consiglio deliberò (come dice quel candido
uomo di monsignor Giustiniani) la parte _più benigna ed umana_. «E fu
deliberato di dare a saccomanno solamente il borgo e di rovinare la
fortezza del Gavone. E perchè si era promesso, in caso della vittoria,
a Marco del Carretto e ai compagni la terza parte del Finaro, ovvero
l'equivalente, fu deliberato di satisfarlo. E, ai nove di maggio, gli
uomini del Finaro giurarono la fedeltà alla repubblica di Genova. E
poi, ai quindici d'agosto, la repubblica li fece capitoli e grazie,
come appàreno di tutte le predette cose autentiche scritture
nell'archivio del comune. Tra queste larghezze è forse da notarsi il
presente d'uno stendardo, che portava un leon d'oro in campo bianco,
con questa leggenda tra le fauci: «_Custos fidei sacrae populs
finariensis_».
Mario Filelfo, istorico di quella guerra per conto di casa Carretta,
racconta che addì 24 di maggio, essendo già tratti a Genova come
statichi cencinquanta dei più ragguardevoli cittadini, fu dato il
Borgo alle fiamme e smantellato il castello. Ed altro narra eziandio,
che non mi pare da credergli intiero; imperocchè, se di castel Gavone
può ammettersi la rovina, almeno nelle parti più atte a difesa, non
può credersi altrimenti che fosse distrutto il Borgo, ove il
bellissimo campanile di San Biagio, la chiesa di Santa Catterina col
suo convento di domenicani, la vôlta di Ramondo, e più altre fabbriche
medioevali, fanno fede ai tardi nipoti di una certa moderazione, anche
negli atti più vandalici, che erano pur troppo nel costume dei tempi.
Nè mancarono da parte di messer Pietro Fregoso gli atti umani e
cortesi. Prima ancora che avesse fine l'assedio del Borgo, madonna
Bannina e tutte le donne della sua nobil famiglia, tra le quali la
bella Nicolosina, furono mandate in libertà e accompagnate alle
Màllare, donde andarono a ricongiungersi col marchese Galeotto a
Millesimo. Dopo la resa, anche il conte di Cascherano fu libero di
andare a pigliarsi la moglie e di ricondursi seco lei al suo castello
di Osasco.
Inoltre (e questo io l'ho di buon luogo, sebbene non ne faccia motto
il Filelfo) Anselmo Campora, che si ricordava de' suoi amici, faceva
rimandare a casa sua il povero mastro Bernardo; e messer Pietro
Fregoso diede anche in regalo a lui e al Maso un bel gruzzolo di
monete; colle quali i nostri due amiconi rinnovarono i mobili,
l'insegna e la cantina, nell'osteria dell'Altino.
Insieme collo zio Bernardo e colla zia Rosa, si era ritirata
all'Altino la Gilda, non più pazza, nè scema di mente, come da
principio si temeva, ma assai giù dello spirito pei casi gravissimi
che l'avevano afflitta, e quasi esangue per una grave infermità che da
tanta commozione le era seguita. Dal tempo e dall'amor vigilante de'
suoi, aspettiamo il rimedio efficace ai mali della Gilda, della più
leggiadra ragazza del Finaro, ora che madonna Nicolosina è andata ad
abbellire di sua presenza il castello di Osasco, sfuggendo al nostro
tema e, come potete immaginare, anche alla nostra attenzione.
Il marchese Galeotto, poi ch'ebbe peregrinato qua e là in cerca di
aiuti, e risaputo con suo grave rammarico della morte di Bannina,
avvenuta a Millesimo in quel tempo che i genovesi entravano padroni
nel Borgo, si recò in Francia e vi rimase a lungo, pigliando parte, da
quel valentuomo ch'egli era, alle guerre di quel reame. Colà, in una
pugna navale sulle coste di Bretagna, un colpo di bombarda ebbe a
sconciargli un braccio per modo, che indi a non molto dovette morirne,
ma colla consolazione d'aver riveduto il fratello Giovanni, uscito
finalmente dalle prigioni di Genova.
Chi vuol saperne di più, intorno a questi due personaggi, faccia capo
ai Filelfo e si misuri col suo latino indiavolato. Leggerà eziandio
come Giovanni, aiutato dalle soldatesche dei cugini, da quelle de'
suoi aderenti e infine dai soccorsi di Francia, ripigliasse più tardi
il marchesato ai genovesi e desse opera a rifabbricare la città ed il
castello Gavone.
Egli e i suoi discendenti godettero senza disturbo (poichè Genova,
straziata dalle fazioni, aveva altro che fare) il loro marchesato
insieme co' feudi di Stellanello in val d'Andora, di Calizzano in val
di Bormida grande, di Massimino sul Tanaro, di Bormida, Pallare e
Carcare sulla Bormida d'Acqui. Senonchè (vedete, egli c'è un
senonchè!) un Alfonso II, o degenere da' suoi maggiori, o rifattosi
per cagion d'atavismo alle costumanze dei più antichi tra loro, uscì
in ogni maniera di prepotenze e di colpe. Dura infame la memoria di
lui nella terra, ed io mi dispenso dal ripetere tutto ciò che di lui
si racconta. Basti il sapere che fattosi senza licenza sua un
matrimonio nel borgo, andò furibondo a turbare la serenità d'un
convito nuziale e afferrata la sposa per le trecce, la tolse
sull'arcione e la portò via a galoppo in castello. Narrasi altresì che
usasse cavalcare a diporto verso la Marina, e di là fino a Pia, dove
entrava col cavallo nella chiesa di Santa Maria ed egli e i suoi
cortigiani, ritti sulle staffe, abbeverassero i cavalli nella pila
dell'acqua santa.
Noti so quale dei due fatti tornasse più ostico ai vassalli del
marchese. Cito a memoria cose udite da bambino, e non ho tempo a
dilungarmi in queste minutaglie della storia. Il certo si è che i
finarini perdettero la pazienza, e mentre Genova ne pigliava ansa a
tornare su Castelfranco, i maltrattati e disputati sudditi si
richiamavano contro il loro marchese e contro il doge di Genova, al
tribunale del sacro Romano Impero; che, imitando il giudice famoso
della favola esopiana, volle per sè il feudo aleramico e vi mandò
commissarii a governarlo in suo nome.
Ciò fu nell'anno 1568. Tre anni dopo vi si allogarono gli Spagnuoli,
per avere una rada sicura donde procurarsi la via più spedita al
milanese; e signoreggiarono il marchesato, spendendovi tesori, fino al
1713; nel quale anno Carlo VI lo vendè per sei milioni di lire alla
repubblica di Genova. Questa a sua volta lo tenne, quantunque
agognato, e per due anni anche carpito dai duchi di Savoia, fino al
giorno della ingloriosa sua morte.
Vedete mo' quante vicende in quattro palmi di terra! Ma altri luoghi
d'Italia ebbero peggio, e per le divisioni dei popoli, e per le gare
dei maggiorenti; donde le ambizioni dei condottieri, le male arti dei
principi e le armi straniere in casa nostra. L'esempio di ciò che
patirono gli avi, insegni la concordia e la temperanza ai nipoti.
Torno indietro fino al 1450, per dire ai lettori benevoli che questo
racconto può non aver annoiati del tutto, come le cure affettuose
d'una buona famiglia e la divozione sconfinata di un'ottimo
giovinotto, vincessero il male e confortassero lo spirito della povera
Gilda. La più leggiadra ed anco la più disgraziata donna del Finaro,
era ben degna di questo dono celeste, che è una stilla d'oblìo.
Anselmo Campora, visitatore quotidiano della famosa osteria, s'invitò
da per sè al modesto banchetto. Modesto, poi, si dica soltanto per la
qualità dei commensali, non già per quella dei cibi, e molto meno per
quella dei vini. Quel sornione di mastro Bernardo scovò ancora per la
solenne circostanza, da una certa buca fatta due anni addietro in
cantina, una mezza serqua di fiaschi di quella sua prelibata malvasia
di Candia, che faceva arrovesciar gli occhi, in segno di beatitudine,
al miglior bevitore dell'esercito genovese.
--Siete un brav'uomo, mastro Bernardo!--gridò il Picchiasodo, poi
ch'ebbe trincato alla salute di Gilda, del Maso, della zia Rosa, e, a
farla breve, di tutti gli astanti,--E vedo, stando qui di presidio,
che questo popolo è buono, come si è mostrato valoroso in tante
occasioni. Sentite ora un mio pensiero; _in vino veritas_, e se me ne
versate dell'altro, mi spiegherò ancora meglio. Grazie infinite! Io
dico dunque, che, come noi due non ci odiamo, perchè abbiamo potuto
ricambiarci qualche servizio, così non debbono odiarsi finarini e
genovesi. Che diamine? o non parliamo tutti lo stesso vernacolo?
Meditate su questo punto, mastro Bernardo, che mi par l'essenziale. E
non vi metta in pensiero qualche divario nella pronunzia, come a dire
un po' di cantilena che noi sentiamo nella vostra parlata, e un po' di
strascico che voi fiutate nella nostra. Son cose da nulla, e appunto
perchè son cose da nulla, mi stanno a riprova di quanto io v'ho detto.
Credete a me, mastro Bernardo; io non so che cosa avverrà di noi tra
qualche anno, ma son sicuro che un giorno i nostri figli
dimenticheranno queste bizze tra parenti, o non le metteranno in
tavola che per ricordare le prodezze comuni. Il Finaro è un bel paese,
ma Genova non gli sta di sotto, e ve lo provo. Voi ci avete il vino di
Calice; noi quello di Coronata; sinceri ambedue come i nostri cuori,
sfavillanti come i nostri occhi, generosi come l'indole nostra. A chi
non piace il vino, Dio gli tolga l'acqua! Chi non vede di buon occhio
l'amicizia e la fratellanza dei Liguri, abbia il canchero in casa.
Pensateci su, mastro Bernardo! Con Genova a capo, si può far la
Liguria, come è già stata una volta. E un giorno, chi sa?... Da cosa
nasce cosa, e il tempo la governa. Ho detto.--
Così il buon Picchiasodo alle frutte. Ed io ho raccolto con riverenza
queste briciole oratorie d'un capo di bombardieri, che precorreva di
mezzo secolo Nicolò Machiavelli.
FINE.


INDICE
CAP. I. Nel quale si narra di due viaggiatori che amavano
saper molto e dir poco...............................Pag. 1
» II. Dove messer Giacomo Pico impara che il torto
è degli assenti..................................... » 24
» III. Dal quale apparisce che, in materia di consolazioni,
Tommaso Sangonetto avrebbe potuto
dar de' punti a Boezio.............................. » 48
» IV. Nel quale si vede messer Pietro perdere la pazienza,
il Sangonetto la ciarla, il Picchiasodo l'occasione,
Giacomo Pico il tempo e mastro Bernardo la scrima... » 68
» V. Del messaggio di Pietro Fregoso e di ciò che
ne seguisse al castello Gavone...................... » 91
» VI. Nel quale si vede come san Giorgio, invocato da
due parti, non sapesse a cui porgere orecchio....... » 112
» VII. Come, Giacomo Pico parlasse a madonna Nicolosina
e qual risposta ne avesse........................... » 138
» VIII. Dove si vede che non arriva sempre tardi chi
arriva dopo......................................... » 159
» IX. Qui si racconta di un nibbio, che rincorrendo
una colomba s'abbattè in una tortora................ » 176
» X. Nel quale si parrà l'accortezza del narratore, per
annoiare il meno possibile i suoi benigni lettori... » 192
» XI. Dove è detto del Maso, ragazzo, come cangiasse
stato e quante volte padrone........................ » 210
» XII. Nel quale si dimostra l'ingratitudine d'un ventre
satollo............................................. » 227
» XIII. Del giro che fece un segreto prima di uscire ad
utile di qualcheduno................................ » 244
» XIV. Dove si vede che la notte non è sempre fatta
per dormire......................................... » 261
» XV. Qui si racconta delle valentie di due sozi, i quali
non erano Teseo e Piritoo........................... » 279
» XVI. Nel quale si narra come la signora Ninetta al
disonore preferisse la morte........................ » 295
» XVII. Che è il più breve, e parrà anche, per virtù del
commiato, il più bello di tutti..................... » 312



NOTA DEL TRASCRITTORE: i seguenti refusi sono stati corretti (tra
[parentesi] l'originale):
--Vattene, allora!--ripiccò spazientito il Bardineto[Bardinetto].
la ruggine non c'è, come non c'è la ciliegia[ciliega], con vostra
davanti a lui, con atto di ossequio, non disgiunto[digiunto]
Ma[Me] Barnaba nel messaggero di guerra avea ravvisato
--Che diavol fanno?--si chiedevano i difensori[difensore]
il cugino Galeotto[Galeottto], che i Genovesi portavano
Tutto andò francamente[francamento] come avea disegnato il
ecco perchè madonna Nicolosina[Nicosolina], abbassò gli occhi
prime calze che ho smesso. Che forse c'è mestieri di gratitudine[gratudine]
--Sarete un pezzo grosso,--borbottò[borbotto] il balestriere
Bardineto[Bardinetto], il braccio destro del marchese Galeotto,
Fattosi, alla bocca del pozzo, cavò di dentro alla bigoncia[bigoncio]
--Madonna!--gridò tra i singhiozzi[sighiozzi] che le facean
se non era che Giacomo Pico, meditando del continuo[contitinuo]
esser nemmeno degli ultimi sulle mura, poichè il Bardineto[Bardinetto]
le balenò[belenò] nella mente, e, vincendo il raccapriccio
e[e e] di ebbrezza? Fosse pur venuta a coglierlo in quel
per afferrare una finestra del primo piano non ne occorreva[occoreva]
dire[diro] mastro Bernardo.--Cercate pel castello il vostro
giustizia di quell'altro. Ohè, Falamonica[Filamonica], dov'è il prigioniero?
bianco il volto come un cencio[cecio] lavato, e già più
della morte di Bannina[Bennina], avvenuta a Millesimo
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