Castel Gavone: Storia del secolo XV - 11

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difensori, spignendo quanti più poteva sui merli; ma già dalle
caditoie piombavano pietre, e una d'esse, rompendo a mezzo una scala,
fece ruzzolare un drappello de' suoi, tra i quali Giacomo Pico, che
per altro non n'ebbe alcun danno, salvo le ammaccature del suo
panzerone di ferro.
L'insidia era sventata; i Nolesi accorrevano in furia alle mura e le
lor grida empievano l'aria, facendoli parere i due cotanti del numero.
Niente era da farsi più oltre, e il marchese Galeotto, sebbene contro
sua voglia e scorrucciato oltre ogni dire, comandò di lasciare
l'impresa, prima che il nemico sapesse di certo chi gli avea dato
l'assalto.
Chi si dolse più forte di questa mala riuscita fu il prode Sangonetto,
sospeso tuttavia alla scala, a cui, da quel furbo ch'egli era, avea
dato volta con uno sforzo repentino di braccia. E volle farsi sentire,
il temerario guerriero, perchè lo sapessero tutti, che c'era lui,
proprio lui, appollaiato lassù; senonchè, a mala pena s'avvide, al
traballio della scala, che una mano nemica dal sommo dei parapetto
lavorava a dargli la spinta, lasciò di vociare, gittò lo scudo per
aver più spedite le mani, e lì spenzoloni fece le bracciate di due
piuoli, in cambio di uno.
--Peccato!--diss'egli nel ritorno a Giacomo Pico, e così ad alta voce
che il marchese Galeotto lo udisse.--Una così bella occasione fallita,
e per la balordaggine di due, o tre, venuti a romper l'ova in
sull'uscio! Ero già a due braccia dai merli, quando quegli arfasatti
m'hanno dato una volta alla scala, colla lor furia di corrermi tutti
alle calcagna. Benedetta gente, per non dirne altro! O non lo sanno il
proverbio, che la gatta frettolosa fa i catellini ciechi? Facevano a
rubarsi il posto, que' scimuniti guasta mestieri; come se in questa
nobile impresa con ci fosse stato tempo e luogo per tutti!--
Così, dopo aver provveduto alla sua vita, provvedeva il Sangonetto
alla fama, dando egli stesso una soffiatina nella tromba di questa
compiacente signora.
Nessuno, per altro, diè retta al nostro Tommaso, che altri pensieri
occupavano la mente di Galeotto e di Giacomo Pico. Taciti e spediti
rifecero la strada delle Magne e sul mattino seguente rimettevano il
piede entro le mura del Finaro, dove il marchese tornò alle cure della
difesa e Giacomo Pico a' suoi disegni di vendetta.
Per intendere i quali, bisognerà risalire alla mattina del giorno
addietro e proprio al momento in cui madonna Nicolosina, fortemente
commossa di sdegno e di tristezza, usciva dalla torre dell'Alfiere.
--Va e ricorda quel che ti pare, di me;--Aveva borbottato Giacomo
Pico, seguendola infino all'uscio;--va e racconta pure ogni cosa a tuo
padre!--
E guatando quella superba che scendeva le scale così grave negli atti
e padrona di sè, mentre egli non lo era stato e si sentiva vinto,
umiliato da lei, un odio feroce contro quella donna gli era nato
d'improvviso nel cuore. Egli avrebbe voluto essere in quel punto un
Dio, o un demonio, per vincere quella ritrosa, incatenarla colà,
vederla a' suoi piedi, impadronirsi, a suo malgrado, di lei.
Imperocchè l'amore nell'anima del Bardineto non poteva riuscire quel
delicatissimo affetto, e quasi celeste, che i poeti affermano essere
certamente inspirato da una donna gentile. L'amore anzitutto è
desiderio, e non sempre la nobiltà della persona amata può affinare
nella mente dell'uomo e trarre a fior di virtù spirituale questo che è
sempre ne' suoi cominciamenti un prepotente ardore di sangue.
Così imbestialiva il Bardineto, desiderando ed odiando. L'avrebbe di
gran cuore posseduta ed uccisa; e questo è dir tutto.
Ora, mentre egli la seguiva degli occhi, gli venne udito, a due passi
discosto da lui, un suono di rammarico, quasi un singhiozzo rattenuto
a fatica. Fu dietro l'uscio in un salto, e vi trovò la Gilda
rincantucciata, la Gilda più morta che viva.
Subito intese che la meschina era là, ascosa e piangente, per lui. Del
resto madonna Nicolosina gli aveva detto pur dianzi il segreto della
sua povera ancella. Ed egli non se n'era avveduto prima; assorto nella
bellezza gloriosa della giovine castellana, non avea mai chinato lo
sguardo indagatore sul viso della Gilda; non aveva pensato mai che la
sua bellezza, per essere in umile stato, non era già da meno di quella
che a lui l'ambizione e l'amore facevano apparir così grande.
Si chinò allora verso di lei, la rialzò tra le sue braccia e la trasse
di peso nella camera, senza che ella pur si provasse a resistere.

--Uccidetemi, messer Giacomo!--gli disse invece, dando in uno scoppio
di pianto.--Ho udito ogni cosa e mi è più caro morire, che soffrir
come faccio da un'ora.--
Giacomo Pico rimase immobile un tratto a guardarla, così abbandonata
nelle sue braccia, sciolta le chiome, il volto arrovesciato,
fiammeggiante, inondato di lagrime. Era bella, così; e lo amava, e
soffriva per lui.
S'inginocchiò, per sostenerla meglio e sollevarle la testa, ma più,
ancora per divorarla degli occhi e riscaldarla del suo alito ardente,
quella donna leggiadra, che si struggeva di vergogna e di amore.
--Hai udito ogni cosa?--le disse.--Hai dunque udito che siamo i loro
servi, i loro trastulli? Questi orgogliosi e malvagi signori, li
conosci ora anche tu?--
--Oh, Giacomo! che dite voi mai!....--gridò sbigottita la poveretta.
--Dico che tali son essi, e che altri dobbiamo esser noi da quelli di
prima, per loro;--ripigliò Giacomo, infiammato di sdegno;--dico che
bisogna odiarli.... e amarci tra noi;--soggiunse sottovoce e quasi
bisbigliandole la frase all'orecchio.
Alle inattese parole e al soffio infuocato delle labbra di Giacomo, la
Gilda trasaltò e volse su lui uno sguardo smarrito.
--Amarci tra noi, sì!--ripetè il Bardineto.--Non siamo noi quanto
loro? In che sei tu men bella di lei? E in che son io da meno di uno
sposo che ella conosce a mala pena per nome? Io e tu, fanciulla, siam
nati in umile stato; è questa l'unica differenza tra essi e noi. Ma
chi furono i loro antenati? E non potrebbe nascere da noi una stirpe
più nobile della loro e più generosa a gran pezza? Abbiamo dunque, noi
pure gli stessi diritti sulle gioie dell'esistenza; dobbiamo e
vogliamo liberarci da questa infame servitù, essere, come ci sentiamo,
uguali a costoro.
--Ah, messer Giacomo,--esclamò ella sbigottita,--voi parlate come
Tommaso Sangonetto.--
--Che ti ama!--notò il Bardineto con accento sarcastico.
--Sì,--rispose ella prontamente,--ma non quanto io lo detesto.--
--Fai bene, sai!--disse Giacomo, carezzandone accortamente i pensieri,
mentre la traeva dolcemente a sè, per ravviarle i capegli sulle
tempie.--Egli non intende l'amore; è di tempra volgare; desidera, non
ama. Ed io t'amo. Sei bella,--soggiunse, notando un misto di sorpresa
e d'incredulità che le traspariva dagli occhi,--sei bella come la
vergine Maria, che frate Angelico ha raffigurata, e che i nostri
signori custodiscono tanto gelosamente nella chiesa di San Giorgio.
Come torno io ad avvedermi di ciò, io che fui tanto smemorato per
giorni e per mesi? Vedi, Gilda, mia Gilda, sono stato cieco; che dirti
di più? Si è fuori di senno talvolta, come si è presi dal vino. Certo
la tua signora mi ha posto una malìa, per condurmi in mal punto, e
spezzare il tuo povero cuore. Imperocchè, vedi, io lo sentivo, di
essere amato da te. Erano le tue bianche mani che mi davano più grato
refrigerio, quando le s'accostavano a medicarmi la ferita. Laggiù
all'Altino, te ne rammenti? sei stata la prima a giungere, la prima a
toccarmi. E desiderai di rimanere eternamente colà, quando sentii il
tuo braccio scorrere lievemente sotto il mio capo per rialzarlo,
quando sentii sulle mie guancie l'alito della tua giovinezza. E poi,
quale follìa! Come ho potuto io uscir fuori di me? Credilo, fu una
malìa. Più ti guardo, e più vedo che nessuna donna ti vince in
bellezza. Occhi meravigliosi che han pianto tanto!...... Anche i miei,
Gilda, ma non piangeranno più, o piangeranno per te. Labbra porporine,
da cui mi sarà così dolce una parola di perdono! guancie morbide, che
non respingeranno i miei baci!....--
Accesa di quelle parole, gittata di balzo in un mondo così nuovo per
lei, Gilda trovò pure la forza di svincolarsi dalle strette del
giovine.
--Ah no, messer Giacomo;--gridò ella piangente;--non è così che si
ama.
--T'inganni;--le diss'egli, ma chetandosi tosto e persuadendola con
atti riguardosi a sedere daccanto a lui, mentre stringeva una mano che
ella non ebbe cuore di negargli;--t'inganni. L'amore è un'ebbrezza,
uno spasimo; qualche volta un martirio. Non l'hai sentita tu una spina
nel cuore, quando mi udivi, forsennato, implorar mercè da quella tua
vanitosa signora?
--Non parlate così di lei,--diss'ella scorrucciata, ritraendo la
mano,--o io crederò che l'amiate ancora.
Il Bardineto si morse le labbra.
--Ha ragione,--pensò egli tra sè,--ed io non sono ancora abbastanza
esperto in cosifatte battaglie.--
Indi, rivoltosi a lei, prosegui raumiliato:
--Sentimi, Gilda; e non merita essa il mio sdegno? Non è sua la colpa
di tutto ciò che è avvenuto? Se ella non mi avesse ammaliato,
lusingato, tirato a sè con quelle arti sottili che le sue pari
conoscono, avrei potuto io mai levar gli occhi e le speranze vane sino
a lei, sino alla figlia del marchese mio signore?
--Amore uguaglia!--disse con accento di amarezza la Gilda.
--Sì, quando si ama; e io non l'amavo. Forse potevo io rivolgermi a
lei, avendo dato a un'altra donna il mio cuore? Ed eri tu quella. Ne
dubiti ancora? Ma pensaci, o Gilda; dimentica un'ora di follìa;
ritorna colla mente al passato. Perchè mi hai amato, tu, se non perchè
sentivi in me un affetto che rispondeva al tuo?
--Ah, l'ho creduto!--esclamò la fanciulla, coprendosi il volto colle
palme.
--E avevi ragione; e così fu;--soggiunse il Bardineto.--Ma cotesto non
mettea conto alla maliarda. Voleva esser sola qui, regnar sola. Un
uomo giovine e prode viveva nella corte di suo padre; la vedeva, le
parlava ogni giorno, e non si curava altrimenti di lei? E i begli
occhi di una ancella avevano avuto più potere de' suoi? Un reo
capriccio le nacque allora nell'anima, di sviare quell'uomo, di ferir
questa donna nella sua onesta alterezza. Imperocchè tutti, in
qualsivoglia stato cresciuti, possiamo averci la nostra; e la tua, o
fanciulla, è giusta, è sacra, come l'alterezza d'una figlia di re. Sei
bella; è questa la tua nobiltà. I tuoi grandi occhi neri son gemme che
tutto l'oro del mondo non basterebbe a comprare; i tuoi capegli
corvini, morbidi e lucenti, che scendono amorosi a baciarti le spalle,
valgono un manto d'imperatrice, come questo ferro che io stringo
potrebbe valere uno scettro. Amiamoci, trionfiamo uniti dell'avversa
fortuna; io son tuo per l'amore che mi distrugge; tu sei mia per le
lagrime che io t'ho fatto spargere poc'anzi. Dimmi, Gilda, non
perdonerai tu a chi ha tanto sofferto? Vorrai tu che quella donna
m'abbia fatto impunemente il peggior male e goda di averci divisi per
sempre? Serviresti alla sua gelosia, non al tuo orgoglio di donna, che
ha già nelle mie supplicazioni il suo più largo trionfo. Perchè mi
guardi con quegli occhi smarriti? Ti sono io così odioso? Non
fuggirmi, no, non fuggirmi, te ne scongiuro! credi, alla sincerità
dell'amor mio, alla grandezza dal mio rimorso, o ch'io mi uccido a'
tuoi piedi.--
Così dicendo, con meditata progressione di affetto, Giacomo Pico aveva
sguainato il pugnale che gli pendeva al fianco, e fu tanta la foga con
cui lo brandì, rivolgendone la punta al suo petto, che la fanciulla fu
per vederlo già morto.
--Ah no, Giacomo, per amor del cielo, per l'amor mio, ve ne
prego!--gridò ella atterrita.
E levate le mani, colse in aria il pugnale. Lottarono disperatamente
un tratto, egli per ritenere, ella per istrappargli quell'arma
paurosa. E per fermo, debole com'era, non ne sarebbe ella venuta in
capo, se Giacomo, veduto scorrer sangue dalla mano di lei, non avesse
tosto abbandonato l'impugnatura.
--Per l'anima mia!--gridò egli a sua volta, impallidendo, mentre
tendeva le palme, per afferrar quella mano.--Ti ho ferita?
La fanciulla diede una rapida occhiata al suo braccio, che a tutta
prima avea ritirato, per tema non volesse egli riafferrare il pugnale,
e vide grondar sangue dal cavo della mano sul polso.
--Che importa?--diss'ella, sorridendo.
E innanzi di ridargli la mano, gittò il pugnale lungi da sè.
Ella era bella così, nel suo piantoriso, come un lieto raggio di sole
attraverso le nuvole, nell'aria ancor madida degli ultimi spruzzi del
nembo. Era bella nel gaudio della sua vittoria, nel sublime conforto
di aver salva la vita di Giacomo, di aver veduto nel suo disperato
proposito una certa testimonianza d'amore e di avergliene dato
un'altra a sua volta nell'ardimento con cui ella, timida fanciulla,
rifuggente dal lucicchìo delle armi, gli aveva strappato il pugnale,
insanguinando in quella lotta le sue povere mani.
Ogni altr'uomo si sarebbe commosso e avrebbe rispettata quella celeste
innocenza. Non così Giacomo Pico, anima bieca, indole travolta dalle
sue matte ambizioni, cuore inasprito dall'odio, nè più disposto a
vedere quel che ci fosse di buono o di santo dintorno a lui, se non
per farne pascolo e stromento a' suoi tristi furori.
Prese la mano della giovinetta e osservò la ferita. Vedevasi
attraverso il sangue sparso una scalfittura pel largo della palma, e
appariva essere stata fatta dallo scorrere della lama lungo le carni
invano ristrette per trattenerla.
Prese quella mano, dico, la osservò un tratto, indi con moto
rapidissimo se la recò alle labbra, suggendo avidamente quel sangue.

La Gilda tentò di ritrarsi, ma non le venne fatto.
--L'amore è una dolce schiavitù;--le disse allora Giacomo Pico,
volgendole una languida occhiata, che la turbò nel profondo
dell'anima;--il tuo sangue, o fanciulla, ha suggellato il patto della
mia sommessione. Per questo sangue, dolce come il più dolce liquore,
io ti giuro, amor mio, una eterna obbedienza. Da questo momento sarai
tu la regina del cuor mio; così mi assista la sorte, come ho fede che
il mio ferro ti conquisterà una corona.--
Ella non rispose parola; era vinta. Reclinò la sua bruna testa sul
petto di lui, nascondendogli così il suo rossore, e facendogli palese
il suo smarrimento.
Giacomo seguitava a parlare. Quel che dicesse, neppur egli sapeva. Nè
la fanciulla, venuta in quella confusione, potea più meditare le
parole di lui. Ne coglieva il suono indistinto e in quella musica
soave le si addormentava ogni spirito di resistenza. Anima candida,
credette al candore dei giuramenti di Giacomo; nè solamente dimenticò
quell'ora terribile in cui aveva provate tutte le trafitture della
gelosia; ma il passato, il presente e il futuro si confusero in quel
profondo oblìo di sè stessa, da cui si riebbe alla fine, ma
indissolubilmente legata a quell'uomo, perduta senza rimedio, innanzi
di aver visto il pericolo.
Era già tardi, e il marchese Galeotto non doveva indugiar molto a
mettersi in cammino per alla volta di Noli. Dalla finestra della
cameretta di Giacomo si udiva il suono di molte voci nella gran sala
del castello.
Il Bardineto si strappò dalle braccia di Gilda, per discendere, come
avea disegnato, alla presenza del suo signore. Voleva andare incontro
agli eventi, sostenere lo sguardo di tutti, mostrarsi forte, seguire
il marchese all'assalto di Noli e confermare in quella impresa il suo
buon nome di animoso soldato; voleva insomma un mondo di cose, delle
quali poco o nulla seppe intendere l'inesperta donna che tutto aveva
dimenticato per lui.
La poveretta sentì in quella vece, al dolore della separazione, quanto
ella già appartenesse a quell'uomo. Rimasta sola nella torre
dell'Alfiere, pianse lungamente, s'inginocchiò, chiese a Dio perdono e
soccorso, non senza pensare con raccapriccio ai suoi signori, così
amati da prima, ed ora così molesti al ricordo.
Finalmente, poichè tutto ha un termine quaggiù, anche il dolore, ella
si riebbe dal suo abbattimento e volle esser forte.
--Non mi ama egli?--chiese a sè stessa, rialzandosi e scuotendo la
bruna testa, madida ancora dei baci di Giacomo Pico.--Non lo ha
giurato? Non ha bevuto il mio sangue? Così gli bruci il cuore, se egli
dovesse tradirmi. Ma io saprò difendere l'amor mio; lo
ucciderò,--soggiunse, raccogliendo da terra il pugnale di Giacomo e
nascondendolo in seno,--lo ucciderò con questo ferro, se penserà
ancora a colei.


CAPITOLO X.
Nel quale si parrà l'accortezza del narratore, per annoiare il meno
possibile i suoi benigni lettori.

Così nell'arte della guerra come nell'arte della scherma, botta vuole
risposta e le finte non giovano più, se non a patto di precedere il
colpo. Ora la risposta di messer Pietro Fregoso al tiro di messer
Galeotto su Noli fu per l'appunto di stringere viemaggiormente
l'assedio del Borgo. Condotto l'esercito più sotto le mura che non
avesse fatto dapprima, il capitano genovese die' fiato a tutte le
artiglierie del suo campo, e per dieciotto dì e per altrettante notti
fu un trarre indiavolato di bombarde, falconi, ed altri consimili
ordegni. Basti il dire che, in quello spazio di tempo, trecento
novanta palle di bombarda furono gittate nella terra assediata, il che
torna a una razione di forse ventidue sassi da cinquecento libbre ogni
dì, senza mettere in conto le palle minori, cioè a dire quelle dei
falconi, delle colubrine, cerbottane, ribadocchini, e via discorrendo.
Fu, come i lettori di leggieri argomentano, una grande rovina per le
case del Borgo. Per contro, non n'ebbero molto strazio le vite. Morì
una povera vecchia, còlta da uno di que' sassi in sua casa; morirono
due altre donne, sorde e mute dalla nascita, le quali stavano lavando
i loro pannilini nel torrente di Calice, alle spalle del Borgo, e non
poterono udire l'avvertimento della campana posta sulla torre di
Bichignollo. Era questa la torre più alta della città e vi stava di
continuo un guardiano, con obbligo di dare un rintocco, ogni qual
volta nel campo nemico gli venisse veduto il lampo d'una scarica. In
tal guisa si custodivano gli abitanti della terra, e ad ogni avviso
del guardiano correvano a riparo sotto il portone più vicino.
Senonchè, questa guardia era efficace di giorno, che si potevano
allora tener d'occhio le artiglierie nemiche e i loro mutamenti di
luogo; laddove di notte il povero custode non ci avea mica gli occhi
del gatto, e gli avveniva che la più parte dei colpi, per non aver
egli veduto il lampo, fosse annunciata dal rombo, cioè, quando non
c'era più tempo a cansarsi.
Un gran rischio lo corse una sera messer Barnaba Adorno. Sedeva egli a
cena nel palazzo assegnato a lui e alla sua famiglia dalla ospitale
liberalità del marchese Galeotto, allorquando la campana di
Bichignollo diede un rintocco.
--Bene!--esclamò ridendo il giovine Paolo Adorno, nipote di Barnaba,
in quella che stava per recarsi il bicchiere alle labbra.--Ecco una
giuggiola per le frutte. A chi toccherà essa?--
Aveva egli a mala pena finito di parlare, che un frullo veloce si udì
per l'aria e subito dopo un fortissimo schianto. La colonnetta di
marmo che partiva la finestra si ruppe, mandando i frantumi e le
scheggie per tutta la camera, e in men che non si dice piombò sulla
tavola un regalo di Anselmo Campora, fracassando il vasellame e
mandando ogni cosa sossopra.
Parecchi dei commensali balzarono in piedi dallo spavento, e taluno di
essi con qualche ammaccatura per giunta.
--State, messeri, in nome di Dio!--gridò Barnaba Adorno.--La giuggiola
di Paolo è toccata alla nostra mensa; ma altro di peggio non può fare
oramai.--
--Raccattiamo almeno qualcosa!--disse Paolo, chinandosi a terra,
dov'erano sparpagliati tra i cocci gli avanzi della cena
interrotta.--Ecco giusto uno spicchio di pollo, che non me lo mandano
più a male i Fregosi, che il malanno li colga!
--_Amen_, cominciando da Giano!--soggiunse lo zio.
E la cosa finì in ridere, senz'altro danno per la nobile brigata che
quello di avere abbreviata la cena.
Intanto, più durava l'assedio, e più grande era il guasto, non
solamente nel Borgo, ma eziandio nelle campagne circostanti. I soldati
del Fregoso, segnatamente i non genovesi (che i genovesi furono sempre
buoni massai, e la roba altrui, quando si studiavano di averla,
trattavano già come fosse la loro) i soldati, dico, rompevano,
tagliavano, mettevano in pezzi, davano lo spianto a ogni cosa. Se
mastro Bernardo avesse potuto dare una sbirciata all'Altino, altro che
botti sfondate! Avrebbe visto il suo pergolato in terra, gli
anguillari divelti e il suo bel fico brigiotto, onore dell'orto, quel
maestoso fico dond'egli spiccava ogni anno cinquecento dozzine di
fichi prelibati, polputi e maiuscoli, pietosi a vedere per la buccia
screpolata e per la lagrima all'occhio, quel nobilissimo fico andato
in iscavezzoni, sotto i colpi bestiali d'una soldatesca, la quale non
prevedeva di dover essere ancora in que' luoghi alla stagione dei
frutti.
Poveri a noi! griderà qualche lettore spaventato; siamo a mala pena in
febbraio e dobbiamo ingoiarci tutti gli altri mesi per infino a
settembre? Sissignori; ma badate, gli è come a sorbire un uovo fresco;
l'autore è discreto e va per le spiccie; sicchè, non temete ch'egli
intenda abusare della vostra pazienza, come fece Catilina coi Romani,
se dobbiam credere a quella lingua tabàna di Marco Tullio dal Cece.
Per venir difilati alla storia, si dirà che in quel mezzo fu di
ritorno al Finaro il bel conte di Osasco. Aveva egli veduto in Asti il
balìvo di Trasnay e conduceva al marchese Galeotto i nuovi soccorsi di
Francia che erano dugento lancie, sotto il comando di sere Gaulois, e
colla giunta di due maravigliosi cavalieri di ventura, Ludovico Masson
e Gianni Fontaine, di soprannome l'Abate.
Questi soldati forastieri fecero di belle imprese al Finaro e
risollevarono alquanto gli spiriti abbattuti della difesa. Non si
veniva già a capo di rompere il nemico, ma con audaci sortite lo si
travagliava di continuo ne' suoi ridotti e segnatamente si tornava
molesti a que' capitani, venuti in condotta nell'esercito genovese, i
quali erano avvezzi alle guerre senza troppo spargimento di sangue.
Feroci in battaglia erano a que' tempi i francesi, e ciò forse perchè
inaspriti in quella giostra spietata, che da tanti anni avevano
sostenuta in casa loro, contro l'armi invaditrici d'Inghilterra.
Laonde, mentre i condottieri italiani si contentavano di balzare
d'arcioni il nemico, ponendogli taglia se era persona d'alto affare, o
d'alcun grado nella milizia, e levandogli in quella vece l'armatura e
rimandandolo in farsetto se soldato semplice, o di povera apparenza, i
francesi per contro usavano, ov'egli fosse caduto sotto il loro urto,
di calarsi a terra e di finirlo con un colpo di misericordia sotto
l'allacciatura dell'elmo.
In quel torno un Andrea Romanengo, che militava nelle file genovesi,
per esser egli ghibellino siccome erano i Carretti, piantò le insegne
de' suoi concittadini, e, andato a' servigi del marchese Galeotto,
incignò il suo passaggio al nemico guidando contro il campo genovese
cinquanta animosi soldati, e fu ad un pelo d'impadronirsi delle
bombarde postate sull'altura di Monticello; la quale impresa nessun
altri avrebbe potuto tentare fuor lui, che ben conosceva le vie
coperte, i tragetti, la forza delle guardie e tutti gli usi del campo.
Messer Pietro Fregoso gli mandò a dire, per uno de' prigioni fatti in
quello scontro e resi secondo il costume in cambio di altrettanti
genovesi, che badasse a custodir bene la sua persona o volesse dare
frattanto gli estremi conforti alla sua gola; imperocchè egli si
prometteva di farlo impiccare al trave dell'ultima torre che rimanesse
in piedi al Finaro.
Molti altri bei fatti d'arme intervennero, che per amore di brevità, e
perchè sottosopra tutti compagni, tralascio di raccontare. Bene
raccontano le cronache finarine della proposta fatta da Giovanni,
fratello del marchese Galeotto, di combattere egli solo contro un
campione di Genova e così por fine alla guerra; proposta che il
Fregoso non accettò, come quella che mettea conto solamente al nemico,
inferiore di tanto per numero e stremato di forze. Raccontano inoltre
della disfida che mandò Giacomo, figliuolo di Oddonino del Carretto, a
Nicolò e ad Antonio Fregoso; rifiutata la quale, con un pugno di
cavalieri fece una scorreria fin sotto le mura di Castelfranco.
Narrano di una zuffa che avvenne sopra l'ospedale di San Biagio,
proprio daccanto alle mura del Borgo, delle prodezze che vi operò
Giovanni Sanseverino e di quelle d'un cavalier francese che sostenne
da solo l'impeto di cinque nemici; uno ne uccise, gli altri ferì, ed
egli poi appiedato ebbe tronche le gambe da un colpo di colubrina.
Aggiungono che i genovesi, nel fare un'altra bastita, dovettero per un
giorno intiero far fronte ai ripetuti assalti della gente assediata, e
in quella occasione Gianni Fontaine, detto l'Abate, ebbe il fratello
malamente ferito e sepolto ancor vivo dai genovesi; la qual cosa
proverebbe invero una fretta soverchia e niente affatto lodevole, ma
altresì la buona intenzione dei genovesi e il costume che avevano di
rendere gli estremi onori ai caduti.
Raccontano.... Insomma, io non mi fermerò a pigliar nota di tutto.
Metterò in sodo che si pugnò lungamente e valorosamente da ambe le
parti; cosa che torna ad onore del buon nome italiano, dappoichè
finarini e genovesi, monferrini, lombardi, napoletani e quant'altri
combattevano, alleati, o assoldati, nei due campi del Finaro e di
Genova, erano tutti figliuoli d'una medesima patria.
E l'assedio intanto durava; nè ciò solamente per la singolare asprezza
dei luoghi e per la inaudita tenacità della difesa, ma eziandio per la
instabilità degli uomini nell'esercito genovese. Ho già detto come si
usasse allora far gente e come il nerbo dell'esercito posto sotto il
comando di Pietro Fregoso si componesse di forze comandate, tutte con
poca e varia durata di servizio; di guisa che, spirato il termine fino
a cui una data compagnia era obbligata a rimanere sotto le insegne,
questa si ritirava dal campo, foss'anco alla vigilia d'una pugna.
Anche i mercenarii, finita la loro condotta, e dove i patti nuovi non
fossero più larghi dei vecchi, od altrimenti accettevoli ai
condottieri, spulezzavano tosto; e talfiata anco passavano con arme e
bagagli alla parte contraria, se questa aveva trovato il verso
d'intendersi con esso loro e di offrire una paga più alta. Il
sentimento dell'onore per que'tempi era tale, e comandati e condotti
non si tenevano obbligati ad averne più in là del giorno assegnato.
A proposito di giorni, uno finalmente ne venne, e fu quello di San
Gregorio, ai 12 di marzo, che i genovesi levarono il campo. Già da due
dì il fuoco delle bombarde si era di molto allentato; di che gli
assediati aveano dato merito al tempo piovoso, che non tornava
propizio alla lunga e malagevole operazione della carica. Ora, la
mattina del 12, uscito il Sanseverino colle sue lancie francesi fuor
dalla porta di san Biagio per far correrìa lunghesso il torrente, ebbe
a meravigliar forte di non ricever molestia dai balestrieri nemici,
che solevano stare in agguato alle falde di Monticello.
Incontanente spiccò un uomo dalla cavalcata, perchè desse avviso di
quella novità al marchese Galeotto. Il quale fa pronto ad uscire con
grossa mano di fanti per tastare il terreno all'intorno, incominciando
dalle bastite dell'Argentara e del poggio di Maria. S'inoltrarono
guardinghi fino agli steccati, già per lo addietro così fieramente
contesi, e del nemico non ebbero indizio; le bastite erano
abbandonate. Salirono ai greppi di Monticello e niente trovarono;
ridiscesero al piano, e la valle apparve deserta. I genovesi nella
notte avevano levato l'assedio.
Messer Galeotto, che pizzicava di lettere, pensò allora alla fuga dei
Greci da Troia e sospettò d'una insidia. Ma dov'era egli il cavallo di
legno, od altro che ne tenesse le veci?
Per aver traccia dei genovesi, fu mestieri a Galeotto di giungere fino
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