L'amore di Loredana - 09

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--Chi è?--domandò Berto Candriani.
--Non lo conosci?--disse il tenente di vascello Paolo Orseolo.--È Milan,
l'ex-re di Serbia.
--Oh guarda!--esclamò Berto.--Si muove bene in un salotto, meglio che
sul trono, l'animale....
Il conte Orseolo diede una gomitata a Berto.
Milan s'inoltrava, tenendo al braccio la contessa Lombardi, che gli
presentò gli invitati.
Berto aveva ragione: Milan aveva piuttosto l'aria d'un gran signore
annoiato che non l'aspetto d'un Sovrano. I favoriti e i baffi biondi
contrastavano con l'espressione di lassezza diffusa sul volto; e dentro
gli occhi grigi e freddi passavan talora lampi improvvisi, come per
effetto d'un pensiero che sopraggiungesse e illuminasse o facesse
tremare quell'anima.
Egli disse qualche complimento alle dame intorno, con misura e con
gusto, sorridendo e socchiudendo gli occhi.
A Berto Candriani domandò:
--«Est-ce que vous êtes du Rowing-Club, comte?»
--«Mais sans doute, Altesse!»--rispose Berto Candriani prontamente.
Milan gli sorrise soddisfatto; e mentre egli si allontanava con la
contessa per dirigersi alla sala da ballo, Berto soggiunse a bassa voce
con Paolo Orseolo:
--Mai visto il Rowing-Club! E tu?
Il conte Orseolo si mise a ridere.
Milan era giunto a Venezia in quei giorni, proveniente da Abbazia, dove
aveva passato qualche settimana col giovane re Alessandro, suo figlio. I
giornali avevano anzi parlato d'un tentativo d'avvelenamento commesso
dai nemici degli Obrenovich contro Alessandro; e Milan, che in
quell'epoca dimostrava pel figliuolo una vera tenerezza, ne era rimasto
foscamente impressionato.
Era sceso all'«Hôtel d'Europa»; la contessa Lombardi, che l'aveva
conosciuto alcuni anni prima a Biarritz, l'aveva invitato alla sua
_sauterie_.
Berto Candriani stava per seguirlo a distanza e per gustar le altre
presentazioni, ma vide entrare in quel punto Filippo Vagli, e gli corse
incontro.
Filippo lo guardò interrogativamente.
--C'è Milan,--annunziò Berto.
--C'è già?--disse Filippo.--È simpatico?
--Un tozzo di pane. Ti domanderà se sei del Rowing-Club. Ti prego di
dirgli di sì, perchè ciò gli fa piacere.
--Va bene. E la contessa è con lui?
--Naturalmente. Adesso che ha una specie di re per le mani, tu puoi
risparmiar di salutarla, perchè conti anche meno del solito.
I due amici s'avviarono ridendo verso la sala rossa.
--A proposito,--soggiunse Berto.--Ti ho reso un piccolo servizio, questa
sera.
--Mi fai tremare!--esclamò Filippo.
--Coraggio! C'era la Fioresi che schiattava dalla voglia di saper che
cosa fai, come vivi, dove ti nascondi. Io le ho raccontato tutto.
--Le hai parlato di Loredana?--esclamò Filippo, arrestandosi.
--No. Le ho parlato di te, della tua passione, delle baruffe con la tua
famiglia; quadro completo, insomma!
--E lo chiami un piccolo servizio, questo?--disse Filippo, stringendo la
mano di Berto.--Ma è un servizio impareggiabile, prezioso, magnifico....
--Un servizio per dodici persone,--mormorò Berto.
--Proprio! Così avrò costei sulle braccia, come non bastassero tutte le
altre!--concluse Filippo.--Ma dove hai la testa? Quando imparerai, tu, a
essere discreto?...
Berto era un po' confuso; aveva creduto, dapprincipio, che Filippo lo
ringraziasse e gli stringesse la mano per davvero; ed ecco che tanta
gratitudine si risolveva in un rimbrotto.
--Non ti arrabbiare, Flopi,--egli disse.--Alla fin fine, che cosa
avverrà? Che la Fioresi non ti annoierà più coi sospiri e gli sguardi
languidi....
--Ma ti prego di credere che la Fioresi non ha mai fatto nulla di
simile, caro mio, e che queste son fantasie del tuo cervello ozioso....
Berto non potè replicare.
Giunti nella sala rossa, videro nel bel mezzo Milan Obrenovich che
parlava con la duchessa di Torrecusa.
--«Nous avons fait un pari, la comtesse et moi,»--diceva.--«La comtesse
disait que vous avez les yeux gris clairs, moi je disais que vous les
avez verts, ce qui vous sied excessivement bien. Et voilà, j'ai gagné!»
La duchessa sorrideva, un po' impacciata, sotto la fiamma che
sfolgorarono a un tratto gli sguardi di Milan. Si sarebbe detto ch'egli
avesse voluto bere la luce che sorgeva dal corpo sottile, dalla
carnagione rosata, dai capelli aurei della giovane dama.
Gli altri tutt'intorno sentirono quella vampa di desiderio, che il re
del tappeto verde e delle alcove aveva recato con sè, e tolsero gli
occhi dalla coppia e seguitarono per discrezione i loro discorsi.
--Oh perchè non si ricoverano dietro il paravento?--mormorò Berto, con
un'occhiata al principe.--Se vuole io gli insegno i buchi, a Milan....
--Quali buchi?--domandò Filippo stupito.
--I buchi del paravento. Li ha trovati comodissimi anche la Fioresi.
Vieni, che ti faccio vedere; è un segreto, il segreto che si rivela a un
gentiluomo....
In quel punto, la Fioresi, giungendo dalla sala da ballo con passo
svelto, alta la testa, un tranquillo sorriso sulle labbra, fermò
Filippo, stendendogli la mano.
--Buona sera!--ella disse.--Si disperava di vederla tra di noi....
Berto Candriani rattenne un ghigno di malizia, ma Giselda lo indovinò
più che non lo vedesse.
--Mi dia il braccio!--ella soggiunse a Filippo.--Facciamo un giro,
lontano da questo re che non mi piace!
Filippo le diede il braccio e s'avviò presto con lei fuori della sala.
--Ha ragione se non le piace quel re,--disse.--Perchè pensava che io non
sarei venuto stasera?
Berto, sprofondate le mani nelle tasche dei calzoni, rimase a guardar
Filippo e Giselda che si allontanavano; poi squadrò di nuovo Milan
Obrenovich, e gli venne in mente un verso, un verso del quale non
avrebbe potuto dir l'autore, ma che gli sembrava adatto alla sua
situazione:
"Messo là nella vigna a far da palo".
--Senta che bel galopp!--gli disse la contessina Cafiero, passandogli al
fianco.
Berto l'afferrò per il braccio, quasi a volo, con tal furia che la
fanciulla fece un gesto di spavento; e conducendola seco di corsa:
--Andiamo!--disse.--Qui tutti galoppano! Galoppiamo anche noi!...
La Cafiero, vestita di rosa, alta e bruna, un neo in mezzo alla fronte,
cominciò a ballar con Berto, ridendo e socchiudendo gli occhi
voluttuosamente.


II.

Dopo la notte trascorsa da Loredana al palazzo Vagli, Filippo aveva
trovato e arredato l'appartamento sulle Zattere, di fronte al largo e
torpido Canale della Giudecca; aveva persuaso con molta facilità del
resto, la signora Clarice Teobaldi a lasciar Verona e ad allogarsi
nell'appartamento; di poi era toccato alla Teobaldi, nelle
frequentissime sue visite, a persuader Loredana, che combatteva tra il
desiderio di raggiungere finalmente Filippo e la crudele necessità di
dar nuovo dolore alla mamma.
Loredana s'era decisa un giorno in cui Adolfo Gianella l'aveva
affrontata in istrada, dichiarandole di volerla accompagnare per vedere
se mai andasse dal conte. L'insolenza del giovane l'aveva così esaltata
che quel pomeriggio medesimo, invece di tornare a casa, aveva raggiunto
Clarice Teobaldi, e alla mamma aveva scritto ch'era a Venezia, ch'ella
non temesse, ma che ormai «il suo destino la chiamava».
Così Clarice era diventata la dama di compagnia di Loredana; e Loredana
l'amante, alla faccia del sole, di Filippo. Egli volle festeggiar
l'avvenimento con un piccolo viaggio, e partirono i due innamorati per i
laghi lombardi, lasciando Clarice a Venezia.
La dama di compagnia, altera del suo nuovo e delicato ufficio, aveva
rinunziato agli abbigliamenti vistosi; vestiva sempre di nero, ma con
quel suo vezzo di indossare abiti troppo corti, che le lasciavano
scoperto tutto il piede, sembrava da lontano un vecchio merlo.
Quando Loredana e Filippo tornarono, ella potè annunziare che la signora
Emma era stata due volte a cercar della sua Lori, e che non si lagnava
più, e che aveva piegato il capo, anche lei, sotto quella raffica di
passione. La signora Emma, travolta dal furore altrui e dalla debolezza
propria, la quale pareva esser cresciuta dopo l'unico atto energico da
lei compiuto a Sirmione, aveva veramente abbandonato le redini, non
sperando ormai che nella onestà di Filippo, nella saggezza di Loredana,
in qualche lontano avvenimento tuttavia incomprensibile.
La sua Lori andava a trovarla spesso, in quella casetta bianca sul
campiello muto, dalla quale i pettegolezzi ostinati e i fatti veri
avevano allontanato amici e conoscenze, cosicchè la signora Emma viveva
ora quieta e sola, abbandonata e placida. Qualche volta Lori si fermava
a colazione o a pranzo; e mai le due donne non parlavano del conte;
bensì, era in tutto l'atteggiamento della fanciulla verso la madre una
premura nuova, un'affettuosità timorosa, che parevan chiedere
continuamente il perdono nel silenzio; e quel perdono era già nel
riserbo della signora Emma, che non aveva più detto parola dei suoi
presentimenti.
Loredana traversava allora un periodo di selvaggia e franca voluttà.
Filippo era l'amore, e l'amore l'inebbriava, come se il calore di quel
principio d'autunno avesse bruciato le vene di lei, moltiplicandone il
desiderio e i capricci notturni e diurni. Il suo corpo bianco finemente
venato, i seni duri dai capezzoli che ricordavan le fragole odorose, il
ventre piccolo chiaro come ambra, le gambe dai bei ginocchi e dalle
cosce muscolose,--splendevan la notte sotto i baci di Filippo, tra i
veli della zanzariera, che chiudevan gli amanti come nell'onda azzurra e
dolce d'un acquario.
Al ritorno dall'escursione dai laghi lombardi, Filippo chiamava Loredana
«la viperetta» ed ella sorrideva misteriosamente. Quel che di più gaio,
di più sano e di più forte era nella sua anima veneziana, sfolgorava
nella passione libera, così che nessun dono era per la giovane premio
più ambito che un'ora di baci e di carezze.
Baci e carezze di Filippo; mai non aveva pensato potessero essere
d'altri; mai non aveva guardato i facili ammiratori che, protetti
dall'angustia e dalla cattiva luce delle calli, la seguivano, fosse sola
per correre dalla mamma, o fosse accompagnata da Clarice, e le
susurravano, passando, brevi frasi, e osavano qualche sorriso e le
ronzavano intorno.
Ella aveva per Filippo una gratitudine cieca, una specie di religione;
ma lungi dall'essere timorosa, era lieta ed uguale; risuonava il suo
canto la mattina, nel torrente di luce che invadeva le camere; e tutto
il giorno Loredana viveva con piacere, occupandosi con Clarice delle
compere, dando ordini alla cuoca ed alla cameriera, riempiendo la casa
delle sue corse, delle sue risatine, facendo ammattire la povera dama di
compagnia, della quale imitava i gesti al piano e le stonature e il modo
di camminare e il dialetto veronese, con tanto impeto, che Clarice
finiva per riderne.
Filippo si recava tutti i giorni dall'amante, vi si tratteneva a
colazione spesso, a pranzo quasi sempre, e per lunghe ore nella serata.
Ancora non s'era fatto veder per la strada con la ragazza; gli spiaceva
l'ostentazione dei suoi amori, quantunque nessuno potesse ormai
ignorarli.
Egli aveva pensato di vivere con Loredana lungi da Venezia, in qualche
città dove, per esser la vita larga e rapida, la curiosità è meno
molesta. Ma in quei giorni appunto le diatribe coi parenti s'eran fatte
acute.
La contessa Bianca aveva minacciato Filippo di farlo diseredare dallo
zio Roberto; occorreva una punizione materiale, poichè i concetti
d'onesto vivere e il senso del decoro non avevan presa su di lui; e in
verità la perdita d'un patrimonio che, come quello dello zio Roberto, si
aggirava intorno ai due milioni, non poteva non impensierire Filippo, il
quale non possedeva nemmeno un terzo di quella ricchezza. Allontanarsi
decisamente da Venezia e con Loredana in un frangente simile, sarebbe
stata imprudenza grave, anche perchè la minaccia non era venuta sino
allora che dalla contessa Bianca e nulla diceva nel contegno dello zio
Roberto ch'egli pensasse a tanto estremo. Anzi, di Loredana non aveva
più parlato.
La contessa Bianca, infatti, s'era avveduta presto che di Flopi, dello
scandalo, della «monella», dei soliti discorsi, il cognato era
arcistufo; poteva egli bensì dare un consiglio, ma considerava i
consigli a guisa dei denari, dei quali se si regalano o se si prestano,
non è lecito al donatore invigilar l'uso e rinfacciar la prestanza.
Prudentemente, la contessa Bianca smise d'intrattenere il cognato sulle
follie di Filippo, ripromettendosi di tornar daccapo ad occasione
propizia; e dopo un ultimo colloquio breve, secco, perentorio, col
figlio che si mostrò rispettoso e cocciuto, ella si ridusse nella sua
campagna di San Donà.
Ciò che la contessa aveva previsto, si avverava fatalmente: il vincolo
tra Flopi e Lori si era fatto via via più saldo; non era Loredana
l'amante, nè la mantenuta, ma qualche cosa tra la moglie e l'amica,
qualche cosa che non si vende e non si compera, che si può abbandonare
ma che non si dimentica più, che con rapidità propaga il suo dominio dai
sensi al cervello e dal cervello al cuore. Si trattava d'un caso d'amor
libero, che talune condizioni potevano spezzar da un giorno all'altro, e
che talune, più probabili, potevano un giorno trasformare in un
matrimonio.
Filippo, tutto preso dalla «viperetta», dimenticò finalmente la prudenza
e andrò a vivere egli pure nell'appartamento sulle Zattere, che per
Loredana era troppo grande; la camera attigua a quella in cui dormiva la
giovane fu ridotta, da salottino, in camera da letto per Filippo; e tra
l'una e l'altra si aprì una porta di comunicazione. Il conte fece
trasportar mobili, libri, oggetti suoi nella nuova dimora; vi condusse
anche Piero, il domestico silenzioso, e si ripromise di vivere da quel
giorno, ora in casa di Loredana, ora nel suo palazzo, secondo che le
convenienze e gli obblighi sociali avrebbero permesso.
Loredana non aveva chiesto mai nulla, e tutto le veniva profferto
spontaneamente, con fresco entusiasmo, con incredibile audacia da quello
stesso uomo, che andava sostenendo tanta guerra per il suo amore. Ad
ogni piccola novità, ella rideva nervosamente, quasi smarrita, rilevando
che la casa si trasformava, si faceva bella e intima, che Filippo le
dava a poco a poco una sua impronta personale.
--«Folletto», che ne dite?--chiedeva Loredana qualche volta alla
Teobaldi.
«Folletto» era il nomignolo che Loredana aveva scelto per Clarice in
memoria del famoso galop di Sirmione.
--Dico che è magnifico!--rispondeva il grosso folletto, guardandosi
intorno a gustar meglio l'intimità aristocratica del luogo, e a salutar
con un sorriso certi oggetti, come quel legno policromo del 600, i quali
significavan per lei qualche ricordo.--Dico,--seguitava,--che a
Sirmione deve avermi spinta il mio angelo custode; e pensi, contessa,
che vi sono andata a caso, senza voglia....
Ma Loredana interrompeva con un gesto la storia risaputa.
--Non tornerete daccapo?--domandava ridendo.
Dacchè viveva con la giovane signora, Clarice aveva sentito il dovere di
renderle il titolo di contessa, che a Sirmione le aveva lesinato; i
servi imitavano in questo la dama di compagnia, quantunque nessuno
ignorasse da qual vincolo Loredana era legata al conte; e Filippo, non
senza riconoscere la fastidiosa gravità del fatto, s'era guardato dal
muovere osservazioni, che sarebbero state, del resto, assai difficili e
spiacevoli.
Berto Candriani aveva raccontato alla contessina Fioresi ch'egli era fra
i pochi i quali frequentavano la casa della bella amante, e aveva detto
il vero; anzi era il solo che Filippo si conducesse qualche volta a
pranzo.
Aveva cominciato quasi involontariamente, perchè Berto gli si era messo
un giorno alle calcagna, essendosi fitto in capo di pranzare con
Filippo, dovunque quel giorno e con chiunque Filippo avesse dovuto
trovarsi; e quest'ultimo, o perchè di buon umore, o disperando di
levarselo d'intorno, se l'era condotto seco e l'aveva presentato a
Loredana e anche alla signora Clarice Teobaldi.
Loredana n'era rimasta sgomenta e sospettosa; ma passato il primo
impaccio, Berto s'era mostrato così accorto, così savio, così elegante
nelle maniere, pur essendo loquace e malizioso, che a poco a poco
Loredana s'era rimessa dal sospetto e da quel sottile pudore che
l'avevan dapprima turbata. Clarice dichiarò netto che dopo il conte
Vagli, il conte Candriani era il gentiluomo più compito del mondo, forse
perchè, invece di far complimenti usuali alla bella amante, egli aveva
rivolto la sua galanteria scherzosa alla cantatrice, la quale n'era
rimasta ammiratissima.
Berto non abusò del privilegio e non si recò mai da Loredana se non
accompagnando Filippo. Egli pure aveva fiutato in aria che si trattava
d'un legame serio, non indegno di qualche rispetto; parlava bene di
Loredana a Filippo e di Filippo a Loredana, ma chiedeva a se stesso dove
quei due sarebbero andati a parare.
Frattanto, perchè la contessa Lombardi e altre dame s'indugiavano in
città, prolungando oltre il consueto la stagione dei bagni, Filippo
aveva dovuto riprendere quella «vita per la platea» della quale era
abituato a vivere. Si recava spesso a Lido, nelle capanne delle amiche.
Il Lido piaceva a lui, come a tutti i veneziani, per agonia di luce, di
verde, di spazio, d'aria diffusa; anch'egli si contentava dei pochi
viali fiancheggiati da villini brutti, e s'era avvezzo alle costruzioni
terribilmente antipatiche di quegli alberghi nei quali si mangiava
malissimo e dai quali si vedeva una sfilata di capanne tozze, una
spiaggia arida, qualche disegno di giardino con gli alberetti ancor
giovani, sarcasticamente dimentichi di protegger gli uomini dal sole.
Anche a Filippo la terrazza dei bagni pareva una stupenda costruzione
d'arte; la vita e i colori glieli prestavano le oziose belle e gli
oziosi eleganti in abiti vivacissimi, cosicchè quella baracca era come
un animale indecente coperto da parassiti variopinti che ne nascondevano
la sgraziataggine.
Con le dame, con gli ufficiali di marina, coi gentiluomini che a quelle
facevano codazzo e corona, Filippo si lasciò trascinare a gite
frequenti; talora prendeva parte alle «sauteries», che nel linguaggio
barbarico dell'aristocrazia dovevano significare balli modesti, fra
amici.
Egli aveva il proprio pensiero rivolto a Loredana anche in quelle ore,
ma la dimestichezza antica con le famiglie patrizie, la necessità di
rispondere alle cortesie, la germinazione continua di visite da visite,
di pranzi da pranzi, di gite da gite, la rete sottile e densa della vita
mondana, che o si fugge interamente o interamente vi afferra, per lunghi
giorni lo avevano costretto ad abbandonare l'appartamento segreto e caro
delle Zattere, dove non si riduceva che a notte tarda, con la furia di
ricomprarsi il tempo perduto e di compensarne l'amante.
Loredana, che di rimbrotti non era capace, sentì bruscamente d'odiare
quelle donne, quegli uomini, quei ritrovi, quegli spassi; non solo
perchè interrompevano la sua bella esistenza d'amore, ma più perchè la
mettevano innanzi a una barriera.
C'eran dunque famiglie ch'ella «non poteva» conoscere, e donne che «non
dovevano» salutarla? Si era data con ingenua lealtà, fidando, senza un
calcolo, per impeto d'amore; e niente la salvava dalla riprovazione
arcigna del mondo? Ella aveva contro di sè la piccola società borghese
alla quale apparteneva, e la società aristocratica alla quale non poteva
appartenere; l'una e l'altra s'accordavano in un sol punto, nel
biasimarla.
La fanciulla evitò di metter piede a Lido, temendo che la sua mala sorte
la facesse incontrar con Filippo e obbligasse l'uno e l'altra alla
commedia di scambiare un saluto appena percettibile; ma se lo sguardo le
cadeva sui giornali cittadini, vedeva il nome di Flopi nel resoconto
delle feste accomunato con quello di Berto Candriani, del tenente
Orseolo, del marchese di Spinea, e due righe sopra una sfilata di dame,
dalla contessa Osvaldi alla duchessa di Torrecusa, dalla contessina
Fioresi alla contessa Lombardi. Eran sempre le medesime, accompagnate
dai medesimi aggettivi, disposte nel medesimo ordine; e venivan poi i
nomi di signore esotiche, le quali almeno, sparivano e ricomparivano con
maggior varietà.
Che cosa faceva Flopi, come poteva non annoiarsi tra quelle donne,
ch'egli vedeva tutti i giorni, da anni?
Berto Candriani, una sera a pranzo, aveva detto sbadatamente, innanzi a
Loredana, che non si può vincere la noia in società se non a patto di
andarvi per corteggiare una donna, per trovar l'amore o per condurre un
flirt. E aveva svelato i piccoli intrighi, che legavan questo a quella,
sfilando una corona di allegri pettegolezzi ed esagerando molto.
Loredana aveva dato un valore d'assioma alle parole del Candriani, e
aveva guardato Filippo impallidendo; ma Filippo, quella sera medesima
sul tardi s'era recato a una delle solite «sauteries» spinto dalla
curiosità di veder dappresso il famoso Milan Obrenovich, del quale si
narrava in quei giorni la riconciliazione con la regina Natalia. La
giovane s'era coricata subito, per piangere, e nel cupo silenzio della
notte veneziana, a lungo aveva dovuto aspettare il ritorno di Flopi.
Distesa sul letto, i capelli raccolti in fascio dietro la nuca, guardava
tra le lacrime la sua camera e gli oggetti intorno, che le eran tanto
cari. Una lampada ardeva sul tavolino; il letto chiuso nei veli della
zanzariera, che tenevan Loredana come in un'ampia rete, e i mobili di
mogano lucido sui quali splendevano le serrature e le borchie d'argento,
e le due finestre debolmente illuminate dalla fiammella del lampione
ch'era innanzi alla casa, e le poltrone di stoffa a larghi fiori di
velluto in rilievo, tutto era accarezzato come da un raggio lunare, per
la lampada che aveva il globo intensamente azzurro.
Il valzer in casa Lombardi cantava intanto: «Abbandonatevi a queste
gioie malinconiche, a quest'onda invisibile, e sognate tutti i vostri
sogni, prima che l'alba vi risvegli....»


III.

Di quel patriziato veneziano del quale le storie del 1848 non dicono
nulla, quelle del '59 non dicono niente e quelle del '66 dicono poco, il
conte Roberto Vagli era stato a' suoi tempi una fortunata eccezione.
Come ufficiale di cavalleria, aveva preso parte al combattimento di
Montebello, che viene giudicato dai tecnici il primo scontro importante
del 1859; e terribile, perchè secondo alcuni autori, metà della
cavalleria piemontese--lancieri Aosta, lancieri Novara, cavalleggieri
Monferrato--vi rimase distrutta, essendosi urtata con gli Ussari Haller
sotto la fucilata implacabile dei battaglioni austriaci; e stupendo per
l'impareggiabile pertinacia dei cavalieri italiani che si lanciarono più
volte alla carica con una furia, la quale il fuoco e il piombo non
poterono arrestare.
Fu il conte Vagli di poi alla battaglia di San Martino con quegli
squadroni d'Aosta, di Saluzzo e d'Alessandria, che sciabolando
ripetutamente il nemico, l'obbligarono a ripiegare verso Pozzolengo.
Bella battaglia, ideata e svoltasi alla vecchia, con accanitaggine
testarda, con episodii di rabbia incredibile; e l'eco ne giunse tosto a
Venezia, dove nessuno osò per quella vampa di gloria e d'entusiasmo
inanimire il popolo e dare al vento il vessillo italiano.
Il conte Roberto Vagli si sentiva certo meglio di suo nipote Flopi,
gettando uno sguardo al passato, benchè la famiglia fosse stata sempre
più incline a censurare le mende dei numerosi scapestrati onde s'ornava
l'albero genealogico, che non a compensar le gesta dei pochi valorosi i
quali avevan compiuto il loro obbligo. Si sentiva certo meglio, il conte
Roberto, dei suoi coetanei, ch'egli non aveva incontrato nè tra i
lancieri d'Aosta, nè tra gli ussari austriaci, nè tra nemici, nè tra
commilitoni.
Egli fu candidamente felice di poter far parte di quel Comitato che
nell'anno 1893, sotto la presidenza del cavalier Breda, aveva preparato
l'inaugurazione della Torre di San Martino della Battaglia; e mentre la
cognata andava snocciolandogli la litania dei vizii e degli stravizii di
Flopi, e degli amori con la sbarazzina e della necessità di qualche
grave minaccia, il conte Roberto, fattole comprendere d'averne
abbastanza, riviveva le belle memorie, tutto chiuso in pensieri più alti
e più gravi che non fosse l'avvenire del nipote.
Frugava tra carte vecchie, contemplava i vecchi ritratti degli ufficiali
di cavalleria e di quelli dei bersaglieri, che avevano caninamente
disputato il terreno agli austriaci, battendoli passo per passo, da una
casipola a un cimitero, da un albero all'altro; e sentiva quasi sul
volto un alito fresco, certamente nelle vene un sangue gagliardo
scorrere, e voleva ridere di piacere per i giorni gloriosi, che nessuno
poteva cancellare più.
Quel 15 ottobre 1893, in cui la Torre venne finalmente inaugurata alla
presenza d'Umberto e di Margherita, tra una folla di settantamila
persone onde furono allagati i bei viali di cipressi e la pianura, sotto
un mirifico sole, il conte Roberto fu tutto preso da una tenera gioia e
da un'ombra di malinconia, rivedendo parecchi dei vecchi combattenti e
rammentando i molti scomparsi.
Filippo gli era al fianco; a lui quel tuffo in un'epoca vicina e pur
così diversa da quella in cui viveva, diede subito una specie di
sbalordimento. Lo stesso zio Roberto ch'egli si dipingeva sempre al
pensiero come un brav'uomo bizzarro, gli apparve fermo, giovane, sereno.
Ne aveva un poco riso la sera prima, senza malizia, con Loredana la
viperetta; e il mattino, innanzi alla torre storica, vedendolo tutto
lieto, il petto fregiato di belle medaglie conquistate tra lo sciabolare
dei nemici furiosi e vinti, Filippo ebbe quasi un fremito d'invidia e di
rispetto.
Quando il cavalier Breda lo chiamò e lo presentò al Re dall'occhio
fulmineo, dicendo a Sua Maestà nel placido dialetto, a cui il
commendatore non aveva voluto rinunziar neppure in quell'ora solenne:
--«La permeta che ghe fazza conossar sto bravo giovine....»
Filippo, inchinandosi profondamente, si chiese perchè lo presentassero
al Re e perchè egli fosse un bravo giovane; forse non per altro, se non
perchè nipote del conte Roberto.
La folla bisbigliava facendo ala ai Sovrani per vedere la Regina,
augusta bellezza nell'abito violetto, col cappello nero piumato sulla
massa della chioma d'oro; e Filippo, rimasto a pochi passi dal Re,
sentiva gli sguardi avidi fissare il gruppo dei generali, cercar fra
questi il vecchio Cucchiari, e diffondersi il susurro, diventar grido e
tumulto, perdersi lontano dove ondeggiava un mare di teste.
Più tardi, durante la visita all'Ossario, Filippo guardò i teschi degli
ufficiali italiani e austriaci, raccolti e disposti nella scansia
circolare.
Pel vialetto di cipressi che adduceva a quel funereo reliquario, la
battaglia era stata atroce; i colpi di fucile avevano sloggiato i nemici
a uno a uno, quasi in un duello di soldati contro soldati; qua e là
l'iscrizione breve d'una pietra rozza fitta in terra indicava la zolla
su cui un ufficiale italiano era caduto durante la rapida caccia; e la
terra pareva diversa da quella di tutti gli altri campi, quasi il sangue
onde s'era abbeverata l'avesse fatta più grigia e più triste.
Ma Filippo osservò attentamente i teschi raccolti nell'Ossario. Il conte
Roberto, senza parlare, gliene segnò alcuni col dito, gl'indicò il
cartellino col nome; dalle occhiaie e dalle suture sconnesse di alcuni
pendeva per una cordicella il pezzo di piombo che aveva traversato il
cranio o spaccato il cuore; e toccando quei frantumi di proiettili e di
mitraglia, Filippo vide fuggire lungo i palchetti della scansia qualche
scolopendra che aveva preso albergo nei teschi dei valorosi.
Egli guardò Roberto, che sorrise tranquillo.
--È un altr'uomo!--pensò Filippo.--La morte non gli desta alcun orrore;
egli vede i teschi dei commilitoni come fossero ancora animati, e
avessero occhi e carni. Poteva essere lui nell'Ossario; io non l'avrei
conosciuto e non avrei compreso il suo sacrificio.
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