L'amore di Loredana - 06

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--Lasciamola, lasciamola,--disse alla Teobaldi,--ha bisogno di riposare,
adesso. La ringrazio di nuovo, signora.
La Teobaldi salutò ancora Loredana, salutò Emma, ed uscì tra il fruscìo
dell'abito alla Pompadour e della sottana inamidata.
--Non ti spaventare,--disse la fanciulla a sua madre, non appena l'uscio
fu chiuso alle spalle della cantatrice.--Sto bene, ora; possiamo
partire....
E fece l'atto di scendere, ma Emma la rattenne.
--No,--disse.--Puoi aspettare; partiremo stasera.
Ella avvicinò una poltrona e sedette; Loredana chiuse gli occhi, e per
lungo tempo le due donne non pronunziarono verbo, seguendo ciascuna i
proprii pensieri. Il silenzio era pesante; non risonava nell'albergo
alcun rumore, e appena dal basso veniva il mormorìo del lago, che
lambiva la casa; di tanto in tanto, s'udiva l'ultimo frinire delle
cicale, salutanti il sole ch'era presso al tramonto.
A un tratto Loredana volse il capo, e domandò:
--Ti ha detto lui, che io era qui? Ne sei ben sicura, mamma?
--Come potrei ingannarti, amore mio?--rispose Emma.
--E ti ha permesso di venire a prendermi?
--Ha dovuto cedere; ha pianto, ha pregato, ma ha dovuto cedere....
La fanciulla sorrise con amarezza.
--Io,--disse poi,--io non ti avrei detto nulla, se fossi stata Filippo;
o se per disgrazia mi fosse avvenuto di dirtelo, sarei partita subito,
subito, avrei preso con me colei che amavo, e mi sarei nascosta ben
bene. Io avrei fatto così.
Emma non rispose, e vi fu un'altra pausa lunga.
--Ma che cosa fa, a Venezia?--riprese Loredana.--Te lo ha detto?
--No.
--È tornato nella società elegante,--mormorò la fanciulla, quasi
parlando con se stessa.--Dice che non può muoversi, perchè deve
rispondere alle cortesie e agli inviti che gli fanno; e io ero qui,
sola, di giorno e di notte, in un paese che non conosco, dove tutti mi
guardano in così strana maniera!
Tacque; poi, d'improvviso, domandò:
--Che cosa voleva dire quella sciocca?
--Chi, Lori?--chiese Emma.
--La Teobaldi.
--Non ho udito nulla.
--Ma sì: ha detto che il mio malessere può avere tanti significati....
Emma alzò le spalle con disdegno.
--E una sciocca, lo hai detto,--mormorò.
Verso le otto, pranzarono in silenzio, rapidamente. L'albergatrice, che
le serviva ella stessa a tavola, indovinò qualche avvenimento grande,
e, chieste notizie della «signora contessa», non domandò altro; poi
dispose per avere una carrozza che le conducesse a Desenzano, dove
avrebbero preso il treno; e fu stupita, apprendendo che lasciavano i
bauli e le valigie.
Era un'idea di Emma, la quale non voleva portarsi a casa i regali e il
corredo fatti dal conte a sua figlia.
--Vuol dire che tornano?--osservò l'albergatrice.
--Senza dubbio,--rispose Emma.--In ogni modo, il conte s'incaricherà lui
di dare ordini pel bagaglio.
Appena la donna fu uscita, Loredana svestì l'abito di seta color d'oro,
indossò presto l'abituzzo nero, che agli occhi della madre la
ringiovaniva e quasi la purificava.
La fanciulla non parlava, come avesse avuto bisogno del silenzio per
sostenere la sua volontà e per trovare forza in quegli istanti crudeli,
in quell'ora in cui il passato cadeva nel nulla e un avvenire
torbidamente incerto le si spalancava innanzi.
Quando fu pronta, disse:
--Aspettami, torno subito.
E prima che la madre pensasse a trattenerla, Loredana uscì, discese le
scale, andò in cerca della Teobaldi.
Era ripresa dalla necessità di dire una parola a Filippo, di mandargli
un saluto; non poteva, da un istante all'altro, staccarsi da lui e
dimenticarlo; tutta la sua anima, tutto il suo corpo gli appartenevano
ancora, quantunque egli le apparisse ora così diverso da quello che
aveva sognato, così cattivo e vile.
Trovò la Teobaldi in cucina; parlava sommessamente con l'albergatrice,
presso la tavola, sulla quale eran disposti i piatti e le posate
sporche.
Loredana s'affacciò alla soglia, e con voce che fece dare un sobbalzo
alla Teobaldi, chiamò:
--Signora Clarice!
L'altra le si avvicinò senza rispondere, e la fanciulla la condusse
fuori, nell'atrio; poi prese una matita, vergò alcune parole sopra un
pezzo di carta, e disse:
--Di lei mi posso fidare?
La Teobaldi mise una mano sul petto esuberante, e rispose:
--Tesoro mio, che cosa domanda? Io darei la vita per farle piacere.
--Bene: lei deve spedirmi domattina questo telegramma; vada a Peschiera
e lo spedisca di là; qui non c'è telegrafo. Ma non dica parola ad anima
viva. Mi posso fidare?
Clarice ripetè il gesto, e rispose:
--Le ho detto: per farle piacere, darei la vita; che cosa devo dirle di
più? Domattina alle nove sarà fatto tutto.
--Prenda,--soggiunse Loredana,--questo è il telegramma, questi sono i
denari per la carrozza. Su, su, non voglio che rifiuti. Perchè deve
spender lei? E la ringrazio di cuore. Ma non parli nemmeno con l'aria.
La Teobaldi afferrò la mano della fanciulla, e domandò inquieta:
--Ci rivedremo? Tornerà?
--Sì, ci rivedremo.... Addio, grazie!
Allora Clarice non si rattenne, allungò le braccia, si strinse Loredana
al petto, baciandola sulle guancie impallidite.
--Addio, tesoro! Addio, bellezza! Che la Madonna l'aiuti....
Sentendo in quell'abbraccio il calore d'una affezione sincera, d'una
simpatia verace, Loredana si liberò dalla stretta dolcemente, e sorrise
con malinconia.
--Che la Madonna l'aiuti!--ripetè Clarice.
Ma già la fanciulla saliva rapida le scale e tornava presso sua madre,
la quale le veniva incontro, inquieta.


XV.

Le emozioni della signora Clarice Teobaldi non dovevano finir così
presto.
Quella sera stessa vide partire Loredana con sua madre nella carrozzella
che le conduceva a Desenzano. La fanciulla, vestita d'un abito nero,
inelegante e povero, mostrava gli occhi stanchi per il pianto, e tutto
il suo corpo si reggeva a mala pena, quasi che un peso invisibile e
intollerabile le gravasse le spalle.
Salita nella carrozza, fece alzare il soffietto, si rincantucciò al suo
posto, abbassò il capo, e parve con la mente allontanarsi subito da
tutto quanto la circondava. Sua madre non apriva più bocca, ma aveva
sguardi lunghi e meditabondi per la figliuola.
La vettura, partì, s'avviò per la strada sulla quale Loredana aveva il
giorno stesso incontrata la mamma; sparve nell'oscurità della sera
calante; qualche tempo ancora risonò il tintinnìo dei campanelli, poi il
silenzio ricadde come un velo fitto, che separasse per sempre il passato
da ciò che doveva avvenire.
La Teobaldi, rimasta sola, col cuore gonfio di gratitudine per la
missione delicata affidatale da Loredana, col cuore gonfio di sconforto
per la partenza della fanciulla, disdegnando esprimersi con
l'albergatrice, salì nelle camere di Loredana, ne trovò l'uscio aperto,
entrò.
Sulla tavola stava un doppiere, che la Teobaldi ravvisò nella penombra;
ella lo accese, gettò un'occhiata in giro, afferrò il senso di
desolazione ond'erano invase quelle camere, nelle quali s'era svolto un
poema d'amore. Il piano era tuttavia aperto; in un angolo stava un
grosso baule; sul divano giacevano un cappello bianco, una cintura
rossa, un ombrellino scarlatto, gettati alla rinfusa, quasi con rabbia.
Nella camera da letto, dove la Teobaldi si recò, portando con mano
incerta il doppiere pesante, restavano sul cassettone ancora tutti gli
oggetti graziosi, ch'ella aveva ammirato altra volta; spazzole e pettini
d'avorio, uno spruzzatore d'argento, un bruciaprofumi in bronzo; innanzi
al letto le pantofoline trapunte d'oro; a terra giaceva anche una
camicia da notte, che la Teobaldi raccolse, piegandosi dopo non pochi
sforzi, e ammirò per i bei merletti che l'ornavano.
Aleggiava nell'aria un profumo tenue, come la persona che era vissuta
nella camera avesse lasciato dietro di sè un solco misterioso, fatto di
olezzo inafferrabile e penetrante.
La Teobaldi ritornò nel salottino, depose sulla tavola il doppiere, e si
mise al piano.
Le tornarono alla mente le note di quella romanza, «Mon rêve», che aveva
cantato a Loredana; e le richiamò, dolcemente, stonando con delicatezza,
quasi che la fanciulla avesse potuto ancora udirla. Ella se l'imaginava
come allora, distesa sul divano, tutta bella, tutta superba del suo
amore, nervosa per l'impazienza di riveder presto il conte.
Ma volgendosi, Clarice sentì il vuoto che la circondava, e restò al
piano assorta....
Ah, essa aveva capito subito un mistero nella giovane esistenza di
Loredana, e aveva tremato subito per lei! Chi le avrebbe detto ch'ella
stessa, Clarice, sarebbe stata la confidente in quel dramma, troppo
semplice per non essere compreso?
Di quella fiducia insperata, la Teobaldi conservava così profonda
l'impressione, ch'ella si sarebbe ormai fatta uccidere piuttosto di
parlarne. Non le era mai avvenuto d'essere messa a parte d'un segreto,
perchè i maligni la dicevano pettegola; soltanto Loredana aveva
improvvisamente, istintivamente avvertito ch'ella sarebbe stata capace,
per amor proprio e per gratitudine, d'un silenzio eroico.
Non aveva nemmeno letto il telegramma affidatole da Loredana, e
l'avrebbe spedito senza leggerlo.
Presa questa risoluzione, ella passeggiò con le mani sulla tastiera
ingiallita e suonò lentamente la «Serenata» di Schubert, che le spezzava
sempre il cuore, e che in quell'occasione le fece piover dagli occhi
lagrime abbondanti. Pareva l'addio alla fanciulla lontana, che nel
frattempo viaggiava, viaggiava, verso un destino crudele, verso una
città nella quale non avrebbe trovato se non memorie di giorni
cancellati per sempre; pareva il grido d'un'anima stanca e delusa....
Ma la Teobaldi si destò di soprassalto dal suo sogno.
Aveva udito la voce dell'ostessa, la quale stava ritta sul limitare, e
le diceva:
--Che le viene in mente, signora Clarice? Bisogna chiudere, qui, perchè
mi hanno affidata tutta la roba....
--Non penserà mica ch'io son venuta a portarla via?--osservò la Teobaldi
alteramente.
--Dio me ne guardi!--esclamò l'ostessa.
--Bene, bene, me ne vado,--concluse Clarice.
Si alzò e si avviò verso l'uscio, per recarsi nella sua camera; ma
l'albergatrice aveva voglia di chiacchierare, e riprese:
--Che ne dice?
--Di che?
--Ma di questa partenza. Ha visto com'era disfatta la signora contessa?
Che ne dice, lei?
--Io? Io ho l'abitudine di non impacciarmi degli affari
altrui,--sentenziò la Teobaldi. E aggiunse, con una occhiata di
traverso:--E lei farebbe bene a imitarmi, per rispetto ai suoi ospiti!
L'albergatrice rimase intontita, fulminata da tanta austerità, alla
quale non trovava altra spiegazione se non che gli artisti son tutti
pazzi da catena.
Ma intanto la Teobaldi l'aveva piantata sulla soglia; e quasi ad
aumentar la stupefazione della femmina, riprese con tono imperativo:
--Domattina alle otto, una carrozza per Peschiera!
L'ostessa spalancò la bocca, e allargò le braccia.
--Come, signora Clarice, vuol partire anche lei!--esclamò la povera
donna.--Sarebbe offesa per quel che le ho detto, senza intenzione...?
--Che partire! Faccio una scappata e torno; starò fuori poco più
d'un'ora in tutto.
L'ostessa respirò e non rispose altro, racconsolata.
La Teobaldi fece come aveva detto. La mattina seguente, alle otto, montò
in carrozza, giunse a Peschiera, spedì il telegramma senza leggerlo, si
fece rilasciare una ricevuta, e tornò a Sirmione.
Sulla soglia dell'albergo trovò l'ostessa, che appena la vide, le andò
incontro col più schietto de' suoi sorrisi, e le disse:
--Veda, signora Clarice. Io ho chiuso l'appartamento del conte Vagli.
Queste sono le chiavi, e vorrei pregarla di tenerle lei.
Clarice le prese, le mise in tasca, e rispose:
--La ringrazio; penserò io a tutto. La ringrazio molto.
L'ostessa aveva parecchie domande da fare, ma non osò.
--Anche la signora contessa,--osservò rientrando,--sarà contenta che le
tenga lei, perchè le voleva bene.
--Ah sì, che sia benedetta!--esclamò la Teobaldi.--Mi voleva bene, mi
stimava, mi considerava. Giovane come l'acqua, ma testa fina!...
E a vincer la tentazione di spiattellare ogni cosa, s'arrampicò
bofonchiando per le scale, e riparò nella sua camera.
Vi sarebbe restata tutto il giorno, contentandosi di mangiare il
prosciutto e l'uva che s'era comprato a Peschiera, se verso le quattro
non fosse accorsa l'ostessa trafelata a chiamarla.
--Venga, signora Clarice,--ella disse alla Teobaldi.--È arrivato il
signor conte, e desidera parlarle.
La Teobaldi arrossì per l'emozione.
--Il signor conte?--ripetè.--È già arrivato? Desidera parlarmi?...
Si diede un'occhiata, per incosciente civetteria, in uno specchio che la
faceva verde; si aggiustò i cernecchi grigi, si diede un colpo di mano
alla veste, e finalmente seguì l'altra, che aveva frenato a stento
l'impazienza.
Sotto l'atrio trovarono Filippo, che passeggiava nervosamente, a testa
bassa, arricciandosi i mustacchi. La Teobaldi si sentì stringere il
cuore, vedendo quel viso sbiancato: si sarebbe detto che in così poco
tempo Filippo fosse dimagrito e che una mano invisibile lo curvasse un
poco.


XVI.

--È lei la signora Teobaldi?--egli domandò con voce spenta a
Clarice.--Ha lei le chiavi dell'appartamento?
Clarice si presentava già, le chiavi in una mano e la ricevuta del
telegramma nell'altra.
--E questo, che cosa è?--domandò Filippo guardando il pezzetto di carta.
--È la ricevuta del telegramma, che ho spedito stamane per ordine della
signora contessa,--rispose Clarice, pensando che non le conveniva far
comprendere al conte tutto ciò ch'ella aveva imaginato.
--Ah, l'ha spedito lei! Loredana ha dato a lei questo incarico!--disse
Filippo.--Lei è stata a Peschiera?
--Sì, signore,--confermò Clarice.--La signora contessa era molto buona
con me.
Filippo diede un'occhiata alla Teobaldi, poi, come colpito da un
pensiero improvviso, soggiunse:
--Io devo ritirare i bauli; vuole aiutarmi a mettere un po' d'ordine,
signora Teobaldi?
Clarice non credeva alle proprie orecchie; le maniere cortesi di
Filippo, l'accoglienza gentile, l'invito a dargli mano, la mandavano in
visibilio. Ella squadrò l'ostessa, ch'era rimasta in disparte, e
rispose:
--Io sono molto onorata, signor conte....
Filippo la precedette sulle scale, arrivò al primo piano, aperse, fece
entrare la Teobaldi, richiuse. Egli, che pur sentiva crescergli in cuore
una disperata amarezza, non battè ciglio, vedendo sul divano il
cappellino dell'amante.
--Si sieda,--disse alla Teobaldi.--Mi aiuterà quando le dirò io.
Da un largo baule pendeva il mazzo delle chiavi; Filippo aperse, e
riprese:
--Ecco, signora Teobaldi; qui occorre la sua opera. Il baule della
biancheria non può essere spedito così.
Clarice si alzò dalla poltrona, quasi spinta da una molla, e corse a
vedere: la biancheria era magnifica, in tela finissima, ornata di
merletti e di fettucce.
--Ora ci penso io,--dichiarò la Teobaldi.
E mentre con cura meticolosa estraeva dal baule la biancheria, per
riporvela poi sapientemente, Filippo prese una sedia e si mise a sedere
vicino.
--È partita ieri sera, con sua madre?--egli domandò in capo a un attimo
d'esitazione.
--Sì, signore. Sono andate in carrozza a Desenzano, e di là hanno preso
il treno, io credo.... Ma che stupende sottane!...
--Ed era allegra?--chiese Filippo.
Clarice, che passava con un carico di sottane bianche sulle braccia, si
fermò.
--Ah no, signor conte! Anzi, è stata malissimo, durante il giorno.
Filippo diventò subitamente pallido.
--È stata male?--ripetè.--Per carità, mi racconti, mi racconti tutto.
Allora la Teobaldi depose cautamente le sottane sulla tavola, prese una
sedia ella pure, e raccontò dell'arrivo di Emma, dello svenimento di
Loredana, dell'invio del telegramma, senza obliare l'incidente più
piccolo, senza dimenticar parola, quasi avesse scritto ogni cosa ed ora
rileggesse.
--Ma come ha potuto sua madre ricondurla a Venezia, se stava
male?--esclamò Filippo, quando l'altra ebbe finito.--Come ha osato
commettere questa cattiveria?... Ah Loredana, Loredana, Loredana!...
Egli chiamò l'amante a voce alta, quasicchè ella avesse potuto
rispondergli, ed era nel suo viso una tale espressione d'ambascia, che
la Teobaldi restò inchiodata sulla sedia, senza trovare una frase di
conforto.
--Lei non sa,--riprese Filippo,--lei non sa, non imagina che cosa sia
Loredana per me: è la vita, capisce? Me l'han portata via, come si
strappa un balocco dalle mani di un fanciullo, e vorrebbero ch'io
tacessi, che figurassi anzi quasi un complice, che non la vedessi
più.... Non veder più Loredana, le pare possibile?
La Teobaldi fece un gesto disperato con le mani, come a dire:
«Impossibile», ma il gesto richiamò Filippo alla percezione della
realtà; sentì quasi meraviglia di trovarsi di fronte alla vecchia dalle
sopracciglia al nerofumo e di sorprendersi a parlarle con tanta
confidenza. Mutò voce, e disse:
--Vogliamo riprendere il lavoro?
Clarice riprese tosto, e, curva sul baule, sostando ad ogni poco, trasse
tutta la biancheria e ve la rimise lentamente.
--Lei è di Venezia?--domandò Filippo, dopo una pausa.
--No, signore; son di Verona; ma ho a Venezia qualche parente....
--Ah!--mormorò Filippo.--Allora conosce bene Venezia?
La Teobaldi sbuffò, perchè si rialzava, dopo aver collocato nel baule
una bella collezione di calze di seta.
--Certo,--disse.--Vado a Venezia almeno due volte all'anno.... Queste
calze rappresentano un tesoro; la calza di colore per l'estate è
l'ultima parola della moda.
--Se viene a Venezia,--interruppe il conte,--non si dimentichi di me:
avrò piacere di vederla....
--Ah, conte!--esclamò la Teobaldi.--Metter piede a palazzo Vagli, io,
povera meschina!
Ella s'era fatta più rossa pel piacere, e s'imaginava già d'arrivare in
gondola al palazzo, di salirne le scale preceduta da un valletto in
livrea, di incontrarsi con qualche dama dal nome sonante, e di potere un
giorno destar l'eco delle ampie vôlte con le note d'una romanza,
probabilmente intitolata «Mon rêve»....
--Che idee!--osservò Filippo.--Perchè non dovrei io trattarla come la
trattava Loredana?
Il nome della fanciulla risonò di nuovo nella camera, risonò
dolorosamente nel cuore dell'uomo. Egli ripetè:
--Venga a trovarmi, venga a trovarmi.
E alzandosi, andò alla finestra a guardare il lago, placido nel suo
denso color di cobalto.
Clarice intuì ch'egli era caduto di nuovo in preda al dolore e ai
ricordi, e non volendo riuscire importuna, si studiò di lavorar presto,
senza chiasso, ma con precisione. Riempito un baule, passò nella camera
da letto, raccolse le spazzole, i pettini, le fiale, tutti i preziosi
gingilli ch'eran rimasti sul cassettone e ne fece un imballaggio
accurato; poi guardò gli altri bauli, accomodò quelli ch'erano in
disordine.
E mentre, sudando e soffiando, faticava con tanto entusiasmo e con sì
accorta discrezione, pensava che alla sua non più giovane età--ella non
confessava gli anni nemmeno a se stessa--aveva finalmente il conforto
d'esser compresa. Prima Loredana, poi il conte, uno dei più nobili
patrizii veneziani, riconoscevano in lei la donna saggia, prudente,
fidata; e, oltre la soddisfazione di quella tarda vittoria, ella gustava
la voluttà di vivere in pieno romanzo, tra una tempesta di passione,
della quale sentiva la rossa fiamma, sognava i vaghi episodii.
La voce di Filippo, che le risonava alle spalle, la fece trasalire.
--Io credeva di trovarla qui,--egli disse, pensando a Loredana.--Il suo
telegramma non era chiaro. Se lo ricorda?
--Io non l'ho letto, signor conte,--dichiarò Clarice con solennità.--Ho
eseguito l'incarico affidatomi, e mi sarebbe parsa indiscrezione
riprovevole gettar l'occhio sul....
--Bene,--interruppe Filippo.--Diceva: «Un addio prima di partire».
Credevo d'arrivare in tempo. Ah se non ci fosse stato di mezzo Candriani
con quella sua stupida compagnia e quella gita, e quel pranzo! Ma non è
possibile finirla così.... Che cosa devo fare, che cosa devo fare?
Clarice Teobaldi, udendo parlare di Candriani, di compagnia, di gite e
di pranzi, ebbe la vertiginosa impressione di trovarsi già a piene vele
nell'oceano della grande società; e sedette, si asciugò la fronte con la
pezzuola, ripetè guardando per terra:
--Che cosa dobbiamo fare?


XVII.

«Non si tratta d'una pagina della mia giovinezza; si tratta della mia
vita intera». Le amare parole che la figlia aveva pronunciato in un
grido di dolore, tornarono alla mente di Emma De Carolis non appena ebbe
varcata la soglia di casa a Venezia.
Tutto era mutato. Loredana trascinava con sè, in quelle camere già piene
delle sue risa e del suo canto, qualche cosa d'infinitamente triste,
qualche cosa che non si poteva vincere, qualche cosa che mutava il senso
della vita, rimanendo immutabile.
Emma la guardava camminare, parlare, vivere, senza riconoscerla; la
fanciulla d'un giorno era spenta.
Subito, appena arrivata, Loredana s'era messa a letto con la febbre;
quel viaggio di sera, da Desenzano a Venezia, quella strada già percorsa
in senso inverso con Filippo, e tutta piena di episodii memorabili, le
avevano suscitato in cuore un tale spavento, una tale disperazione, da
farle perdere conoscenza appena tornata nella sua casetta sul campiello
muto.
E di quello strazio le eran rimasti in mente una lettera e un numero, «a
3622 a», ch'erano segnati all'interno sulla portiera del vagone, e che
ella aveva fissato per tutto il tempo del viaggio attraverso la campagna
scura.
Furono giorni orrendi.
La canicola mozzava il respiro; Venezia era deserta; i vaporetti
portavano al Lido orde di disperati in cerca d'aria più leggera; e lo
scirocco pesava, spietatamente, fiaccando il corpo e lo spirito di
giorno e di notte.
Per un mese intero, Loredana non volle uscir di casa; la gente le
incuteva paura, i discorsi la irritavano; se la madre era intorno a lei
con mille piccole cure insolite, ella sentiva la pietà pel suo dolore, e
il dolore le tornava più vivo; se la madre si sforzava di fingersi
lieta, Loredana si sentiva sola, avvilita, torturata da un sogno e da un
rimpianto inutili.
Ad ogni tentativo di sollevarsi, di liberarsi, di rivivere, s'agitavano
in lei i ricordi minuti del suo amore, ed era come chi non potendo
retrocedere, nè avanzare, nè durare sul posto, si dispera in cerca d'un
aiuto o d'una idea o d'un'illusione.
Di Filippo, non più notizie. Che pensava? Che contava di fare? L'aveva
abbandonata così, approfittando dello insperato intervento della madre?
Il suo amore era stato anche più vile e più rapido d'un capriccio;
Filippo aveva voluto il corpo della fanciulla, lo aveva corrotto per la
sua libidine, lo aveva foggiato a strumento di piacere; e, subito
stanco, non tentava nemmeno difendere la sua conquista. Tre anni di
finta amicizia gli avevan dato finalmente il possesso di Loredana; e
pochi giorni eran bastati a saziarlo; essa era stata il suo zimbello per
tutto quel tempo; e non aveva memorie che di Filippo, perchè tre anni
addietro era una piccoletta, che confondeva ancora il conte con le
bambole.
Come vivere, ormai? Che cosa poteva sperare? Aveva provato ogni gaudio
nel giro di brevi giorni; il suo corpo sentiva ancora la carezza lunga e
morbida, che l'aveva iniziata all'amore, dando al sangue un moto più
vivo, più gagliardo, più impetuoso; e tutto d'improvviso le era stato
tolto; e le notti insonni erano insopportabili per lo spasimo del
desiderio che le ricordava una bocca ardente, un abbraccio violento, una
preghiera e un dominio.
Ma non era possibile che Filippo fosse così repentinamente scomparso
dalla sua esistenza. Doveva tornare; sarebbe tornato domani, doman
l'altro, un altro giorno prossimo; l'avrebbe richiamata, per continuare
quel gaudio, per confondere le anime loro....
Il passo di sua madre la faceva trasalire. La mamma aveva snebbiato il
sogno, e invece dell'amore di Filippo le aveva recato il perdono. Chi
chiedeva il suo perdono? Erano felici; lassù, ai piedi delle Grotte, non
si ricordava la madre, non si ricordava il mondo; le acque del lago
erano limpide e gli amanti vi si specchiavano, e le loro voci avevano
toni d'infinita sollecitudine, e le giornate erano brevi, e le notti
erano brevi. Egli la spogliava con quelle sue mani esperte, e ogni sera
ella arrossiva, fremendo e sentendo il fremito di Filippo, che voleva
indugiare e far presto, contemplare e possedere, allontanar la coppa e
bere avidamente. Il mattino, sempre lieto, ascoltava i loro discorsi;
dovevano partire di giorno in giorno. Filippo parlava di Roma con un
entusiasmo che nessuno avrebbe mai supposto in lui; Roma tutta dorata
d'un sole giallo e abbagliante, Roma stupenda a dispetto degli uomini e
del tempo, Roma che ha visto milioni di pellegrini d'amore, sperduti e
obliati nei secoli, contenti e umili, Roma appariva anche nei sogni di
Loredana. E dovevano andarvi di giorno in giorno, ma intanto le acque
limpide del lago e la quiete del paese e il bel silenzio e le care
abitudini di giorno in giorno li trattenevano. Che importava? Vi
sarebbero giunti, più tardi; come presente e come avvenire non avevano
che il loro amore, il quale pervadeva anche tutto il passato di
Loredana; sarebbero giunti più tardi a Roma, col loro amore, grande
abbastanza per così grande teatro....
Invece di quell'arcano, di quell'intimo poema, fatto di realtà e
d'illusione, forte e inebbriante questa come quella, la vita s'era
chiusa d'un tratto. Pareva a Loredana d'essere stata colta nel sonno e
trasportata a Venezia; e nessuna di tante delizie esisteva più; non
restava che il perdono di sua madre e l'obbligo di tacere, simulando una
verginità di corpo e di mente, che aveva offerto da tempo in olocausto,
tutta vibrante di gioia, al solo uomo degno d'insignorirsene.

Poi cominciarono i pettegolezzi.
Emma De Carolis s'accorse in breve, con terrore, che tutti sapevano. Che
cosa sapevano? Ogni cosa e niente. Ma nessuno aveva creduto al soggiorno
di Loredana a San Donà; avevan fatto finta di credere per convenienza;
si era notato che a San Donà Loredana non aveva messo piede quell'anno,
e che sua madre era turbatissima, e che rifuggiva dal parlarne; e che
una notte era tornata da un paese misterioso, con la figlia, che non
pareva più quella, che alcuni dicevano malata, che altri affermavano
essersi imbruttita e che gli uomini esperti giudicavan bella, degna di
concupiscenza e già istruita per l'amore.
S'era saputo che anche quel signore, un conte, il conte Filippo Vagli,
il quale frequentava la casa da amico intimo, anch'egli era stato
assente da Venezia tutto il tempo ch'era mancata Loredana.... Come
s'era saputo? Per quella misteriosa catena di parole e di chiacchiere,
che ha talvolta il primo anello in un'alcova e l'ultimo in una bottega.
La famiglia Gianella, avuto appena sentore di qualche diceria, soffiò
sotto, perchè il giovane Adolfo non tornasse a incapricciarsi di quella
svergognata, non pensasse alle volte di sposarsi quella disperazione. Si
determinarono i fatti: Loredana era scomparsa qualche tempo per mettere
alla luce un figlio, che aveva abbandonato in campagna, presso una
contadina; il figlio era nato dalla tresca tra la ragazza ed il conte,
il quale aveva coronato l'opera abbandonando la sedotta.
E vennero fuori i testimonii improvvisati di quell'amorazzo: chi aveva
visto Filippo entrar nella casa a notte fatta e non partirsene che
all'alba; chi aveva notato che la madre lasciava gli amanti soli, chiusi
in camera, per lunghe ore; una vicina, affacciandosi alla finestra,
aveva dovuto assistere agli amplessi dei due, che si davan baci
spudoratamente; un'altra invece affermava che non appena giungeva in
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