L'amore di Loredana - 07

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casa Filippo, le finestre del salotto si chiudevano e si tiravan cortine
e tende.
Questa marea di fango saliva, saliva, a poco a poco; forse in qualche
anima di ragazza brutta o di donna volgare rodeva anche l'invidia per
l'avventura, qualunque ella fosse stata, e ciascuna, pensava che al
posto di Loredana avrebbe ceduto, ma più sapientemente, così da
provvedere anche al proprio domani; e ciascuna si rammaricava di non
aver trovato un ricco signore per amarlo, esserne amata e metter da
parte un peculio. Onde, allo sdegno per la verecondia calpestata, non
andava disgiunto in quelle donne un certo senso di commiserazione
sprezzante per l'idealismo di Loredana, che seminava figlioli senza
assicurarsi l'avvenire.
Ma quella madre! Quella madre che non aveva occhi nè orecchie, e si
lasciava sedurre in casa la figlia, e se la riprendeva poi con tanto
agio! Che pensare di quella madre, se non che ella avesse trovato il suo
tornaconto nell'affaraccio?
Una comare, la signora Opimia Incudi, un vero chiodo dalla testa piccola
sopra il corpo allungato, si presentò finalmente a Emma De Carolis, la
quale non ricordava bene dove l'avesse conosciuta; e avvisò la signora
delle voci che correvano, perchè sapesse regolarsi, perchè non si
fidasse della gente, perchè provvedesse a tutelare l'onore suo e della
figliola, perchè era tempo di metter fine a tanta cattiveria. E nel
frattempo la signora Opimia stava a guardar l'effetto delle notizie
sulla faccia di Emma, e aspettava qualche risposta che servisse a nuovi
comenti e a nuove induzioni. La faccia di Emma era pallidissima, gli
occhi le si appannavano per lo sdegno; ma mentre appunto doveva venir la
risposta, la difesa, la confessione, qualche cosa che ripagasse la
signora Incudi della sua buona opera, comparve in salotto Loredana, la
quale si fece ripetere tutta la storia.
E fu un colpo per la signora Incudi, quando la fanciulla si mise a
ridere. Anche la mamma la guardò con un senso di sollievo, perchè aveva
temuto che Loredana soffrisse acerbamente.
Loredana rideva, senza ostentazione, trovando nuova cagione d'allegria e
di risa nell'aspetto stralunato della signora, alla quale traballava la
punta del naso lunghissimo sotto l'impressione della maraviglia.
Poi, senza dir parola, Loredana uscì, lasciando che sua madre
s'indignasse per le calunnie riferite; e non fu mai così allegra come
quel giorno.
La visita della signora Incudi le aveva fatto bene, le aveva recato un
alito di vita; il susurro di quei pettegolezzi la ristorava. Non aveva
cercato di meglio; ora sapeva, ora aveva il concetto chiaro di quel che
poteva aspettarsi.
Era contenta che si mormorasse; ciò le risparmiava la commedia che sua
madre aveva ingenuamente pensato, quella commedia di verginità, che le
ripugnava. Era stata l'amante di Filippo, non aveva amato che lui ed era
ancora sua.... Doveva fingere per la signora Incudi e per le sue amiche,
doveva far loro intendere la nobiltà del suo sentimento, se quelle
femmine per poco non l'accusavano di avere ucciso un figlio?
Ormai, al confronto di tutto ciò che si narrava, esser l'amante di
Filippo sembrava quasi una virtù; e lieta di quella strana liberazione
dalle paure del mondo, che la malignità del mondo le offriva, Loredana
sentì crescere il coraggio per sostener meglio lo sguardo di sua madre,
per attendere ciò ch'ella sperava in segreto ostinatamente, per vivere
della sua vita, senza curarsi del giudizio altrui. La collana d'oro a
maglie piccoline con la medaglia era diventata un talismano, e la
fanciulla aspettava, credeva, perchè la medaglietta diceva: «Sempre» e
recava una data, che Filippo non doveva dimenticare.
Si rimise a vivere; andò a trovar qualche amica, la quale non pareva
saper nulla, ma non domandava nulla intorno a quanto aveva fatto
Loredana in quell'ultimo tempo; uscì a passeggio, e perfino un giorno,
un giorno dal sole furioso, le salì alle labbra un motivo che non le
piaceva e che pur l'inteneriva, e si provò a cantare, e tacque subito,
perchè quell'aria le rammentava la cameretta cara di Sirmione e la
povera signora Teobaldi, tanto maltrattata in principio, che si girava
sullo sgabello di reps rosso, e diceva, aspettando un elogio:
--Eh?


XVIII.

Poi, d'un tratto, Loredana si rintanò in casa di nuovo, come impaurita,
e non volle più uscirne.
Aveva incontrato Adolfo Gianella per istrada e s'era rifugiata in un
negozio a comprar bottoni e nastri; ma non così presto che Adolfo non
avesse potuto vederla, sentire il sangue avvampargli la faccia e il
cuore martellargli in petto.
Gli avevano tanto e tanto parlato di Loredana, delle sue colpe, dei suoi
amori, della sua perfidia, che mentre egli lavorava a tutt'uomo per
dimenticarla, essa gli tornava alla mente con acre persistenza; e la
fantasia s'infervorava a seguirla nel turbine della nuova vita, tra i
divertimenti che il seduttore prodigava certo intorno a lei, per
ubbriacarla di gioia e avvincerla a sè tenacemente.
Poi Adolfo apprese la notizia del suo ritorno, e ne fu percosso come da
un gran colpo; il ritorno scombuiava tutte le visioni fantastiche. Era
un pentimento? Era una sconfitta? Era una sosta? E i pettegolezzi
incalzavano; il conte l'aveva abbandonata, l'aveva gettata da banda,
come un cencio. Tornava povera come prima, e non era più come prima....
Adolfo imaginò la disperazione di colei ch'egli chiamava un giorno sua
fidanzata; e s'alternava nel suo animo il piacere della vendetta
insperata con la vergogna per quel piacere; e, quando meno se
l'aspettava, s'imbattè in lei, e sentì il cuore martellargli in petto e
il sangue avvampargli la faccia.
Allungò il passo, non sapendo egli medesimo che volesse fare, spinto dal
bisogno di leggere la verità su quel viso, di rintracciare dentro gli
occhi della ragazza la parola suprema dell'enigma; ma Loredana, al
vederlo, si gettava nel primo negozio che le si parava innanzi, e Adolfo
non osava aspettarla all'uscita.
Di quell'incontro egli non soffiò verbo ad alcuno; in casa Gianella, del
resto, dopo un uragano di romanzesche calunnie e di drammatiche
imprecazioni, il nome di Loredana non si pronunziava più; la madre di
Adolfo per poco non spingeva l'ostentato disdegno per la perduta fino a
vestir di gramaglia, come si usa nelle case principesche.
Ma la visione della ragazza bruciava dentro, nel cuore di Adolfo; ed
egli cominciò a gironzare intorno alla casetta bianca, a guardar le
finestre, ad aspettare. E tremava e sperava di rivederla, perchè tutte
quelle avventure, vere o false, gliel'avevano ingigantita nel pensiero,
ed egli temeva di subirne il fascino, come se Loredana avesse compiuto
qualche grande impresa della quale nessuno l'avrebbe detta capace.
In quell'andirivieni intorno alla casa di Loredana avvenne ad Adolfo
d'imbattersi e una e due e dieci volte in una signora, che si poteva
credere lo canzonasse, perchè anch'essa gironzava di frequente nei
dintorni, anch'essa guardava le finestre; anzi, fu più spiccia del
giovane, perchè entrò in dimestichezza con Rosa, la serva della De
Carolis, la quale pareva zelantissima nel recarle notizie. Si trovavano,
la signora e Rosa, in una calle vicina, all'ombra d'un sottoportico, e
generalmente la signora consegnava a Rosa una lettera, alla quale Rosa
portava la risposta l'indomani.
Adolfo non riusciva a capir nulla in tutto quell'armeggiare; la
sconosciuta era assai ridicola, con un certo cappello alla cacciatora,
che le stava appena sul cocuzzolo e ch'era ornato d'una penna di
fagiano, ardita come una sfida al cielo; ma c'era di peggio: la signora
guardava Adolfo con occhiatacce mezzo beffarde e mezzo compassionevoli,
le quali avrebbero fatto perder la pazienza a chiunque non avesse avuto
un demonio più sarcastico e più fiero nel cervello.
E fu appunto per le stratte di quel demonio, che non voleva star queto e
che aveva tutta l'andatura d'una passione irragionevole, fu appunto in
un impeto di dubbio, di gelosia, di paura e d'amore, che Adolfo Gianella
varcò la soglia della casetta, e su a corsa per le scale, dietro Rosa
che, rientrando, non gli aveva badato.
In anticamera, Adolfo si fermò. Gli giunse, netta e squillante, la voce
di Loredana, la quale doveva essere nel salottino; e la fanciulla
cantava a distesa, con pieno abbandono, come se tutta la bella gaiezza
veneziana, come se tutta l'audacia della giovinezza avessero ripreso il
loro dominio. E tra l'una e l'altra strofe del canto s'udiva il rumor
delle forbici posate sul tavolino da lavoro o il passo svelto della
ragazza, che si muoveva per la camera.
Senza discutere con se stesso, Adolfo spinse la porta, e si trovò alla
presenza di Loredana, la quale stava adattando un pezzo di seta gialla a
una certa forma di ferro ch'era un paralume da candela; innanzi a sè la
fanciulla aveva altri pezzi di stoffa a colori e diversi gomitoli di
seta; ed era così assorta nel lavoro e nella canzone, che il giovane
dovette chiamarla:
--Loredana!
Ella alzò il capo, e trattenne a stento un grido; ma Adolfo aveva già
detto ogni cosa, e non sapeva come continuare, come esprimersi, come
riprendere d'un subito le abitudini di padronanza.
Sprofondò le mani nelle tasche della giacca, e disse:
--Sei stata l'amante del conte, non è vero? Così, ti preparavi a
sposarmi? E non hai vergogna?
Loredana mandò un lampo dagli occhi. Aggredita di fronte, non esitò un
attimo a rispondere:
--Io mi preparava a sposar lei? Non mi è mai venuta per la mente un'idea
così malinconica, sa? Era la sua famiglia, che mi seccava tutti i giorni
per ottenere questo sacrificio. Io non pensava a sposare nessuno....
--Già, volevi conservarti per il conte,--osservò Adolfo con ironia.--Ti
sei conservata benissimo, non c'è che dire!
La ragazza arrotondò con le forbici una certa lingua, di seta violetta,
che doveva ricadere sul paralume a uno dei quattro angoli; misurò
l'altezza, adattò, provò, cambiò, tranquillamente, senza occuparsi del
giovane, fremente nell'attesa di una discolpa.
--Non so,--disse poi,--come ha potuto venire fino in casa; ma se per la
stessa strada se ne andasse, non mi dispiacerebbe.
--Mi metti alla porta?--esclamò Adolfo.--Invece di scolparti, invece di
giurarmi che col conte non c'è stato nulla di nulla, tu mi metti alla
porta?
--Scusi, perchè dovrei scolparmi? Che cosa rappresenta, lei? Chi è,
lei? Che diritto ha lei di giudicarmi?
A queste parole di Loredana, Adolfo si lasciò calare in una poltrona,
come annichilito. Chi era, che cosa rappresentava, che diritto aveva?
--Io,--mormorò,--sono pronto a sposarti.
Loredana si mise a ridere.
--Ma non sono pronta io, vede?--rispose, arrotondando un'altra lingua di
seta violetta.--E, del resto, la sua dichiarazione mi stupisce: mi crede
o non mi crede l'amante di Filippo.... del conte?
Adolfo si strinse nelle spalle.
--Me l'hanno detto,--mormorò.--Me l'han detto a casa, che tu sei stata
col conte fuori di Venezia.
--E tuttavia mi sposerebbe?--incalzò Loredana.
--Ma perchè non ti difendi?--gridò Adolfo balzando in piedi.--Perchè non
mi dici se sei stata o non sei stata l'amante di colui?...
Egli era avanti al tavolino da lavoro, con le mani aperte e stese
dirette al volto di Loredana, la quale lo guardava, piuttosto attonita
che intimorita.
--Vede,--ella rispose pacatamente,--innanzi tutto non basta dire a una
donna: «Son pronto a sposarti» per acquistare il diritto di indagarne la
vita; poi, io m'ingannerò, ma lei mi sembra disposto a sposarmi in tutti
e due i casi, che io sia stata, o che io non sia stata l'amante di
Filippo.... del conte. E allora, a che pro una discolpa o una
confessione?...
Adolfo, il quale era rimasto, ancora con le mani aperte e stese, ad
ascoltar la risposta della colpevole, si sentì vinto, e si lasciò calar
di nuovo nella poltrona. Egli ritrovava, immutati, l'anima sdegnosa, la
sensibilità intellettuale, l'intelligenza acuta, la rapida intuizione,
l'orgoglio, il coraggio, che facevano la ragazza tanto superiore a lui.
Egli era andato arrovellandosi per sapere che cosa volesse, che cosa
intendesse fare, e se lo sentiva dir dalla bocca di Loredana, e doveva
riconoscere che quella bocca diceva giusto....
--Non so,--egli riprese, tanto per riattaccare il discorso.--Non so
nulla. Ti hanno accusata anche d'aver avuto un figlio e di essertene
sbarazzata.
Lo forbici, che stavan nella mano della fanciulla, descrissero uno
stretto arco nell'aria, e andarono a cadere ai piedi di Adolfo. Il viso
di Loredana avvampò di collera, e le labbra le tremarono.
--Mi hanno detto, ti hanno accusata!--ella ripetè, imitando il tono
piagnucoloso del giovane; poi esclamò con forza:--E lei, che cosa
faceva, che cosa diceva, che cosa raccontava? Stava ad udire, soltanto?
Non son tre mesi, lei veniva per casa tutti i giorni e sapeva della mia
vita ogni cura, minuto per minuto; e non ha trovato un argomento per
difendermi, come amico, come fidanzato? Bel rispetto avevan di lei
quanti venivano a dirle quei complimenti!... E vuole ch'io mi difenda
innanzi a un pupazzo del suo genere, e che tremi davanti a un giudice
della sua levatura? Non capisce d'essere stupido? Se in casa sua si
sparlava della ragazza che doveva un giorno portare il suo nome, lei
aveva l'obbligo di farla rispettare, mi sembra! Invece, porta qua tutto
il rifiuto dei pettegolezzi, pretende ch'io lo ascolti e vuole sapere
anche se, caso mai, avessi avuto un figlio! Non s'avvede, non sente di
essere ridicolo?...
--No, ascolta,--interruppe Adolfo, alzando la destra quasi a frenare
quel torrente.--Io non voglio sapere nulla....
Ed era, per seguitare, quando la porta s'aperse e comparve la signora
Emma, seguita da Clarice Teobaldi, col cappellino alla cacciatora.
--Ah, è lei!--disse Emma, vedendo Adolfo, che s'era levato in piedi.--Mi
era parso di riconoscere la voce....
Non aggiunse parola per lui; poi si rivolse a Loredana:
--Lori, questa signora dice che tu l'aspettavi....
La fanciulla andò incontro a Clarice e le strinse la mano sorridendo,
mentre Adolfo, combattuto tra il desiderio di capire, la convenienza
d'andarsene, l'impressione per la gelida accoglienza fattagli dalla
signora De Carolis, restava in piedi a guardare or l'una or l'altra
delle tre donne.
--Se m'aspettava!--esclamò Clarice, gettando le braccia al collo di
Loredana.--Doveva aspettarmi, questo tesoro, perchè da tanto tempo
desideravo rivederla! Ho sempre nel cuore quella partenza, di sera, con
la carrozzella.... Lei era così bianca, così debole....
Soggiunse, guardando Emma:
--Già, erano bianche e deboli tutt'e due, madre e figlia....
Loredana disse presto:
--Le presento il signor Adolfo Gianella.
Clarice fece un cenno con la testa, verso Adolfo che s'era avanzato di
qualche passo; poi tutti tacquero; Clarice e Loredana sedettero l'una a
fianco dell'altra sul divano, come intime amiche, sorridendosi.
--Fa molto caldo a Venezia,--riprese Clarice.--A Verona non abbiamo
questo scirocco....
--Sì, fa molto caldo,--confermò Emma, la quale stava sempre a un passo
dalla porta, e si augurava che l'uno o l'altra, Adolfo o Clarice,
comprendesse la necessità di ritirarsi.
Ma erano ostinati ambedue. Adolfo, ormai, aveva ripreso posto nella
poltrona, e sembrava deciso a voler seguire la conversazione.
--A Venezia abbiamo poi le zanzare,--egli disse.
--Le zanzare, sì, ma ci sono le zanzariere,--osservò Loredana.
E tacquero di nuovo.
Emma si sentiva morire per quella commedia, maravigliandosi che la sua
Lori vi prendesse parte. La buona donna, al ritorno da Sirmione, aveva
perduto l'energia e la volontà, soffrendo per la sofferenza della
figlia, chiedendosi se il suo intervento non fosse stato inutile di
fronte al traboccar della maldicenza, tormentandosi ogni giorno per
mille timori, studiando ansiosamente negli occhi di Loredana il pensiero
segreto, la segreta ambascia, e rideva quando rideva la sua Lori, e
piangeva quando la sua Lori piangeva, e ormai non avrebbe più discusso,
non avrebbe più riflettuto, pur di vederla felice, a qualunque costo.
Per ciò, la visita della Teobaldi le era gradita, perchè sembrava
gradita a Loredana; ma non le piaceva che si dovesse fingere innanzi al
Gianella, come se la Teobaldi fosse venuta per tramar qualche intrigo.
--Lei non è di Venezia?--domandò Adolfo a Clarice.
--No; ma conosco bene la città,--rispose l'altra.
Un silenzio pesante ricadde; e allora, comprendendo ch'era impossibile
uscirne, Adolfo prese congedo.
--Tornerò, se permette,--disse a Loredana.
Questa non rispose. Egli s'avviò, seguito da Emma, la quale ardeva di
sbarazzarsi dell'impaccio per lavorar nella sua camera ad una coperta da
letto, nella quale doveva ancora ricamare trenta foglioline in seta
verde e sessanta viole del pensiero.


XIX.

Dal giorno in cui era tornato a Venezia, Filippo aveva passato molte
brutte ore.
L'onda del pettegolezzo aveva varcato anche la soglia della sua casa, e
le chiacchiere s'eran fatte più strambe e più inverosimili. All'orecchio
della contessa Bianca giunse la voce che Filippo aveva avuto un figlio
dalla sua amante, e perchè la contessa non sapeva a qual tempo
risalissero quegli amori, e perchè si parlava di tre anni addietro, ella
credeva a quel legame, ormai indissolubile, a quella paternità
inconfessata.
La contessa Bianca andava da tempo accarezzando l'idea d'un matrimonio
tra suo figlio e Giselda Fioresi, buona e bella ragazza, di eccellente
casata; e la notizia le rompeva il sogno e la sbalestrava in un mare
d'incertezze e di dubbii.
Fu necessario spiegarsi, riparlar di Loredana, discutere un amore che la
vecchia dama avrebbe voluto obliare. Avvenne una scena brusca tra lei e
Filippo, il quale negò l'esistenza di un figliuolo, ma s'impennò
all'idea di sposar quella «canna da zucchero» di Giselda Fioresi. Egli
voleva esser libero; per dare scandalo, diceva la contessa Bianca;
perchè era ancor troppo giovane, diceva lui.
Un'altra scena, più breve ma più cruda nella forma, avvenne poco di poi
tra Filippo e il cognato, conte Leopoldo de Idris, il quale viveva senza
passioni e senza turbamenti una vita di piaceri semplici, in campagna,
amministrando i suoi poderi, interessandosi all'agricoltura e alla
politica modesta della provincia. Leopoldo si stupì che Filippo si
perdesse ancora dietro una _cocotte_, ma fu addirittura spaventato
quando seppe dalla bocca di Filippo medesimo che non si trattava d'una
_cocotte_, bensì d'una ragazza, la quale doveva aver dunque delle
pretensioni, una specie d'onore, molto da perdere e più ancora da
guadagnare. Fu spaventato per Filippo, che certo non avrebbe saputo
cavarsela con garbo, senza troppo danno da ambo le parti.
E qui Filippo sentì scappar la pazienza.
--Ma che cavarsela! Ma che garbo!--egli esclamò.--Le voglio bene sul
serio, e non penso affatto a cavarmela. Ho fatto male a cominciare,
siamo d'accordo, benchè in queste cose ci si accorga sempre troppo tardi
dell'errore commesso; ma farei peggio a finirla con qualche gherminella!
Il conte Leopoldo, ancora più inquieto per quelle dichiarazioni, domandò
a Filippo se pensasse mai di tirarsela in casa....
--In casa, di chi?--rispose Filippo.--In casa tua, no di certo; tocca a
me provvedere, e non so perchè, dunque, voi tutti vi disturbiate.
Leopoldo, allora, tornò alle idee generali, osservando che all'età di
Filippo si doveva vivere quieti, pensare a far figliuoli legittimi, che
continuassero la casa e allietassero la bella vecchiaia della contessa
Bianca, la quale non meritava d'essere travagliata nei suoi ultimi anni.
L'argomento era di quelli che trovano la strada del cuore; e Filippo,
sentendosi toccato, s'infastidì, rispose a Leopoldo ch'era stufo di
dover rendere conto a tutti delle più minute cose della sua vita come un
collegiale, che desiderava ormai vivere libero, senza tutela e senza
giudici.
E su quel «vivere libero» si scatenò una gragnuola di osservazioni da
parte di Leopoldo, il quale temeva che libero per Filippo fosse sinonimo
di libertino; e, presa ormai la corsa, rammentò altre avventure del
cognato, che avevan fatto chiasso, col risultato finale di voltargli
contro l'opinione pubblica.
Ma peggio fu, quando Filippo si vide comparire lo zio conte Roberto, del
quale non aveva più avuto novella dopo l'incontro a Desenzano. Roberto
gli snocciolò un discorso assai lungo e reciso, che Filippo ascoltò
sbalordito, perchè aveva creduto di trovare nello zio il compatimento
ch'era la caratteristica più nota della sua buona indole, quel
compatimento che Roberto non lesinava a nessuno per nessuna colpa, la
quale non fosse ignobile e vile.
Roberto, invece, dichiarò al nipote che la condotta di lui era assurda,
per non dir peggio; Filippo aveva messo lo scompiglio nel parentado, in
causa d'una ragazzetta, d'una monella, e tutti erano addosso allo zio,
come al più vecchio, perchè si valesse della sua autorità a far cessare
quella tresca.
Filippo capì; lo zio era sdegnato, perchè seccavano lui e mettevano in
giuoco il suo prestigio; lo avevan toccato nel suo egoismo senile, ed
egli era pronto a mandare al diavolo il nipote e la «monella», pur di
non avere più noie.
--Del resto,--osservò il conte Roberto,--mi maraviglio di dover dirtele
io, certe cose. Non ha una madre, un padre, quella tua bambola? E come
si spiega che stiano zitti, e che tocchi a noi, a tua madre, a tuo zio,
a Leopoldo, a tua sorella, di richiamarti al dovere?
--Ha una madre,--rispose Filippo.--Ha una madre, e la madre è venuta a
Sirmione e me l'ha ripresa....
--Bene!--esclamò Roberto.
--Sì, benone; ma, ora io la riprendo alla madre!--dichiarò Filippo, che,
torturato ed esasperato da tante chiacchiere, si sentiva capace di
strappar Loredana anche agli artigli di quel diavolo, al quale Roberto
l'avrebbe consegnata.
Il vecchio, stupefatto per tale sfacciataggine, gridò che rinunciava a
discutere con un matto di quella forza. L'ostinazione di Filippo
oltrepassava il credibile; tutto gli andava a seconda, grazie a una
madre dabbene, che si riprendeva la figliuola dopo quel po' po' di
scappuccio; ed egli invece era per ricominciar la festa e per condurla a
termine, a un termine che non doveva e non poteva aver nulla
d'invidiabile.
--Come devo dirtela?--seguitò il conte Roberto.--È uno scandalo; te lo
hanno già cantato in musica; io non ho nulla da aggiungere. Tutti ne
parlano; anche l'altro giorno, a Tai di Cadore, da Fausta Montegalda ho
udito i particolari di questa farsa, e puoi imaginarti che gusto provavo
io! La contessa dice che ti rovini, e non si può darle torto.
Filippo sorrise.
--Eh, ridi, ridi fin che vuoi, ma la Montegalda dice giusto!--esclamò
Roberto.--Dice che, alla fin fine, nessuno sa chi sia quella tua
pupattola, e che potrebbe aver fatto con altri quel che ha fatto con
te.... Chi ne sa niente, chi la conosce!
--Povero zio Roberto!--mormorò Filippo.--Va da una donna a chiedere
informazioni di questo genere! Perchè non domandi il suo parere anche
alla Fioresi, che mi vogliono appioppar come moglie?
Roberto alzò le spalle.
--Insomma,--concluse,--io sono indignato per i tuoi vizii, e la cosa non
va.
--Non ti ho indignato io,--osservò Filippo.
--Ma non dimenticherò che hai sorriso dei miei consigli!--rimbeccò il
conte.
--Ho sorriso per le critiche della Montegalda.
--E per le mie; e non si deve ridere d'un vecchio.
--Per la Montegalda, per la Montegalda!--gridò Filippo.
--Già, e intanto ti ripigli la sbarazzina!
--Ciò non ti riguarda, zio.
--Ne riparleremo!
--Spero di no; vedo che più che se ne parla e meno ci si capisce.
--Ne riparleremo, ne riparleremo!--si ostinò il conte Roberto.--Perchè
io sono sempre dell'opinione che l'uomo non è monogamo. Tu non vuoi
prendere moglie per essere libero; ma allora, nè mogli nè amanti! Questa
è logica. E hai deciso che cosa te ne farai?
Alla domanda inaspettata, Filippo non diede risposta; onde Roberto
seguitò:
--Te lo dirò io: ne farai una mantenuta, da coprir di gioielli e da
condurre a teatro e in carrozza; ti costerà ventimila lire l'anno, ti
peserà come una moglie e ti sarà infedele.
--Perbacco, zio,--esclamò Filippo con aria beffarda.--Vedo che te ne
intendi!
Roberto s'indispettì.
--Spero che non ce la metterai sotto il naso, come a Desenzano, la tua
conquista!--osservò con rude cipiglio.
E credendo d'aver rimbeccato fieramente l'insolenza del nipote, troncò
il colloquio e andò a riferirne alla cognata contessa Bianca.
Tali e simili furono i discorsi che Filippo dovette ascoltare in quel
tempo nel quale, tornato da Sirmione, non osando più ripresentarsi in
casa De Carolis, andava torturandosi il cervello per trovare un
espediente che lo riavvicinasse all'amante. E tra il desiderio che,
insaziato, si faceva di giorno in giorno più molesto, tra la logomachia
di casa e gli sdegni di tutta la parentela, Filippo conduceva una vita
piena di tristezza, che non aveva riscontro negli anni precedenti.
Rimaneva a Venezia, schivando gli inviti, passando mezza giornata al
Circolo dell'Unione, dove mancavan gli assidui, e l'altra mezza in
casa, dove s'occupava lunghe ore a leggere libri e riviste su tutti gli
argomenti; la sera usciva in gondola pel Canalazzo o pel canale della
Giudecca, lontano dai rumori e dalla luce.
Ma il pensiero di Loredana lo seguiva passo per passo, ora per ora,
senza tregua, fatto più vivo dagli episodii di quella battaglia che la
fanciulla gli aveva inconsciamente scatenato contro; Filippo non
ricordava nulla di simile in tutta la sua vita, quantunque più volte si
fosse parlato delle sue avventure. Ma perchè si era trattato sempre di
donne conosciute tra i gaudenti o saldamente legate ad altri, i suoi di
casa s'eran guardati dall'occuparsene e dal fargliene parola.
Un giorno gli fu annunziata la signora Clarice Teobaldi.
Da Sirmione, poco dopo la partenza del conte, ella era tornata a Verona,
e qui era rimasta, aspettando che passasse tempo sufficiente per poter
ricordare l'invito di Filippo e recarsi a Venezia.
Piero, il valletto di Filippo, precedeva la signora, la quale, come
aveva sognato, saliva veramente lo scalone marmoreo del palazzo Vagli,
giungeva al primo piano, traversava una fuga di sale immerse nella
penombra, dentro la quale si vedevano i mobili dorati, le pallide
tappezzerie antiche, gli oggetti d'arte; e di nuovo saliva una scala
meno larga e più breve, ed era finalmente introdotta nello studio di
Filippo.
La Teobaldi guardò avidamente, nel tempo dell'attesa, le carte sparse
sulla scrivania, semplici fogli da lettera, senza cifra e senza stemma;
e guardò le pareti, dalle quali pendevano quadri antichi in vecchie
cornici. Si vedeva, in uno, una donna--Venere doveva essere, tutta nuda,
o Danae--sdraiata sopra un largo divano, e una ancella, con rapido atto
sembrava voler coprire d'un manto porpureo che aveva tra le mani, la
superba nudità della sua signora, perchè di tra le pieghe d'un pesante
cortinaggio, sullo sfondo, apparivan la testa e il busto d'un importuno,
che poteva essere Marte, desideroso ma accigliato per la prudenza
dell'ancella.
La Teobaldi si stupì che quella fosse Venere, perchè non aveva, ai suoi
occhi, nulla di particolare; era una femmina nuda, nè meglio nè peggio
di tante altre. E anche non le piaceva quella tinta scura, quasi nera,
che il quadro aveva preso qua e là, a danno dei colori.... La fotografia
d'una bella dama moderna in abito scollato le sarebbe andata a genio,
assai più di quel preteso tesoro d'arte.
Ma non ebbe tempo di seguitar nelle sue critiche, perchè Filippo
sopraggiunse, e si dimostrò lietissimo della visita. Fece sedere la
Teobaldi, la interrogò cortesemente per sapere quanto intendesse
fermarsi a Venezia, esprimendo la speranza che si fermasse a lungo; e di
chiacchiera in chiacchiera, mentre Piero recava un tè squisito in un
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