La vita intima e la vita nomade in Oriente - 04

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assolutamente divertirmi facendomi passare nel modo più gradevole
che fosse possibile il tempo del mio soggiorno forzato nella città
di Angora. Si erano accorti che la visita al convento aveva avuto un
successo mediocre: immaginarono dunque qualcos'altro, e una bella
mattina che, sdraiata sul mio sofà, mi sforzavo invano di scuotere
il torpore e l'emicrania prodotti dal fumo di carbone della stufa di
ghisa che infestava la mia camera chiusa, vidi entrare un vecchietto
col mantello bianco, la barba grigia, un berretto appuntito di feltro
grigio circondato da un turbante verde. Il suo occhio era vivace e la
sua fisionomia benevola quanto ingenua. Questo vecchio si annunciava
come il capo di certi dervisci autori di miracoli che il gran mufti mi
mandava perchè potessi assistere alle loro operazioni. Mi profusi in
ringraziamenti dicendomi pronta ad assistere allo spettacolo che mi si
offriva. Il vecchietto allora socchiuse la porta e, fatto un segnale,
ricomparve subito con un seguito di discepoli.
Erano otto e di certo se li avessi incontrati durante il mio viaggio
al limitare di un bosco non mi sarei rallegrata di vederli apparire.
I loro abiti in brandelli, le loro lunghe barbe irsute, i visi
pallidi, le figure emaciate, un non so che di feroce e di stralunato
che balenava nei loro occhi, costituivano un contrasto impressionante
col viso rotondo e fresco del loro capo, che aveva una fisionomia
aperta, sorridente ed era vestito con qualche pretesa. All'entrata i
discepoli si prosternarono davanti al loro capo, gli fecero un saluto
d'etichetta e si sedettero ad una certa distanza aspettando gli ordini
del vecchietto che, dal canto suo, attendeva i miei comandi. Provavo
un certo imbarazzo che sarebbe stato assai più penoso, se la seduta che
si annunciava fosse stata da me richiesta. Per fortuna io non ne aveva
nessuna responsabilità, pensiero che mi rimetteva un poco in sesto:
con tutto ciò io non osava far segno che si cominciasse... non sapevo
neppur cosa. Mi aspettavo una scena d'impostura grossolana che sarei
stata costretta a lodare per cortesia e che avrei dovuto fingere di
prendere seriamente, non fosse che per educazione. Il mio amor proprio
non era in gioco, ma temevo di non saper bene recitare la mia parte e
del resto, lo confesso, la mia coscienza di persona incivilita stava
alquanto in allarme.
Feci servire il caffè per guadagnar tempo, ma solo il capo accettò; i
discepoli si scusarono, allegando la gravità delle prove che dovevano
superare. Io li guardavo; erano serii e impassibili come uomini che
aspettassero la visita di un ospite, anzi di un padrone venerato.
Dopo un breve silenzio, il vecchietto mi domandò se i suoi figlioli
potessero cominciare; ed io risposi che non dipendeva che da essi,
risposta che fu interpretata come un incoraggiamento, sicchè il
vecchio fece un segno ed uno dei dervisci si alzò. Anzitutto andò ad
inginocchiarsi dinanzi al capo e baciò la terra; il capo gl'impose le
mani in atto di benedirlo e gli disse a voce bassa alcune parole che
non afferrai. Alzatosi il derviscio lasciò cadere il suo mantello,
la sua pelliccia di pelo di capra, tolse di mano ad uno de' suoi
confratelli un lungo pugnale che aveva l'impugnatura guernita di
campanelli e si pose in piedi nel mezzo della stanza. Da principio
era calmo e raccolto, ma gradatamente si animava sotto l'azione di una
forza interna: il suo petto si sollevava, gli si gonfiavano le narici
e roteava gli occhi nelle orbite con una velocità straordinaria. La
trasformazione era accompagnata e certamente agevolata dalla musica e
dai canti degli altri dervisci che, avendo preso le mosse dal monotono
recitativo, trascorsero tosto a grida, ad urli in cadenza, seguendo un
certo ritmo misurato dai colpi regolari ed affrettati di un tamburino.
Quando la febbre musicale raggiunse il suo parossismo il primo
derviscio prese ad alzare e ad abbassare successivamente il braccio che
stringeva il pugnale senza sembrare d'aver coscienza de' suoi movimenti
e quasi obbedisse ad una forza estranea. Un brivido convulso percorreva
tutte le sue membra; egli univa la sua voce a quella de' suoi
confratelli, ma presto li ridusse all'umile ufficio di accompagnatori,
tanto le loro grida erano soverchiate e dominate dalle sue. Il ballo
s'aggiunse alla musica ed il protagonista eseguì salti così prodigiosi,
pur seguitando ad inneggiare come un energumeno, che il suo torso nudo
era madido di sudore.
Era il momento dell'ispirazione. Il derviscio protese il braccio,
brandendo il pugnale che aveva sempre nelle mani, facendone risuonare
i campanelli alla menoma scossa, poi d'un tratto ripiegò con forza il
braccio, infisse il ferro nella guancia fino a farne escire la punta
nell'interno della bocca. Il sangue sgorgava dalle due aperture della
piaga e non potei trattenere un gesto per far cessare quell'orribile
scena. «La signora vuol vedere più da vicino» disse allora il vecchio
che non mi perdeva di vista. Fece avvicinare il paziente e, per farmi
constatare che la punta del pugnale aveva realmente traversato le
carni, non fu soddisfatto finchè non mi ebbe costretta a toccare col
dito quella punta.
— Siete convinta che la ferita di quest'uomo è reale? — soggiunse il
vecchio.
— Non ne dubito menomamente — risposi con ogni premura.
— Basta figliol mio — riprese egli allora indirizzandosi al derviscio
che era rimasto durante l'esame colla bocca aperta piena di sangue e
col ferro nella piaga, — andate a guarirvi.
Il derviscio inchinatosi tolse il ferro dalla piaga, s'accostò a uno
de' suoi colleghi e inginocchiatoglisi dinanzi gli offerse la guancia
perchè gliela lavasse di fuori e di dentro colla propria saliva.
L'operazione non si prolungò più di qualche secondo, ma, quando il
ferito si rialzò e si volse verso di noi, ogni traccia di ferita era
scomparsa.
Un altro derviscio, colla medesima messa in scena, si inferse una
ferita al braccio, che collo stesso metodo fu medicata e guarita. Un
terzo mi riempì di spavento: era armato di una grande sciabola ricurva
che prese colle due mani per le due estremità e dopo essersi applicata
la lama dal lato concavo sopra il ventre ve la fece penetrare con un
leggero movimento bilanciato. Tosto una linea porporina si disegnò
sulla pelle lucida e bruna, ed io supplicai il vecchio di non spinger
più oltre quelle prove. Egli sorrise e mi assicurò che non avevo ancor
visto nulla, che quello non era che un prologo, e che i suoi figli si
tagliavano impunemente tutte le membra ed occorrendo anche la testa,
senza che ne derivasse loro il menomo inconveniente. Io credo ch'egli
era stato contento di me, e mi riteneva degna di apprezzare i loro
miracoli, ma ne ero mediocremente soddisfatta.
Fatto sta che io rimaneva meditabonda ed imbarazzata. Di che si
trattava? I miei occhi avevano ben veduto? Non avevo toccato colle mie
mani? Il sangue non aveva forse sprizzato? Avevo un bel rammentarmi
i giochi dei nostri più celebri prestidigitatori, non ritrovavo ne'
miei ricordi nulla che potesse avvicinarsi a quello che avevo visto
testè. Avevo dinnanzi uomini ignoranti e della massima semplicità,
come semplicissimi erano gli atti loro che non lasciavano alcun campo
all'artificio. Non pretendo d'aver assistito ad un miracolo, narro
fedelmente una scena che da parte mia non saprei spiegare.
Ero molto commossa, lo confesso, e l'indomani ascoltai senza sorridere
il racconto di altri fatti meravigliosi di cui mi parlò il dottor
Petranchi stabilito da molti anni ad Angora con funzioni di Agente
Consolare inglese. Il signor Petranchi crede che questi dervisci
possiedano secreti naturali, o per dir meglio soprannaturali, coi quali
compiono prodigi simili a quelli degli antichi sacerdoti egiziani. Non
enuncio la mia opinione; mi contento di non averne alcuna, è l'unico
modo di non sbagliarsi in certi casi.
Giunse finalmente il giorno fissato per la mia partenza da Angora.
Durante il mio soggiorno in quella città ero stata piuttosto ammalata e
quando mi ritrovai sul mio cavallo non in piena campagna, ma in pieno
deserto (come è l'intervallo che separa qui le grandi città), esposta
a tutte le brine, senz'altra difesa che le mie pelliccie, senz'altro
riparo che un misero tetto e alla peggio la mia tenda, mi sentii
stringere il cuore in segreto. Occorre maggior forza d'animo di quanto
si potrebbe credere a prima vista per intraprendere simili viaggi.
Non è la fatica che spaventa, giacchè non si cammina più di sette od
otto ore al giorno, al passo od ambando, su dei cavalli facilissimi;
i pericoli sono piuttosto immaginari che reali, le privazioni
tollerabili, perchè, oltre le provviste che il viaggiatore reca con sè,
può esser quasi sicuro di trovare ovunque galline, ova, burro, riso,
orzo, miele, caffè e dei materassi. Ma quando ci si pone a riflettere
che non sarebbe possibile procurarsi altro, che quand'anche le forze
venisser meno, dopo sei ore di marcia, bisognerà nondimeno terminare
la tappa, che la malattia ci troverà senza risorse, che la strada si
svolgerà senza rifugio e che la neve e l'uragano possono sorprenderci
nel corso della marcia, una specie di debolezza angosciosa ci assale
involontariamente, sentimento che occorre respingere, perchè guai al
viaggiatore che vi indulgesse!

CESAREA E LE CITTÀ DEL TAURO
Mi si permetta di mutare ancor qui di colpo la scena. Avendo lasciato
la Galazia per venire in Cappadocia, siamo fra le popolazioni
turcomane. Da quattro giorni abbiamo lasciato Angora alle spalle.
Dobbiamo raggiungere la città di Adana, traversando Kirsceir, Cesarea e
qualche altra località notevole per i suoi ricordi o per l'importanza
che ha tuttora. Uno degli incidenti caratteristici di questo viaggio
si svolse nel villaggio chiamato Cuprin. Io dovevo cambiare la scorta
in quel villaggio e vi ebbi campo di adempiere all'ufficio di medico
presso una giovinetta malata da un anno, e che suo padre, superando
la propria avversione pei Cristiani, mi aveva pregato di visitare. I
miei compagni di viaggio si erano allontanati quando vidi apparire la
giovane accompagnata dalla madre. Era una magnifica creatura alta e
di proporzioni grandi, ma perfette: un bel viso ovale, occhi tagliati
a mandorla e di un nero vellutato, un naso piuttosto aquilino che
greco, un colorito che doveva esser stato stupendo e che risplendeva
tuttora, ma ormai di quell'ardore malsano che la febbre sostituisce
alla freschezza. Questa bella giovane aveva l'aria profondamente triste
ed era impossibile di guardarla senza prendervi interesse. Sua madre,
ancor bella dello stesso genere di bellezza della figliola, sembrava
molto inquieta ed afflitta dello stato dell'ammalata, e quelle due
donne si rivolgevano a me, manifestandomi una benevola fiducia che
contrastava col riserbo arcigno del padrone di casa.
Non faticai a convincermi che la giovine soffriva di malattia di cuore
e, sebbene rifugga dalle ipotesi romantiche, fui presa dal sospetto
che la malattia avesse cause morali. I privilegi del medico sono
quasi illimitati in questi paesi ove i medici sono così rari, ed io
non temetti di commettere una indiscrezione informandomi se qualche
dolore, qualche scossa accidentale non avesse preceduto i sintomi della
malattia.
— Ahimè, sì, — mi rispose la madre — fra otto giorni compirà l'anno
dal dì che la mia povera figliola provò un terribile spavento ed è da
allora che langue così.
— E posso conoscere la ragione di questo spavento?.
La madre guardò sua figlia che arrossì, abbassò gli occhi, e vidi il
suo seno sollevarsi in fretta come se il suo respiro divenisse sempre
più difficile e faticoso.
— Ma perchè ti turbi a questo modo? — riprese la madre. — Sai bene che
bisogna dir tutto al medico. — Si voltò poi verso di me: — La poveretta
non può ascoltare la menoma allusione a quella notte funesta senza
sentirne ancora il contraccolpo; ma si allontanerà per qualche momento
ed io vi racconterò ogni cosa.
Infatti la giovinetta si alzò e si avvicinò alla finestra, mentre
sua madre, chinandosi verso di me si preparava alla confidenza: ed io
pensava fra di me: ci siamo; che si tratti di un amante scoperto da
quel padre snaturato?
— Ebbene, signora, voi dovete sapere che la mia figliola, dopo esser
stata a passare la giornata presso un'amica, rincasava allo scendere
della notte; nel salire la scala senza lume accompagnata da una delle
sue donne, un essere esce da una delle camere disopra, scende qualche
gradino dinanzi a mia figlia, la raggiunge, inciampa nelle sue vesti
e la fa cadere; essa getta un grido, si rialza.... la luna appariva in
quel punto e la mia povera figliola credette di scorgere un gatto nero
che fuggiva a gambe levate. Forse non era vero, forse era semplicemente
un gatto grigio; è quello ch'io mi sforzai invano di farle capire; ma
non fu possibile di torle dal capo che il gatto dal quale era stata
rovesciata fosse un gatto nero.
Io aspettava sempre la fine della storia; ma non vi era più nulla e la
storia era finita. Cercai di scoprire, senza peraltro tradire la mia
ignoranza in una simile materia, ciò che vi fosse di particolarmente
spaventoso in tale incontro. Tutto ciò che potei comprendere fu che
i gatti neri sono degli spiriti malefici il di cui incontro è del più
cattivo augurio. Per quanto assurda ne fosse la causa tuttavia il male
esisteva per davvero. Raccomandai la distrazione, il moto; ma quali
distrazioni è possibile procurarsi, che moto si può fare nel recinto
di un harem, e sopratutto d'un harem di campagna? Mi ripromisi di
non passar più da Cuprin nel mio viaggio di ritorno perchè mi sarebbe
costato di vedere quali danni altri mesi di malattia avrebbero potuto
arrecare alla graziosa figliuola del mio burbero ospite.
Durante i tre giorni che seguirono la nostra sosta a Cuprin, la pioggia
cadde quasi ininterrottamente e non ci abbandonò che a Kirsceir. Di
tutte quelle lunghe ore di marcia non mi è rimasto che il ricordo
di una serata trascorsa in un villaggio turcomano chiamato Merdecè.
Eravamo arrivati poco prima del cader del sole e, mentre il nostro
cuoco ci preparava la cena, io escii dal villaggio dirigendomi verso
la fontana, che ne era poco discosta. Appena vi era giunta quando una
processione di giovinette escita dall'abitato venne per attingervi
l'acqua. Esse portavano pantaloni larghi di colore azzurro legati alla
caviglia, una sottanella stretta di color rosso aperta sulle anche
e con una coda dietro che era rialzata e trattenuta da cordicelle
multicolori. Una sciarpa arrotolata più volte intorno alla vita
separava la sottana rossa da una giacca dello stesso colore colle
maniche strette e lunghe solo fino al gomito, aperta sul seno che
solo copriva una finissima camicia di stoffa bianca. Recavano in capo
semplicemente un fez con un lungo fiocco adorno e quasi interamente
ricoperto di monetine. I capelli legati in treccie giungevano quasi
sino a terra ed ogni treccia era terminata da un pacchetto di altre
monete che erano come seminate su tutte le parti dell'acconciatura,
sul giubbetto, sulle maniche, sulla camicia. Ognuna di quelle giovini
portava in testa l'anfora appena riempita e la riportava a casa
nello stesso modo. Quando esse giunsero alla fontana risonò tutto
un grazioso concerto di chiacchiere, di risate e di canzoni. La mia
presenza che prima sembrava imbarazzare le loro espansioni finì per
eccitarle. Alcune mi si avvicinavano timidamente per esaminare il modo
in cui i miei capelli erano rialzati e gettavano delle esclamazioni
di meraviglia allo scorgere il mio pettine; altre, più audaci, si
arrischiavano a toccare la stoffa del mio mantello, poi scappavano via
correndo e ridendo come se avessero compiuto un atto di straordinario
coraggio. Intanto il sole era scomparso dietro le montagne, le greggi
traversavano il fondo della vallata per avvicinarsi alle case; i cani,
guardiani fedeli della proprietà dei loro padroni, si accoccolavano
dinanzi alle porte; veloci si stendevano le ombre e qua e là si
accendevano dei fuochi. Fu forza lasciare il gaio sciame delle ragazze,
la limpida fontana, la verde vallata per rincasare. Che simpatica
serata!
A Kirsceir[12] potemmo comprendere come l'ospitalità orientale aumenti
di valore in seguito alle traversie che spesso ne sono in pratica il
preludio. Un uomo ci aspettava alle porte della città per condurci
sino al nostro alloggio; lungo il tragitto un sospetto ingiurioso
sulla fedeltà della guida ci tormentava. Erravamo in un labirinto
di stradette e di angiporti affondando nella mota fino al petto dei
cavalli, inciampando in grosse pietre mal celate nei pantani, dando
di cozzo nei tetti spioventi delle botteghe, incrociando lunghe file
di camelli che spaventavano i nostri cavalli d'Anatolia. Disperavamo
quasi di raggiungere ormai un tetto ospitale quando la nostra guida
entrò con gran premura in un portone che dalla strada si apriva su
una vasta corte selciata; vi erano riuniti il nostro dragomanno, la
nostra scorta, il padron di casa con parenti, amici e conoscenti, tutti
convocati per farci festa. Fummo ben alloggiati, salvo la completa
mancanza di finestre; ma chi ci pensava più? Nel camino la legna
scoppiettava accesa, sorgente di infinito diletto per chi da tanti
giorni aveva dovuto ricorrere, come noi, al combustibile dei Turcomani,
cioè alle dejezioni disseccate degli animali, mucche, buoi, cavalli
e camelli e che si bruciano in quei paesi privi di alberi. Non c'è
male per scaldarsi e, checchè se ne pensi, dal focolare non esce alcun
cattivo odore; ma ci si perde d'animo riflettendo che simili carboni
servono a cuocere i cibi: e che dire quando vi è recato un narghilè
acceso con tal metodo e che dovreste aspirarne il fumo? Confesso che
la mia filosofia non ha mai avuto la forza di vincere questa prova e
ho preferito di bruciare i piuoli di tutte le mie tende piuttosto che
piegarmi a respirare un fumo prodotto da quel carbone animale.
Il nostro ospite di Kirsceir volle presentarci uno de' suoi amici,
trasformato per l'occasione in mastro di cerimonie. Era un arabo
d'Algeria che voleva farsi passare per un francese e pretendeva di
conoscere bene gli usi occidentali. Aveva infatti abbandonato tutto
il riserbo e la serietà che vigono in Oriente e poteva gabellarsi di
fronte a' suoi compatriotti asiatici come un saggio delle buone maniere
europee. Entrò ridendo clamorosamente fregandosi le mani, dondolando
la testa e dimenandosi più che poteva. Parlava però in arabo: — Sono
francese, signora — si indirizzava a mia figlia: — Signorina — e questa
era per me. — Sono francese, servitor vostro, — poi alzò una bottiglia
che teneva sotto il braccio: «Volete acquavite? Ordinate, disponete di
me e di tutto quello che mi appartiene». Proseguiva su questo tono,
portando ad ogni tratto alla bocca la bottiglia, facendo schioccare
la lingua dopo ogni bevuta, rovesciandosi sul divano, alzando le gambe
in aria, abbandonandosi a tutte le pazzie naturali in un uomo ubbriaco
che si crede tutto lecito, col pretesto di essere un francese in mezzo
ai Turchi. I miei compagni di viaggio finirono per metterlo alla porta
senza offenderlo menomamente, a quanto pare, ma sorprendendo un poco
il nostro ospite, suo amico, che credeva di averci offerto uno de'
nostri simili e aveva attribuito tutte quelle stravaganze agli usi
dell'Occidente.
Non saprei veramente qual motivo abbia potuto determinare tanti
personaggi illustri a venir a morire in una città così poco importante
come Kirsceir, il cui nome è sconosciuto a tutte le carte. Per una
ragione o per l'altra, certo è che la città è popolata, ricinta di
tombe. La maggior parte sono moschee, costituite da una specie di
cappella o di cupola, alla quale si giunge per una scala esterna, e
sotto la quale giacciono le ceneri del morto. Uno di questi monumenti
è, a dir il vero, un lavoro mirabile, sia per la vastità delle sue
proporzioni, che per la grandiosità del disegno, la ricchezza e
l'eleganza dei particolari. Forma una gran sala con dodici pareti,
ciascuna aperta su una stanza in ismalto azzurro, riservata un tempo
come abitazione di un derviscio. Questi dodici dervisci avevano la
mansione di vegliare e pregare sulla tomba. Accanto a questo edificio
sorge un minareto benissimo conservato, in terra cotta, di una tinta
più pallida di quella dei nostri mattoni, intramezzata di smalto bleu
che risalta gradevolmente su quel fondo grigio rossastro. I muri del
monumento sono ricoperti, nella loro parte superiore, da iscrizioni che
non si possono esaminare nè copiare senza l'aiuto di una scala, tanto
sono collocate in alto. Non mi sembravano scritte in caratteri turchi
e, avendo domandato agli abitanti in quale lingua fossero redatte: in
arabo mi fu risposto da taluni, in turcomano, da altri. Questa seconda
versione mi parrebbe più plausibile, perchè i caratteri arabi non
sono diversi dai turchi. In tal caso non potremo mai tradurre queste
iscrizioni, perchè i caratteri turcomani non sono più in uso, e non
credo che esista, nemmeno nel collegio di Francia o a quello della
Propaganda a Roma, un professore che conosca il turcomano antico o
letterario. Quel popolo ora non parla che il turco, anzi, a sentirlo,
dovrebbe essere il turco più puro.
Rimanemmo un giorno a Kirsceir per fare qualche provvista ed il
secondo giorno dopo il nostro arrivo ci rimettemmo in cammino. Da che
avevamo lasciato Angora, il paesaggio aveva preso un aspetto sempre più
cupo, pioveva, i villaggi divenivano sempre più rari e la popolazione
malevola. Si continuò a peggiorare da Kirsceir a Cesarea. Camminavamo
delle giornate intiere nel fango, quando non era nella neve, fra
montagne tagliate a picco, o arrotondate come delle zolle, senza poter
posare lo sguardo su una linea gradevole o per lo meno nuova. Nei
miseri villaggi ove passavamo la notte, non scorgevamo che dei visi
torvi, talora anzi minacciosi e non udivamo che insulti. La nostra
scorta di regola non ci serviva a nulla e talvolta poteva anche esserci
di danno, rappresentando agli occhi di quel popolo scontento l'autorità
di cui gli pesa il giogo. Ci avvicinavamo per altro a Cesarea. Sbucando
fuor da una gola stretta e fosca che si apriva fra montagne nude, di
una roccia grigia, ci ritrovammo in una immensa pianura, limitata ad
occidente ed a mezzogiorno da catene di montagne. Questa pianura è
tagliata da tanti corsi d'acqua che nella maggior parte non consiste
che in paludi, dimora di una moltitudine di anitre selvatiche.
All'imperatrice Elena[13] è attribuita, come tutte le opere analoghe
di origine antica, la strada selciata che si inoltra fra quelle acque
stagnanti; il menomo scarto dei nostri cavalli ci avrebbe precipitato
in un mare di fango. Lontano, dal lato di mezzogiorno, e quasi al piede
delle montagne, una linea incerta e rossastra ci indicava Cesarea[14].
Ci eravamo fermati a far colazione in un paesino perduto in mezzo
alle paludi, ove ci avevano offerto in abbondanza un latte buonissimo.
Stavamo per risalire sui cavalli, quando vedemmo accorrere a briglia
sciolta un cavaliere vestito press'a poco all'europea che mise piede a
terra e, presentandomi una lettera, ci rivolse un saluto in italiano.
Era la prima volta dopo la nostra partenza dalla vallata
d'Eiaq-Maq-Oglu che una voce umana ci rivolgeva la parola in una lingua
famigliare e cara. Il messaggero non era però che un greco, ma aveva
vissuto per lunghi anni in mezzo agli europei ed aveva acquistato i
modi e le abitudini dell'Occidente. Il suono di quegli accenti, così
ben noti e da tanto tempo stranieri a' miei orecchi, mi aveva tanto
scossa che non apersi subito la lettera e restai per qualche istante
pensierosa. Chi mi scriveva era il console inglese di Cesarea, il
signor Sutter, che è il solo ad esercitare un compito di ospitalità
a favore di tutti gli europei di passaggio. Egli mi annunciava che
una casa da lui approntata era a mia disposizione e che il suo cavass
era incaricato da lui di accompagnarmi fino a quella dimora. Stavamo
dunque per partire quando una cavalcata, questa volta molto numerosa,
comparve nelle vicinanze del villaggio e vi si fermò, mentre due
cavalieri venivano a congratularsi, in nome del pascià e dei principali
cittadini, del nostro arrivo nella loro città. Il pascià mi mandava
inoltre un cavallo con una ricca bardatura sul quale mi invitava a fare
il mio ingresso in Cesarea, cortesia un poco imbarazzante, giacchè non
mi sorrideva di cambiare il mio cavallo al quale era tanto avvezza,
con uno che non conoscevo. Il nostro ingresso nella città di Cesarea si
effettuò colla maggior pompa. La nostra cavalcata era composta di più
di trenta persone, parecchie delle quali vestite con tutto il lusso che
implica tuttora l'Oriente. A dir il vero noi non facevamo troppo buona
figura, colle nostre vesti sdruscite e maltrattate dalla polvere e dal
fango, in mezzo a quei colori smaglianti ed a quei sfarzosi ricami di
oro e di seta. Nondimeno tutti gli sguardi si fermavano sopra di noi,
nello stato in cui eravamo o meglio in cui ci aveva ridotto il viaggio.
Eravamo ospiti di un ricco negoziante armeno, padre di una numerosa
famiglia. La sua figlia maggiore, già sposa e madre, era ritornata ad
abitare nella casa paterna mentre suo marito viaggiava per commercio.
Alcuni parenti, che dimoravano nella provincia, si erano riuniti presso
il ricco negoziante per godere degli ultimi giorni del Carnevale e
dei suoi divertimenti. Le tre o quattro camere che compongono una casa
in quella parte del mondo erano ricolme di una quantità di donne, di
giovinette, di ragazzi e di bimbi, in abito di gala come se dovessero
andare ad una festa e ciò dall'alba al tramonto e dal cader della
notte al mattino, giacchè in Oriente non si usa svestirsi per andare
a riposare. Potete rivedere il mattino, tanto presto quanto volete,
quelle stesse acconciature che avete scorto la sera prima, naturalmente
un po' spiegazzate. È un uso generale che non presenta grandi
inconvenienti per i ricchi i quali possono cambiar d'abito nel corso
della giornata come noi facciamo nell'andare a letto e nell'alzarci; ma
gli effetti sono disastrosi nei poveri che tengono sul loro corpo gli
stessi stracci durante un mese ad anche più.
Ho detto testè che eravamo alla fine del Carnevale ed i miei ospiti
mi ritenevano ben fortunata di esser giunta in tempo per godere di
questi divertimenti più semplici che numerosi. Tutte le feste avevano
per teatro i tetti delle case che, comunicando con scalette od anche
con scale a mano, costituiscono una specie di pubblica piazza, ove gli
abitanti di uno stesso quartiere circolano liberamente pur restando al
riparo da un'invasione di estranei. La popolazione armena di Cesarea
(il numero dei greci vi è assai ristretto) se ne stava dunque tutta
quanta in cima alle sue case, dal principio alla fine del giorno,
nelle più ricche vesti. Per gli uomini il maggior lusso consiste nella
bellezza delle loro pelliccie; ma le donne non sono contenute in fatto
di acconciatura in limiti così rigidi. Portano, come tutte le donne in
oriente, pantaloni larghi, lunghe vesti che formano come delle guaine
aperte sui fianchi per dar adito al rigonfiamento dei pantaloni, vari
corpetti, messi l'uno sopra l'altro, di stoffe e colori diversi, una
sciarpa attorcigliata alla vita, un fez, capelli a treccie pendenti
e sovra tutto ciò monili formati di monete. I modi di combinare le
varie parti di quest'abbigliamento possono variare come anche la
disposizione degli accessori e degli ornamenti. Le armene di Cesarea
si segnalano, fra le donne delle altre città dell'Asia Minore, per la
delicata armonia dei colori delle loro stoffe, per la ricchezza ed
il buon gusto dei ricami che adornano le loro bustine ed anche per
l'acconciatura del capo. Queste donne eleganti non si avvolgono il
capo con quelli orribili fazzoletti di cotone stampato che ogni anno
dalla Svizzera sono spediti in Asia a migliaia. Il fondo del fez ed il
fiocco che ne pende sono ricamati in oro ed anche, talvolta, in perle.
I capelli formano dodici o quindici treccine di uguale lunghezza che
scendono più in basso che sia possibile; ma qui le monete, che sono
d'oro, non sono relegate all'estremità delle treccie, sono cucite su
un piccolo nastro nero che si applica poi sulle treccie a mezza strada
fra la nuca e le reni, così da formare un quarto di circolo rilucente
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