La vita intima e la vita nomade in Oriente - 05

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che spicca, in modo caratteristico, sulla tinta scura dei capelli. Una
profusione di questi stessi zecchini copre la parte anteriore del fez,
pende sulla fronte e dalle orecchie, cinge d'una corazza il collo,
il seno e le braccia. Fra tante monete si trovano pure altre gemme;
così fiori in diamanti sono collocati in giro al fez o sui capelli che
incorniciano la fronte; fermagli in pietre preziose, collane o catene
di perle servono ad abbottonare la bustina sotto il seno, o passano
sotto il mento andando da uno all'altro orecchio. Le figlie da marito
di genitori ricchi sono le più sontuosamente adorne perchè portano
indosso, a guisa di giojelli, tutta la loro dote che sale talora
a somme molto forti; è vero che, dopo qualche anno di matrimonio,
gli zecchini e le pietre tendono a diminuire, ciò che mi indurrebbe
a credere che la dote delle giovani armene di Cesarea non è così
garantita come quella delle nostre signorine europee dalle usurpazioni
maritali.
Era effettivamente uno spettacolo curioso quello di tutte queste
signore che si pavoneggiavano all'aria aperta coi loro diamanti, a
una altezza che nei nostri paesi non è aggiunta che dai gatti e dagli
spazzacamini. Esse passeggiavano, si facevano delle visite, sempre
sui tetti e si dedicavano lietamente ai giochi ed ai balli. Musicanti
girovaghi andavano e venivano ed appena apparivano su una terrazza,
quelle vicine riversavano su di essa tutti i loro abitatori più
giovani, poi il ballo cominciava intorno ai suonatori. Non vi è che
un ballo in tutto l'impero ottomano ed è lo stesso per i turchi, gli
arabi e tutte le nazioni mussulmane sparse sul territorio dell'impero;
è lo stesso per i greci e gli armeni sudditi della Sublime Porta, ed
a dire il vero quest'esercizio così diffuso merita a stento il nome di
ballo. Due persone dello stesso sesso, ma sempre vestite da donna, si
collocano l'una in faccia all'altra, recando in mano delle castagnette
se le hanno, e se non le hanno, due cucchiai di legno che ne fanno
le veci od anche con nulla in mano; ciò che è di rigore è il moto
delle dita e la pantomima delle castagnette. I due ballerini piegano
e stendono, o per essere più esatti, stirano le braccia, scuotono
rapidamente le anche, mentre fanno ondeggiare più adagio la parte più
alta del corpo e scuotono leggermente i piedi senza per altro staccarli
dal suolo. Mentre proseguono queste varie contorsioni, si avanzano,
arretrano, girano su sè stessi ed intorno a chi sta loro dirimpetto,
mentre la musica, che consiste, di solito, in un tamburo a sonagli,
in una gran cassa ed in un piffero da pastore, segna il tempo vieppiù
concitato. Non so cosa questa danza possa avere di grazioso; ma gli
occhi meno esperti sono subito colpiti dalla sua indecenza.
A Cesarea avevo potuto osservare i turchi nell'abbandono di una festa
popolare. Uno di quei contrasti che riserba spesso l'Oriente, mi doveva
colpire a breve distanza da quell'antica capitale, a Giudiesu[15],
città ove trovai una popolazione greca rinomata per la sua attività
commerciale. Di lì vengono i principali droghieri di Costantinopoli.
Scesi nella casa di uno dei maggiorenti che era stata posta a mia
disposizione e mi fu servita una colazione abbondante preparata
secondo gli usi locali, tanto diversi dai nostri che non ho mai potuto
acconciarmivi. Il riso cotto, che per noi è una minestra, è sempre
servito alla fine del pasto, del pari che il piatto forte, che può
consistere anche in un capretto od in un agnello tutto intero. È vero
che indipendentemente dal riso è talora servita una zuppa, ma fatta col
sugo di limone e quindi insopportabile per dei palati europei. Il resto
del pasto è costituito da quindici o venti piattini: palline di carne
tritata, legumi d'ogni specie cotti nell'acqua o nel grasso, zucchette
condite coll'aglio e col latte agro cagliato, paste di riso o di avena
pestata avvolte in foglie di vite crude, «purée» di zucca, pasticceria
e marmellate servite in mezzo a tutto il resto; frutta secca e candita,
frutta fresca o maturata nella paglia, miele, farina d'avena cotta
nel latte e nel miele, infine tutto ciò che può soddisfare l'appetito
più vigoroso ed il gusto meno difficile. Siete condannati a non bere
durante tutto un pasto così mostruoso perchè l'uso vuole in Oriente
che non si mescolino i cibi solidi ai liquidi. Finito il pranzo vien
portata una compostiera od una grande coppa piena di «Scerbett» cioè di
acqua e siroppo, con intorno una fila di cucchiai di legno; ognuno dei
commensali ne prende uno e l'immerge alternatamente nel «Scerbett» e
nella sua bocca quante volte gli garba.
Mi ero alzata da tavola quando mi fu annunciata la visita delle
autorità e degli ottimati locali e del clero greco. Questi si compone
di un vescovo o patriarca, de' suoi coadiutori, e di un giovane
prete stabilito da poco nella città come capo di una nuova scuola
fondata pe' ragazzi greci. Questo sacerdote che aveva una fisionomia
intelligente, dolce e triste, insegnava a leggere e a scrivere il
turco ed il greco nonchè l'aritmetica, la geografia, il catechismo,
un po' di storia e di francese. Aveva circa 300 scolari di cui un po'
meno di un terzo erano fanciulle. Mi aveva invitato a visitare la
sua scuola: glielo promisi ed egli, tutto contento, se ne andò per
prepararsi a ricevermi, faccenda di maggior conto ch'io non potessi
pensare. Ritornò un'ora dopo ad annunciarmi che tutto era pronto e
che i suoi allievi mi aspettavano. Partiamo, traversiamo una parte
della città e, tirandoci dietro quasi tutta la popolazione, arriviamo
all'edificio della scuola che parrebbe molto bello anche in Europa.
Costrutto in cima alla montagna, accanto alla cinta murata, esso domina
in tutta la sua ampiezza la conca occupata dalle case di Giudiesu. Un
portico sostenuto da colonne serve da vestibolo ad una sala vasta,
ben illuminata e ben arieggiata, arredata con banchi e leggii ed in
fondo una cattedra per l'insegnante. Tutto, dai banchi ai leggii,
dai quaderni ai libri era di una nettezza scrupolosa ed avrei proprio
potuto credermi trasportata in una cittadina della Germania o della
Svizzera. Ammiravo l'influenza salutare che un uomo illuminato ed
attivo può esercitare su tutta una popolazione e non volevo tardare
ad esprimere tutta la mia soddisfazione al degno ecclesiastico autore
di quei prodigi, senonchè il valent'uomo pensava allora a ben altro
che a ricevere delle congratulazioni. Egli ci aveva preceduto per
correre alla scuola e lo vedemmo tosto dirigersi verso di noi in
abiti pontificali e guidando i suoi allievi che dietro a lui cantavano
inni greci. Si allinearono nel vestibolo per lasciarci passare, e al
nostro seguito entrarono nella sala; dovetti salire sulla cattedra
e prendervi posto mentre il professore disponeva gli scolari in due
file in faccia a me. Cessati i canti greci furono sostituiti purtroppo
con altri in francese composti sul momento in mio onore e di cui ebbi
una copia scritta di propria mano di uno degli allievi. Da quella
strana poesia fui condotta alla conclusione che gli allievi avevano
ben poco da perdere se la lezione di francese dovesse cessare di
far parte del programma dei loro studii; nondimeno è un gran passo
nell'incivilimento di quella popolazione orientale il propagarvi in
tal guisa la conoscenza, sia pure superficiale, di una lingua europea.
I più ricchi abitanti di Giudiesu avevano eretto la scuola a spese
loro e, fatto venire il professore dall'isola di Candia, gli pagavano
seimila piastre (all'incirca mille cinquecento franchi) all'anno. È
un esempio che i greci del resto dell'impero hanno veramente torto di
non imitare ed incoraggiare. Informatami dell'appoggio che i greci di
Giudiesu avessero potuto trovare nel concorso a tale iniziativa dei
loro compatrioti di Costantinopoli, venni a sapere con mio rammarico
che questi ultimi avevano assistito quasi indifferenti ad un simile
saggio di rivoluzione pacifica, come può ben definirsi l'apertura di
una tale scuola in una povera cittaduzza dell'Asia Minore. Ma temo
assai che il prete, consacratosi con tanto zelo e con tanta abnegazione
a quest'opera di incivilimento, non abbia a soccombere fra breve ad
una fatica così grande. Come potrebbe infatti bastare un sol uomo ad
educare ed istruire centocinquanta fanciulli e settanta fanciulle? Devo
soggiungere purtroppo che, in tutto il mio viaggio in Asia Minore ed
in Siria, non ho mai visto nulla che, nemmeno alla lontana, mi potesse
rammentare la scuola ed il professore di Giudiesu.
Qualche giorno più tardi camminavamo in mezzo a montagne sempre
più alte che preannunciavano la catena del Tauro. Mi ricordo di una
notte passata ai piedi di una di quelle montagne che porta il nome di
Allah-Daghda[16]. Sostammo per la notte in un piccolo villaggio: il
caldo era eccessivo quando smontammo di cavallo in pieno mezzogiorno;
ma non appena il sole era scomparso dietro le cime dell'Allah-Daghda,
la neve cominciò a cadere ed il freddo divenne intollerabile. Ci
chiudemmo nella parte della stalla che ci era stata destinata e là,
avvolti nelle pelliccie, ascoltavamo il fragoroso soffiare della
tramontana che, dapprima impetuosa, finiva per cadere alla base delle
roccie. Da qualche momento la tempesta era stata seguita dal silenzio
ed io sentivo che il sonno a poco a poco gravava sulle mie palpebre,
sulle mie membra e sui miei pensieri quando fui riscossa di soprassalto
da un colpo battuto alla porta. Un uomo della scorta mi mandava a
chiamare in gran fretta perchè stava male e si credeva in pericolo
di morte. Alzatami mi copersi alla meglio con tutti i mantelli che
trovai a portata di mano ed escii con colui ch'era venuto a cercarmi.
Ma mi fermai appena posto il piede sulla soglia rimanendo estatica
ad ammirare. Era notte alta da gran tempo; là dove prima fosche nubi
serravano tutto l'orizzonte precipitandosi come masse d'ombra nelle
strette gole delle montagne, io non scorgeva sopra il mio capo che
un cielo turchino come lo zaffiro, sparso di stelle così scintillanti
che l'occhio ne era abbagliato. La luna raggiava sopra l'Allah-Daghda,
diffondendo sul villaggio e sul tappeto di neve circonvicino la sua
luce dolce. Nemmeno un soffio d'aria moveva i rami degli alberi che
sorgevano qua e là intorno alle case. Era una delle più belle notti
che avessi ammirato in vita mia ed il suo fascino era accresciuto
dalla serata tempestosa alla quale succedeva quasi senza transizione.
Attraversai il villaggio addormentato e le strade deserte per giungere
alla capanna occupata dal malato che si trovava all'altra estremità
di quel gruppo di case. Il poveretto era semplicemente in preda ad un
delirio manifestatosi in lui come in un accesso. Gli feci prendere un
calmante, lo tranquillai come mi fu possibile e rientrai nel mio antro.
Di buon'ora giungemmo l'indomani a Medem[17], che è città ben
nota nell'impero turco in grazia delle sue miniere di piombo. Fui
alloggiata dal Direttore delle miniere che ne aveva pure l'appalto e
che mi accompagnò a visitare i forni, primitivi quant'altri mai. Il
minerale veniva gettato in grandi buche in mezzo alla fornace, donde
il piombo liquefatto esciva traverso piccoli canali scavati nella
terra e veniva a cadere ed a raffreddarsi in una cavità aperta sotto
alla fornace. Qua e là nella montagna vi sono parecchie di queste
miniere, in maggioranza non ancora sfruttate. Se osservavo la quantità
di piombo che esciva continuamente dai forni, il numero ristretto
degli uomini che accudivano all'estrazione e l'estrema semplicità dei
mezzi adoperati dovevo concludere che la speculazione fosse propizia
all'intraprenditore. Lo pregai di darmi qualche indicazione sulle
spese ed i profitti dell'impresa. Egli non domandava di meglio, ma
sgraziatamente mi accorsi subito che si era cacciato in un'iniziativa
per lui temeraria non essendosi mai posto i quesiti intorno ai quali
io l'interrogavo. Mi chiese allora il permesso di far venire il suo
amministratore che sarebbe stato meglio in grado di illustrarmi i
particolari, come egli li voleva chiamare; ma padrone e collaboratore
erano allo stesso punto. Rinnovando le mie domande in varie forme,
ottenni che i due «Effendi» cominciassero a darmi qualche risposta
colla quale provavano per altro che non mi capivano, sicchè era ancora
peggio di prima.
Medem è alle porte del Tauro, e appena si è perduta di vista la città
ci si ritrova in mezzo alle montagne note sotto questo nome. Per
Tauro, Anti-Tauro, Libano, Anti-Libano non sono designati monti come
il San Bernardo, il Sempione, il Monte Bianco, bensì grandi catene di
montagne come le Alpi, gli Appennini, i Pirenei, racchiudenti vasti
territori ed una molteplicità di cime e di vallate. Ci occorsero cinque
giorni per traversare il Tauro, cioè per andare da Medem ad Adana[18].
Consacrammo quei giorni ad errare di valle in valle, percorrendo un
paese magnifico, ma completamente deserto, senza un villaggio e solo
qualche rovina in cui gli armeni od anche qualche turco intraprendente
hanno stabilito delle locande per i viaggiatori. Inutile descrivere
quei cinque giorni, insistere sui soliti incidenti che derivano sempre
in certe parti dell'Oriente dal cattivo stato delle strade e degli
ospizii. Più di una tappa faticosa mi separava tuttora dal termine
di questo primo periodo di viaggio di cui mi preme di affrettare il
racconto. La società turca, quale può essere osservata in regioni che
gli europei non visitano quasi mai, è tratteggiata in questi primi
quadri della mia vita nomade. Ad Adana si entra in una contrada che
è la parte dell'Oriente meglio nota ai viaggiatori od almeno creduta
tale, ed ove l'azione della civiltà dell'Occidente si fa sentire in
modo più diffuso. Avrei potuto ormai osservare i Franchi accanto agli
Orientali ed ero abbastanza iniziata alla vita intima di questi ultimi
per poter paragonare a mio agio le due società così avvicinate in ciò
che esse hanno di essenziale e di caratteristico.


II.
LE MONTAGNE DEL GIAURRO — L'HAREM DI MUSTUK BEY — LE DONNE TURCHE

IL GIAUR DAGHDA — UN VILLAGGIO FELLAH — IL PASCIÀ D'ADANA
Dal giorno in cui avevo lasciato la tranquilla mia vallata nell'Asia
Minore avevo avuto, come si è potuto vedere, non poche occasioni di
avvezzarmi agli stenti ed ai pericoli della vita dei viaggiatori nel
Levante. Da Angora ad Adana mi ero fermata poco e di rado, mentre le
marcie erano state faticose e quasi continue. Pertanto i pochi giorni
che passai ad Adana, giorni di riposo e di festa rallegrati dalla
presenza di europei ed anche di italiani, mi hanno lasciato un ricordo
gradevole. Debbo dire che il fascino di quel mio soggiorno mi era
aumentato dall'idea che avrei dovuto affrontare altri pericoli appena
lasciata la città.
Sul punto d'intraprendere una spedizione abbastanza pericolosa
attraverso il Giaur-Daghda (montagne del Giaurro), mi sentivo meglio
disposta ad apprezzare qualche momento di calma trascorso in mezzo ad
amici devoti. Vi è in ogni vita attiva qualcuna di queste tregue, quasi
sempre troppo brevi e che hanno un incanto tanto maggiore quando devono
esser seguite da un domani avventuroso.
Ma cos'era dunque questo Giaur-Daghda, che mi si descriveva ad Adana
con colori così poco rassicuranti? È una catena di montagne tre volte
più vasta dell'Alvernia e con una popolazione di 500 mila anime.
Io ripeto quanto mi è stato detto senza garantire nulla. Questa
popolazione è divisa in due gruppi che potrebbero essere chiamati dei
deboli o sedentari e dei forti o nomadi: i primi abitano i villaggi,
i secondi errano lungo le strade. Converrà parlare degli uni e degli
altri.
La parte sedentaria e pacifica di questa popolazione consiste in
vecchi, in donne e in bambini; numerosi villaggi sparsi sul fianco
delle montagne o celati in fondo alle valli sono il loro rifugio. Il
mussulmano, bisogna riconoscerlo, ha un gusto istintivo per le bellezze
della natura. Fabbrica sempre i suoi villaggi all'ombra di begli
alberi, nel mezzo di verdi aiuole od in riva a limpidi ruscelli. Se gli
domandate le ragioni che gli hanno fatto scegliere un posto più di un
altro per dimorarvi, sarà imbarazzatissimo a rispondervi, perchè non
saprebbe spiegare a sè stesso le sue preferenze. Quand'egli cerca le
posture pittoresche obbedisce al medesimo istinto che guida l'aquila
fra le roccie, che spinge la rondine ad annidarsi sotto ai tetti, il
passero a rifugiarsi nei giunchi, la quaglia a nascondersi nel grano.
Egli ha udito ai piedi di un albero, sulla vetta di quella collina
il gorgoglio dell'acqua fra le erbe alte od il fruscio del vento nel
bosco vicino: l'ombra gli è parsa gradevole e l'aria imbalsamata e
si è fermato. A qual pro andar più innanzi? Così sorge un villaggio
turco laddove la vita è parsa facile e la natura aveva l'aspetto
ricco ed attraente. I greci, ben diversi dai turchi, non vedono che
il lato positivo nella collocazione dei villaggi. Nella scelta di una
dimora si preoccupano, a ragione, che il terreno sia solido, le pietre
per costruire abbondino e non manchino le comunicazioni coi mercati
periodici. I greci non disdegnano la vicinanza degli alberi, ma allo
scopo di fare assi dei tronchi e fascina dei rami. Così a prima vista
e da lungi un villaggio greco si può distinguere da uno turco. Il
primo è triste e repugnante, attraente il secondo; ma purtroppo la
differenza cessa quando si penetra nelle strade. Vedute da vicino le
case greche e le case turche si rivelano tutte egualmente brutte, tetre
ed inabitabili.
Gli abitanti validi del Giaur-Daghda non s'incontrano, come ho detto,
che lungo le strade e quei rozzi montanari non sono vicini molto
comodi. Guai alle carovane che essi sorprendono ed alle tribù che
vivono nel raggio delle loro incursioni! Ogni popolazione che abita in
case di legno facili a bruciare o che non ha granaio per ricoverare
i suoi cereali è trattata da nemico dagli abitanti del Giaur-Daghda
dediti alle avventure. Perciò le strade che attraversano il loro paese
sono le meno frequentate che esistano al mondo. Un bey, dipendente
dal pascià di Adana, delegato del potere imperiale, dovrebbe, è vero,
governare nelle montagne del Giaurro, ma non si può negare che il
potere centrale qui non esiste che in apparenza. Per quanto gli ordini
di Costantinopoli possano essere promulgati nel Giaur-Daghda, imponendo
leve e tasse, non troverete un montanaro che indossi l'uniforme o che
versi un centesimo al fisco. Agiscono così, non per vigliaccheria, ma
per amore della vita indipendente. Il Levante novera molte popolazioni
nello stesso caso e dalla Siria all'Egitto potrete incontrare i
Drusi, gli Ansariani, i Mettuali, ecc. Tanti popoli ad un tempo non
potrebbero esser fronteggiati che da eserciti così numerosi come quelli
di Senacheribbo e per ottenere qualcosa da schiatte così indomite è
preferibile ricorrere ai mezzi pacifici. Nondimeno talvolta scoppiano
delle crisi ed un pascià si risolve a mandare alcune compagnie di
fantaccini contro le tribù ribelli. Queste allora hanno due vie da
seguire: o si ritirano in massa in rifugi sicuri e lasciano le truppe
regolari in balìa dei rischi di marcie mal sicure, in paesi deserti,
oppure sdegnose della tattica di Fabio prendono l'offensiva, dopo
essersi assicurate una grande superiorità numerica. Per esempio 25,000
montanari affrontano un migliaio di soldati, gesto che di regola basta
a terminare le ostilità. Le truppe rientrano nelle loro caserme;
i montanari riprendono le loro faccende e si ristabilisce la buona
armonia fra governo e popolo fino alla prossima leva od alla scadenza
delle imposte.
Ecco il popolo di cui dovevo traversare il territorio dopo aver
lasciato Adana. Aspettando il giorno della partenza vivevo come ho
detto, molto piacevolmente. Ero lieta di dimorare finalmente in quella
vecchia terra delle palme e dei cedri, fra genti arabe che nel tipo e
nei costumi evocavano ai miei sguardi le splendide scene della Bibbia.
È sotto il cielo d'Oriente che dovreste leggere le pagine dell'antico
Testamento. I casi del vecchio Giobbe, fra gli altri, si rinnovano qui
ogni giorno. La ricchezza di un abitante della campagna non consiste
che nelle sue greggi; l'orientale non tiene capitali in deposito
in una banca o presso un notaio. Il ricco non ha denaro in maggiore
abbondanza del povero; ma ha i suoi granai, grandi buche scavate nella
terra e riempite di grano avuto in cambio dei prodotti del bestiame,
ha il bestiame stesso, dal quale ricava tutto ciò che gli occorre. Con
questi cespiti, i granai e le greggi, il ricco deve pure mantenere
una famiglia e un gran numero di servi, ha una tenda sempre aperta
al viaggiatore o all'amico che presentandosi trova una tavola sempre
servita, se si può dare questo nome al vassojo di stagno che piega
sotto il peso di agnelli e di capretti arrostiti intieri e ripieni
d'uva secca e di fichi. Ecco ciò che nel Levante si chiama un ricco
proprietario, un gran signore; ma che accadrà di lui se un'eruzione
infetta le greggi di questo potente? Se un fiume inonda i suoi granai?
Esattamente quello che è accaduto al vecchio Giobbe, giacchè non gli
rimane che la terra che qui non ha alcun valore venale. Io non dubito
che vi sia a quest'ora più di un Giobbe in Oriente, e, se molti secoli
ci separano dai tempi biblici, si può dire che le grandi famiglie
arabe, dalle quali furon tratti quei tipi, hanno serbata intatta in
fondo la loro fisionomia e che, a differenza degli altri popoli, non
hanno subito profonde metamorfosi.
Io osservava con un'attenta simpatia i costumi orientali quali mi si
presentavano dal mio arrivo ad Adana, quando un medico piemontese, il
signor Orta, stabilito da parecchi anni in Oriente e possessore di una
bellissima collezione di antichità, mi propose di andare a visitare un
villaggio fellah non lontano dalle porte di Adana. Rimasi male, perchè
io credeva che i fellah non vivessero che in Africa, sulle rive del
Nilo. Il dottor Orta, vedendomi disorientata, venne in ajuto della mia
erudizione presa in fallo e mi assicurò che questi fellah derivavano
realmente da quelli d'Egitto ed erano stati qui trapiantati da Jbrahim
Pascià. La mia sorpresa doveva però crescere ancora. Non appena
avevo coordinato l'esistenza alle falde del Tauro dei fellah del buon
medico, colle nozioni attinte sul loro conto in una quantità di libri
eccellenti, ecco un altro abitante di Adana affermarmi che alquanti
milioni di fellah indigeni della Siria vivono lungo tutto il litorale,
da Tarso fino ai dintorni di Beyrut ed anche nelle montagne che dal
litorale si protendono verso l'interno. Cosa potevano essere i pochi
fellah del dottore dirimpetto a queste schiere di fellah disseminate
in una gran parte della Siria, malgrado tutte le affermazioni dei
viaggiatori che danno loro l'Egitto per culla? In realtà i fellah
venuti dall'Egitto e quelli della Siria non si assomigliano affatto:
i primi sono veri negri che alloggiano in grandi ceste di vimini ove
trascorrono giorno e notte, obbedendo al capo della loro razza che
onorano col titolo di re e che si distingue dagli altri per la sua
lunga veste rossa e per un parasole rosso anch'esso, che uno schiavo
tiene sempre aperto sul suo capo.
— Quali sono le attribuzioni di questo monarca?
— Nessuna.
— E le sue rendite?
— Non ne ha.
— Qual'è il suo potere?
— È nullo.
— Che fanno i suoi sudditi?
— Niente.
— Ma come e di cosa vivono?
— Dei legumi e dei frutti che crescono quasi spontaneamente accanto
alle loro capanne di vimini.
Ecco le dimande che rivolsi alla mia guida e le risposte che ne
ottenni. Che aveva dunque pel capo Ibrahim Pascià quando condusse
seco questa popolazione fino sulle frontiere della Siria e ve la
lasciò perchè crescesse e si moltiplicasse? Crescere e moltiplicarsi
costituisce un programma molto semplice e poco ambizioso; nondimeno
i fellah di Adana non hanno saputo eseguirlo, poichè il loro numero
diminuisce tutti i giorni. Non si adattano al clima e ne soffrono.
Per uomini avvezzi sin dall'infanzia alle cocenti carezze del sole
africano, un leggero vento di levante è una calamità.
Quanto agli altri fellah della Siria, che ho poi visto in buon numero,
nulla li distingue dagli indigeni salvo le loro vesti ed i loro
turbanti completamente bianchi. La loro origine è ignota; ma si sono
stabiliti lungo le coste della Siria probabilmente da lungo tempo.
Non è il caso di domandarsi perchè il tempo non abbia attenuato la
diffidenza che isola questa razza dagli altri popoli dell'Oriente.
La tenacia di sentimenti e di pregiudizi che regna fra gli orientali
supera ogni immaginazione; io suppongo che i fellah ignorino perchè
essi detestino e disprezzino i turchi e gli arabi allo stesso modo
che questi non conoscono il motivo della loro esecrazione per i
fellah, ciò che non impedisce nè agli uni nè agli altri di augurarsi
scambievolmente i maggiori mali e di danneggiarsi tutte le volte che
lo possono fare impunemente. I fellah possiedono od hanno in affitto
quasi tutti i terreni coltivati di quelle contrade della Siria che essi
abitano, mentre gli indigeni cacciano lungo le strade ed inseguono
le carovane. Come accade nelle società semi-barbare, il lavoro non è
punto onorato in Asia e gli oziosi, per non dire i briganti, guardano
gli artigiani ed i coltivatori dall'alto della loro nobiltà. Arti e
mestieri sono l'appannaggio dei greci e degli armeni e l'agricoltura è
riservata ai fellah.
Sebbene poveri ed ignoranti, disprezzati ed odiati, essi hanno un'aria
seria, dolce e melanconica e fatico a crederli così crudeli e perfidi
come vogliono dipingerli. La loro religione è un mistero, e, a dir il
vero, l'intolleranza dei mussulmani ha costretto tutte le genti non
maomettane a compiere i loro riti in segreto. Solo i cristiani hanno
osato proclamare a testa alta la loro fede di fronte ai mussulmani e
perciò hanno sofferto persecuzioni e martirio. Quanto ai fellah, sono
accusati a volte di adorare il fuoco oppure un animale favoloso o un
idolo di legno, altre volte di non aver religione.
Dopo aver visitato quel villaggio in vimini volli far visita al pascià
di Adana, premendomi di assicurarmene la protezione prima di penetrare
fra i monti del Giaurro. Quando entrai nella corte che ha in fondo
una torre quadrata di legno, che ospita l'alto funzionario, constatai
ancor meglio il trapasso che avevo compiuto dal mondo turco all'arabo.
L'Oriente turco non assomiglia affatto, ahimè, all'Europa; ma le si
accosta assai più che non l'Oriente arabo, il quale reca l'impronta
sua propria sia nelle sue ricchezze, sia nelle sue miserie. Molte cose
vi sono sgradevoli, assurde, incomode, repulsive; noi vi ci troviamo
via via a disagio, scontenti, inquieti, indignati; ma lo siamo in modo
diverso che in qualunque altro luogo e indubbiamente, finchè questo
stato di cose è per noi nuovo, tanta novità vale a compensarci di molti
inconvenienti.
È difficile vedere qualche cosa di più brutto, sudicio ed irregolare
dell'esterno del palazzo abitato dal pascià di Adana. La corte nella
quale ero entrata è chiusa da un lato dalla torre quadrata di sua
Eccellenza, e dagli altri tre lati con edifici ad un solo piano, le
cui linee pesanti e disadorne corrispondono esattamente alla loro
destinazione, a scuderie, prigioni e cucine. Un pajo di palmizi,
colla corteccia in brandelli, ombreggiano qualche poco un angolo della
corte. Questo recinto così mal decorato brulicava, quando vi entrai,
di tante persone singolari nelle forme, nelle fisionomie, nei costumi,
nella lingua, nelle movenze, che avrei voluto rimanervi un giorno
intiero a contemplarle. Qua stavano degli arnauti albanesi colla loro
veste bianca floscia e corta, le loro ghette rosse ricamate a lame
metalliche, la loro casacca colle maniche spioventi ed il corpetto
carico d'oro e di argento, giocando ai dadi sul pavimento lastricato
della corte, ben decisi tutti ad un modo a non perdere la partita.
Un poco più in là un beduino del deserto ritto accanto al suo cavallo
nella cui briglia aveva passato il braccio, tutto avvolto in un immenso
mantello bianco, salvo la testa coperta da un fazzoletto di seta
gialla e rossa che ricadeva come un velo sul suo viso scuro e fiero,
guardava con sdegnosa indifferenza i giocatori avidi ed impazienti
reggendo colla mano la sua lunga picca di dodici piedi. Lungo i muri
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