La vita intima e la vita nomade in Oriente - 11

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che non esigevamo da lui alcun prezzo di riscatto, anzi che eravamo
disposti a pagarlo abbondantemente se avesse voluto condurci a Badun.
Il mariuolo pretendeva d'essere cieco e gli risposimo che toccava a lui
di guidarci seguendo quello de' suoi sensi che l'aiutava per solito
a raccapezzarsi. Non eravamo del resto malcontenti di mortificare il
nostro dragomanno, col sostituire una guida cieca ad una ignorante.
Sgraziatamente il contadino che avevamo catturato era cieco fino ad
un certo punto, e, dopo aver camminato un bel pezzo dietro a lui, ci
accorgemmo che per scroccarci un po' di denaro si limitava a farci
gironzare intorno al suo villaggio. Occorse che uno della nostra scorta
accostasse all'orecchio di quell'individuo la canna della sua carabina
minacciandolo di tirare se avesse continuato a burlarsi di noi. Da quel
momento il sedicente cieco smise d'incespicare e di andare a tastoni,
camminò dritto e svelto davanti a noi fino a Badun, che era lontano due
ore di marcia dal villaggio in cui eravamo penetrati.
Non temo d'insistere su simili avventure. Quei ritardi, quelle
delusioni, quelle dispute fra viaggiatori e dragomanni, quel ricorrere
alla forza di fronte a popolazioni malevole o perverse, tutto ciò
caratterizza un viaggio in Oriente e deve trovar posto nelle narrazioni
di chiunque voglia far comprendere costumi così nuovi ad un europeo.
Posso ormai raccontare più rapidamente le due giornate di viaggio
che mi separavano ancora da Beyrut. Non ho nulla da dire di Badun,
salvo che vi trovai con una soddisfazione ben comprensibile una buona
camera ed una buona cena. Da Badun a Beyrut la strada costeggia il
mare. Camminavamo per un tratto nella rena della spiaggia ed i nostri
cavalli bagnavano i piedi nelle onde salse; oppure seguivamo le traccie
di antiche strade elevate dall'epoca romana sui pendii rocciosi dei
monti che si ergono a picco fuor dalle onde. Passammo davanti alla
vetusta città di Biblos, le cui fortificazioni sono opera dei Crociati
e che ora ha il nome di Gibel. Durante questo tratto di strada, per la
prima volta dopo il mio arrivo nella Siria, incontrammo viaggiatori
europei, un ministro della Chiesa Anglicana colla moglie. Il marito
era vestito interamente di nero, come fosse sul punto di salire sul
pulpito, con una cravatta bianca e stretta, un cappello di feltro
candido accompagnato da un crespo nero. La moglie era vestita come
per una passeggiata in un parco inglese, salvo che portava sopra il
suo cappello una specie di cappuccio molto complicato fabbricato con
cartone, tela ed ossi di balena e destinato a garantirla dai raggi
del sole. Con tutto ciò l'ombrellino conservava i suoi privilegi ed
ondeggiava sopra il cappuccio. Questa coppia così poco orientale nelle
sue abitudini e nella sua apparenza era in missione. Non parlava altra
lingua che l'inglese e, munita di un certo numero di Bibbie, di una
grammatica e di un dizionario arabo, percorreva le città e le campagne,
i monti e le pianure, il deserto e i luoghi abitati, convertendo, o
cercando di convertire al protestantesimo tutti in un fascio turchi ed
arabi, mussulmani, idolatri, ebrei e cattolici.
La Siria è invasa, percorsa in tutti i sensi dai missionarii inglesi ed
americani, il cui candore e la cui buona fede sono incontestabilmente
superiori al tatto ed all'intelligenza. La conversione è divenuta,
per gli orientali, una specie di situazione sociale molto remunerativa
ed il convertito, che ha rappresentato questa parte due o tre volte,
diventa un uomo molto solvibile; possiede beni, si mette nel commercio
e fa fortuna. Ecco come le cose vanno in quasi tutte le sette e
religioni di quel paese; ma principalmente fra gli ebrei, che sono del
resto, non so perchè, i favoriti della propaganda protestante. Uno di
questi assiste più o meno a qualche conferenza tenuta dai missionarii,
per rispondere alle obbiezioni che gli infedeli potrebbero elevare
contro le dottrine di Lutero o di Calvino. Non ho mai assistito ad
alcuna di queste conferenze, ma confesso che vi sarei andata colla
maggiore premura se avessi potuto farlo in incognito per udire quei
curiosi dibattiti fra uomini educati e nutriti in tutte le sottigliezze
della dialettica religiosa ed i figli degeneri d'Israele o di Giuda
pei quali intelligenza e morale sono parole senza senso. Qualunque sia
la presumibile singolarità di queste conferenze, l'ebreo che abbraccia
il protestantesimo riceve una gratificazione od una pensione che è
però passeggera, cioè gli è pagata solo finchè non ottenga un onesto
impiego. Perde allora la pensione e si spegne l'ardore della sua
fede: parte, passa in una provincia poco frequentata dagli europei e
sovratutto dai missionarii, rientra nella sua comunione, se non trova
più proficuo d'abbracciare l'islamismo: ciò dipende da circostanze
assolutamente estranee alla fede. I suoi nuovi correligionari,
particolarmente se sono stati ben scelti, rivaleggiano in generosità,
se non in candore coi missionarii protestanti: non accordano
pensioni alla pecorella rintracciata, perchè le pensioni sono un
uso occidentale, non gli affidano lavoro da compiere trattandosi di
un genere d'incoraggiamento che è ritenuto poco adatto per attirare
proseliti; ma tutte le case gli sono aperte ed il penitente va a
dormire dall'uno, a mangiare dall'altro e si fa vestire dal terzo.
Ciò dura qualche mese, poi il ricordo della sua conversione si perde e
la pecorella negletta ritorna allora a mettersi a portata di qualche
pio missionario evangelico, badando solo ad evitare il teatro delle
sue prime gesta e l'incontro del suo precedente benefattore. Vi sono
parecchi mascalzoni che hanno passato così la loro gioventù a vagare
di chiesa in chiesa senz'altro scopo che di alimentare una vita di
ozio nè altro risultato che di gettare il discredito, e qualche volta
anche il ridicolo, sugli sforzi, del resto onorevolissimi, del clero
protestante.
Beyrut, ove giungemmo un giorno e mezzo dopo aver lasciato Badun,
segnava il termine della marcia faticosa che aveva avuto Alessandretta
per punto di partenza ed i cui incidenti mi parvero atti a mostrare
l'ospitalità orientale in qualcuno de' suoi tratti caratteristici.
A Beyrut cominciava per me un'altra serie di spettacoli. Non era
più verso l'Oriente mussulmano, ma su quello cristiano che la mia
attenzione si sarebbe ormai rivolta.
I paesaggi ed i monumenti dovevano ormai avere la loro parte
nell'interesse svegliato in me fino allora quasi unicamente dai
costumi. Mi attendevano numerose sorprese ed anche qualche delusione.
Non era senza fatica che calpestando luoghi celebri dovevo vedermi
forzata a scordare i miei sogni per contemplare una realtà meno severa
o meno graziosa a mio gusto. Già al mio arrivo a Beyrut, riconobbi che
la mia immaginazione stava per essere esposta a qualche disinganno.
Scorgevo l'arida catena del Libano e cercavo invano cogli occhi le
foreste di cedri di cui parla la Sacra Scrittura. Questi cedri esistono
in realtà, ma non occupano più di mille o milleduecento pertiche
quadrate, mentre il Libano copre un'intera regione. Da questo genere
di sorprese è minacciato ogni viaggiatore che visiti le terre bibliche
recandovi il ricordo troppo vivo dei sacri testi. Fui messa così
sull'avviso e, tra le impressioni che si collegano per me al soggiorno
di Beyrut, questa è la sola che mi abbia lasciato serie traccie.
Quanto alla città in se stessa, si può definirla con una parola: fra le
città dell'Asia è la meno asiatica; fra le città dell'Oriente è la più
europea.


IV.
GLI EUROPEI A GERUSALEMME — LA TURCHIA ED IL CORANO

LE MONTAGNE DI GALILEA E L'ANTICO REGNO DI GIUDA
Giunta all'ultimo periodo del mio viaggio, attendevo con qualche
impazienza i compensi alle faticose giornate che avevo passato da
qualche mese sulle strade dell'Asia Minore. Posso dire che quest'attesa
fu soddisfatta? Malgrado i ricordi vivaci e dolci che serbo del mio
soggiorno a Gerusalemme, devo confessare che più di un disinganno mi
era riservato, e che troppo spesso fu messa alla prova la mia tendenza
ad anticipare colla fantasia l'aspetto di luoghi celebri ed a restare
quindi fredda dinanzi alla realtà. Fortunatamente io cercavo altro nel
Levante che dei paesaggi e dei monumenti. È la vita orientale, ma la
vita dell'Oriente cristiano questa volta, che nell'antica metropoli
ebraica richiamava anzitutto la mia attenzione; e avrei potuto farmi
un'idea dell'ospitalità monastica. Dopo essermi riposata via via sotto
il tetto dei mufti, nei palazzi dei principi della montagna, e nelle
ville dei consoli, mi apprestavo a vivere sempre più, da Beyrut a
Gerusalemme, in mezzo ai numerosi rappresentanti che il mondo cattolico
ha tuttora in Oriente. Era un nuovo argomento di studio che mi si
offriva per distrarmi dalle aspre emozioni della vita nomade.
Non avevo per altro preso congedo da questa vita ed appena esciti da
Beyrut ci ritrovammo alle prese coi mille ostacoli d'un viaggio in
Oriente. Non fu che dopo una marcia delle più faticose, iniziata di
giorno, proseguita di notte, che raggiungemmo Seida[30], la nostra
prima tappa. Una volta arrivate a Seida, ci affrettammo a battere
alla porta del «Khan» francese, perchè Seida ne possiede uno ed
i viaggiatori europei, che passano per questa città, lo conoscono
bene. Il padrone del Khan è al tempo stesso uno dei più simpatici
agenti consolari che la Francia conti in Oriente. Munita di una
raccomandazione del console di Francia a Tripoli pel suo collega
di Seida, vi fui accolta con una cordialità che mi fece rimpiangere
vivamente di non poter farvi una sosta più prolungata sotto il tetto
di quel Khan francese. Il console che mi riceveva così simpaticamente
ha una numerosa famiglia, forse dieci figli. Riscuote uno stipendio
scarso, garantito in gran parte dalla rendita dell'ospizio, il
cui ammontare diminuisce continuamente. La carovana che veniva a
sorprenderlo era composta di circa venti persone, senza contare le
guide, i mulattieri e la mia scorta indigena. Non avevamo mangiato
da circa ventiquattr'ore, ed avevamo passato una notte senza sonno.
Nondimeno ci saremmo fatti uno scrupolo di far colazione a spese di un
ospite di cui conoscevamo la situazione difficile e ci proponevamo,
dopo una breve visita al console, di andare a far colazione con
provviste comperate al bazar sotto i primi alberi che avremmo
incontrato all'escire di città. L'estrema cortesia dei console non
ci permise di eseguire un piano così ben architettato. Comprendemmo
facilmente che le insistenze del nostro ospite non erano vane formole
di urbanità. Alle nostre reiterate obbiezioni egli oppose argomenti
irresistibili conducendoci in una sala da pranzo ove, su una tavola
imbandita all'europea, fumava in nostro onore una splendida colazione.
Fu necessario allora di arrendersi ed il console francese venne tanto
più facilmente a capo de' miei scrupoli in quanto che l'Asia non
era rappresentata in quell'imbandigione che da frutti squisiti e da
eccellenti confetture.
E mentre noi facevamo una così gradevole colazione il nostro seguito
era trattato colla medesima liberalità, sicchè lasciammo il Khan
francese con un sentimento di gratitudine che il miglior pasto non
basta talora a suscitare. Ci rimaneva da raggiungere Gerusalemme il più
presto possibile. Il console di Seida ci diede tutte le indicazioni
necessarie e, secondo il suo consiglio, ci avviammo invece che a
Giaffa a Nazareth donde un giorno o due di marcia dovevano condurci a
Gerusalemme.
Il rimanente di questa giornata così ben cominciata passò senza
incidenti; terminò, dopo una marcia abbastanza lunga, in una locanda
di Sur (l'antica Tiro). Il padrone dello stabilimento era una specie
di meticcio, mezzo europeo e mezzo asiatico, il cui aspetto triste ed
abbattuto ci prometteva un cibo magro, promessa che fu mantenuta anche
troppo. Si deve credere che l'antica Tiro abbia esistito là dove oggi
sorgono le umili case di Sur? Se è così, non è mai accaduto che una
città grande e potente sia scomparsa più completamente sotto orribili
ciarpami. Come? Nemmeno un fusto di colonna! Non un arco, non un
pavimento! Palmira, Balbek, Ninive hanno lasciato vestigia di preziose
rovine. Ove sono le rovine di Tiro? Il mare ha senza dubbio inghiottito
tutta la capitale del re Hiram. Quanto a Sur, è una piccola e brutta
città, senza carattere nè originalità, eretta in una pianura ove il
sole di Siria non lascia crescere nessuna vegetazione.
La giornata seguente fu una delle più tristi del nostro viaggio.
Appena il sole era apparso sopra le montagne della Galilea, noi
eravamo in cammino lieti di lasciare quella malinconica locanda di
Sur. La strada che dovevamo seguire lungo il mare non aveva per altro
nulla di attraente; era stata recentemente il teatro di una scena
sanguinosa. Un piccolo bastimento, comandato da un capitano arabo e
noleggiato da pellegrini greci, spinto sugli scogli dai venti, era
venuto a naufragare presso la costa. I disgraziati pellegrini, in
maggioranza donne e vecchi, riempirono tosto l'aria delle loro grida
di disperazione. Furono trasportati a terra dal capitano e dai marinai
arabi della navicella, in vista di una ventina di cavalieri che si
erano adunati sulla spiaggia; ma man mano che sbarcavano cadevano
sotto i colpi di assassini che li massacravano e si impadronivano
delle loro spoglie. Non uno di quei poveretti era scampato alla morte
ed il capitano arabo era sospettato d'aver provocato il naufragio
per saccheggiare i passaggeri d'accordo coi cavalieri della costa. Il
capitano era stato arrestato, ma s'era tratto d'impiccio col pagare
una parte del prezzo del sangue. I cadaveri dei naufraghi erano rimasti
esposti sulla riva senza che nessuno si desse la pena di seppellirli.
Tale era per lo meno la voce pubblica, ma ebbimo la fortuna di non
scorgere alcuna traccia di quel recente massacro. Secondo tutte le
apparenze gli uccelli di rapina delle vicine montagne avevano già
terminato il loro banchetto.
L'aspetto dei luoghi che attraversavamo non era punto fatto per
distrarmi dalle impressioni destate in me dal racconto del massacro
di Sur. Un calore opprimente gravava su di noi. I piedi dei nostri
cavalli affondavano, fin sopra la caviglia, in una sabbia cocente. Alla
nostra sinistra, al posto del Libano incoronato di villaggi, avevamo
le aride montagne di Galilea. Dopo qualche ora di marcia, raggiungemmo
una specie di oasi costituita da qualche cespuglio con un tenue filo
d'acqua che serpeggiava fra quei pochi arbusti. Ci parve prudente di
sostare attendendo con pazienza all'ombra di quella macchia, che il
sole cominciasse a declinare, ma dovemmo pentirci amaramente di tale
decisione. Quando volemmo rimetterci in cammino ci accorgemmo che una
strana malattia aveva colpito i nostri cavalli. La maggior parte delle
nostre cavalcature, che sembrava avesse goduto fino allora d'una salute
eccellente, non si trascinava più che con un'estrema lentezza. Madide
di sudore, l'occhio spento e la pelle gelata, quelle povere bestie
sembravano agonizzanti. Ci risolvemmo a mandare innanzi i più malati
sotto la sorveglianza di uno dei nostri domestici, buon tedesco del
Ducato di Baden, molto pio ed onestissimo, per ciò che ci risultava;
poi, pensando che gli altri cavalli avrebbero sempre facilmente
raggiunto la nostra avanguardia, demmo loro qualche istante di riposo.
Sgraziatamente questa nuova sosta non fu meno fatale della precedente.
Ci eravamo appena rimessi in cammino, quando uno dei nostri cavalli,
di una buona razza d'Anatolia, si fermò fra i gemiti. L'uomo che lo
cavalcava saltò a terra e si rassegnò a seguirci adagio tirandolo
per la briglia. Un altro cavallo diede ben presto gli stessi segni
d'esaurimento e pochi passi più in là incontrammo il nostro Badese
che ci aspettava a fianco di un cavallo turcomano steso al suolo e
prossimo a spirare. Egli ci confessò poi d'aver mancato di pazienza
e di esser ricorso, per combattere la spossatezza del cavallo, ad un
mezzo poco caritatevole, quello di spingerlo dinanzi a lui coprendolo
di bastonate.
Continuammo alla meglio la nostra marcia fra i lamenti dei cavalli
e le imprecazioni dei cavalieri, ma malgrado i nostri sforzi il sole
tramontò prima che avessimo potuto raggiungere un villaggio designato
per la nostra sosta notturna e di cui credevamo di avere perfettamente
ritenuto il nome. Per evitare il ritorno degli incidenti della giornata
ero decisa di non fermarmi più prima di essere arrivata alla meta.
Proseguivo dunque malgrado l'oscurità fidandomi delle indicazioni
del dragomanno e credendo di trovarmi sulla strada del villaggio.
D'un tratto m'accorsi che nella mia premura avevo lasciato dietro a
me tutta la mia scorta. Non mi vedevo più al fianco che mia figlia
Maria, il dragomanno e due domestici. Questi mi tranquillarono sulla
sorte de' miei compagni che dicevano seguirci alla meglio rianimando
le loro cavalcature. Stimolai allora di nuovo il mio cavallo mentre
il nostro dragomanno ci precedeva nell'atteggiamento di un uomo che
ha sempre il suo posto segnato dalla natura nelle prime fila. Illusi
da una presunzione così sicura di sè, cavalcavamo dietro di lui con
una ingenua fiducia che doveva ben presto essere punita. Infatti il
dragomanno non sapeva meglio di noi dove andassimo. L'oscurità intanto
cresceva, le rocce prendevano intorno a noi forme bizzarre, il menomo
cespuglio si trasformava ai nostri occhi in un gruppo di viaggiatori
in ritardo, le strida degli uccelli notturni risuonavano alle nostre
orecchie come voci umane. Quanto ai nostri compagni, ne avevamo
decisamente perduto le traccie.
Che brutte ore si passano lottando così contro la stanchezza della
marcia aggiunta alle allucinazioni dei sensi! E con qual gioia febbrile
sono accolti, dopo momenti simili, i primi indizi di una abitazione
umana! Fummo debitori di tal sentimento ad un profumo di aranci che
ci avvolse d'un tratto come in una nube. Questo profumo benedetto
ci annunciava la vicinanza d'un giardino, d'una casa, forse di un
villaggio. Rianimati dalla speranza spingiamo i cavalli nella direzione
di quell'olezzo inebriante e penetriamo in un labirinto di freschi
boschetti irrorati da acqua corrente! Giunti tosto nel bel mezzo di
un orto folto ci troviamo ai piedi di un pendio sormontato da case.
Un fuoco di stramaglia al quale si scalda una vecchia donna dal viso
tatuato in bianco e nero ci attira su una spianata che costeggia la
collina. Domandiamo notizie del resto della scorta. «Sonvi viaggiatori
nel villaggio che si scorge da qui?» — «Nessuno» risponde la vecchia.
— Nessuno? ma che succederà di noi? Una donna, una bimba, due uomini ed
un dragomanno, senza denaro e quasi inermi, a cavallo di bestie malate:
c'era di che agitarsi seriamente. Il dragomanno ordinò alla vecchia di
condurci dallo Sceicco del vicino villaggio. Essa, dopo qualche momento
di esitazione, si mise a correre dinanzi a noi. Risparmio al lettore
i particolari di ciò che accadde quando la seguimmo in un villaggio
diverso di quello in cui ci aspettava la nostra scorta e, scoperto
quest'inganno, raggiungemmo finalmente i nostri compagni accampati come
potevano in una casa araba del primo villaggetto che avevamo scorto.
Questi incidenti mi ricordarono altre noie di cui già avevo avuto
occasione di parlare narrando le mie prime impressioni di viaggio. La
notte che seguì una peregrinazione così laboriosa non mi procurò per
colmo di sventura alcun riposo. La camera che mi attendeva non era
coperta dal tetto che a metà e il vento che vi turbinava a suo agio
sollevava le ceneri del focolare in guisa da rendere impossibile il
sonno.
Malgrado gli inconvenienti di un asilo così misero, ci decidemmo a
passarvi la giornata seguente per medicare i nostri cavalli e numerare
le nostre perdite. Avevamo in tutto tre cavalli morti e tre altri
gravemente ammalati. Ma cos'era questa malattia? Avevano mangiato
qualche erba velenosa? Avevano bevuto troppo presto dopo il loro pasto
d'orzo? Il cavallo d'Oriente abbeverato prima del tempo è di fatti
colpito sovente da una paralisi, che si cura con bagni freddi alternati
a moto forzato. Del resto nessuno di noi seppe scoprire la causa del
male che ci aveva fatto passare una così triste giornata dalla nostra
partenza da Sur. Quelle povere bestie erano state trasportate in una
prateria all'ombra di fichi, ove le nostre tende erano state rizzate.
Il cadavere di uno de' miei cavalli favoriti, ch'era fra i morti, era
stato deposto poco lontano; dovemmo faticar molto a strappare di là,
quando giunse l'ora della partenza, un grosso mastino stabilitosi a
sentinella per scacciare gli uccelli di rapina e gli sciacalli che
ronzavano intorno. Strana cosa queste affezioni che si stabiliscono fra
taluni animali e che si possono osservare sopratutto in Oriente! In un
paese ove i rapporti degli animali cogli uomini sono rari, essi tendono
ad associarsi fra loro e serbano una specie d'indipendenza assai più
interessante a parer mio della sottomissione delle razze addomesticate
dei nostri paesi.
Il martedì della settimana Santa giunse quando camminavamo di buon
mattino sulla via di Nazaret con una pioggia dirotta tra i valloncelli
ai quali sovrastano le montagne della Galilea. Essi sono deliziosi coi
loro lauri, con mirti alti come le nostre quercie e che intrecciano le
loro ombre sulle aiuole verdi e fiorite. Salvo una caduta che feci, ma
che, per l'abilità del mio buon cavallo Kur, non ebbe alcun seguito
pericoloso, la giornata si era svolta normalmente. Non ebbimo altro
guajo fuor dell'arrivo a Nazaret a notte fatta, quando poche luci
sparse nella campagna ci preannunciarono sole il celebre villaggio.
Entrammo nelle sue strade senza poter distinguere nulla intorno a
noi, sinchè la nostra carovana si fermò dinanzi alla porta d'una casa
d'aspetto europeo. Un frate francescano stava sulla soglia con una
fiaccola in mano. Avevamo raggiunto il nostro asilo; e non fu senza una
profonda emozione che udii il monaco darmi il benvenuto in italiano
e con quell'accento del settentrione della penisola al quale la mia
infanzia è stata avvezzata. Provavo una gran gioia a sentir risuonare
sotto la volta di un chiostro orientale le pie formule che avevano
così spesso eccheggiato alle mie orecchie nelle campagne di Lombardia.
E perchè lo nasconderei? I canti dei mufti e la glorificazione del
santo nome di Allah cominciavano a stancarmi alquanto. Non avevo nulla
a ridire contro il Dio dei mussulmani; ma sapevo ormai che pensare
di coloro che lo invocano dal gorgo delle sensualità con labbra
corrotte dalla menzogna. Mi sembrava che il Dio dei cristiani era ben
differente; così la mia anima, rimasta fredda alle solenni invocazioni
dei mufti, si associava con slancio alle umili preghiere del frate di
Nazaret indirizzate alla Vergine Maria ed a San Francesco. Con questo
arrivo a Nazaret io entrava in un mondo interamente nuovo. Avevo
visto la società mussulmana, sapevo quali fossero nell'Asia Minore
i risultati del regime creato dal Corano. Quale poteva essere in
Oriente l'azione del Cattolicismo? Come mantiene la sua influenza fra
sette rivali e di fronte alla religione mussulmana? Mi ponevo questi
problemi, mentre ammiravo la bella cameretta ove stavo per passare la
notte. La casa dove ero scesa a Nazaret apparteneva al convento dei
Cappuccini; è specialmente destinata ai viaggiatori, perchè le donne
non sono ammesse nell'interno del convento. La mia camera era a volta,
secondo l'uso di tutti gli appartamenti in Palestina ed era scavata in
una specie di torre. Un letto di ferro, un mobilio semplice e comodo,
tutto mi vi ricordava la buona ospitalità dell'Europa... e nondimeno io
mi trovava a Nazaret! Entravo in una regione consacrata dall'adorazione
di tutte le epoche. M'ero dapprima rammaricata di dover giungere a
notte alta; qualche ora più tardi me ne rallegravo perchè avevo così
ritardato una prova penosa e singolare alla quale ho già accennato,
vale a dire l'incapacità di trarre dalla vista reale dei luoghi celebri
le emozioni che me ne procura in qualche guisa la contemplazione
interiore ed anticipata. Avevo già provato una delusione analoga ad
Atene ed a Roma. Mi ricordo ancora d'aver invidiato, nella pianura di
Maratona, l'emozione che il ricordo di Temistocle suscitò in uno de'
miei compagni di viaggio. Quest'uomo intelligente e colto aveva uno
spirito più positivo che poetico; ma io vidi una lagrima scorrere sulle
sue guancie e per me, lo confesso a mia vergogna, tutto ciò che potei
osservare nella mia visita a Maratona fu che in quel giorno vi faceva
molto caldo.
Finalmente si levò il sole ed io corsi alla mia finestra impaziente di
paragonare la realtà collo spettacolo adombrato tante volte in sogno.
Ed ecco ciò che potei vedere. La casa dei Francescani, fabbricata
nella parte bassa della città, che è scaglionata sul pendio di un
monte, dominava da un lato il fondo della valle, mentre dall'altro
guardava la città che si svolgeva in anfiteatro sopra la mia testa.
Il colpo d'occhio era ammirevole. Casette bianche, intramezzate da
fresche ombre, fra le quali spiccavano i fiori purpurei del melograno,
risaltavano vigorosamente sulla terra rossiccia. Tutto il paesaggio
era una festa per gli occhi; ma, ahimè, invano io cercava fra le donne
arabe di Nazaret i tipi che si era foggiata la mia immaginazione,
invano invocavo i grandi ricordi della Bibbia e del Vangelo. Nulla
valeva ad eccitare in me quell'entusiasmo che tanti spiriti eletti
aveano provato messi in presenza di quegli stessi luoghi. Umiliata e
scoraggiata andai alla ricerca del Padre Cappuccino che doveva farmi
gli onori di Nazaret. Egli mi addusse alla chiesa dell'Annunciazione,
poi nei vari santuarii eretti nelle località indicate dalle Scritture.
Senza discutere l'autenticità del monumenti di Nazaret, dirò
soltanto in cosa consistano. La chiesa dell'Annunciazione, piccola
e bizzarramente costrutta avendo la navata centrale meno profonda di
quelle laterali, sovrasta ad una cappella sotterranea ove vien mostrata
la colonna dinanzi alla quale la Vergine sarebbe stata inginocchiata
quando ricevette la visita del Messaggero Celeste. Osserviamo frattanto
che i padri di Terrasanta collocano in grotte sotterranee il teatro di
tutti i grandi avvenimenti dell'antico e del nuovo Testamento. Questa
circostanza si spiega colle abitudini che durano ancora in quella
popolazione che scava volentieri le sue dimore nel fianco dei monti.
A Nazaret la vita deve esser stata parecchi secoli or sono tal quale
è attualmente. Mi fu additata ancora una cappella eretta sul posto
ove Gesù Cristo si rifocillò co' suoi discepoli, un'altra destinata
a consacrare gli avanzi della casa abitata da Giuseppe. La cappella
ha muri imbiancati a calce e finestre adorne di tendine bianche
colorate in rosso. Ripugna di collocare in un luogo simile le scene
dell'infanzia di Gesù. A dir il vero l'origine delle indicazioni che
si danno qui sulle varie località illustrate dalle scene del Vangelo
non rimonta al di là dello stabilirsi a Gerusalemme della Custodia di
Terrasanta. Quei buoni frati sono stati i grandi raccoglitori delle
tradizioni locali. Su tutti i punti che esse segnalavano alla nostra
venerazione, hanno eretti santuarii e monasteri. Come si potrebbero
biasimare d'un eccesso di credulità che testimonia dopo tutto di una
fede ardente? Val meglio accogliere le loro narrazioni colla simpatia
che merita ogni slancio d'ingenua religiosità, ma colla riserva
eziandio che bisogna recare sempre di fronte a testimonianze trasmesse,
e spesso fors'anche alterate, dalla tradizione orale.
Il paese che si attraversa da Nazaret a Gerusalemme è l'antico regno
di Giuda; la popolazione che l'abita è oggi come un tempo temuta per
il suo carattere feroce e per la sua scostumatezza. Sulla strada da
Nazaret a Gerusalemme s'incontra anzitutto Naplusa, l'antica Samaria,
dopo aver oltrepassato una pianura incolta e deserta, sulla cui
sinistra sorge il Monte Tabor. Dinanzi al viaggiatore si svolgono
paesaggi votati alla siccità; una atmosfera infuocata vi stanca il
petto dell'uomo e denuda il suolo da qualsiasi vegetazione. Le torture
della sete divengono insopportabili. Quanto ai buoni samaritani di cui
parla il Vangelo, non conviene cercarli in quelle cittaduzze inerpicate
sulle vette dei monti vicini e che evita ogni pellegrino prudente.
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