La vita intima e la vita nomade in Oriente - 12

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Le nostre guide, due cristiani cattolici di Nazaret, ci raccontavano
lungo la strada storie poco rassicuranti che concordano troppo bene
coll'aspetto sinistro della contrada. La nostra prima notte trascorse
a Gienim, piccola borgata ove fummo ospitati nella casa di un medico
che per il momento si trovava a Gerusalemme. L'indomani riprendemmo
la nostra marcia attraverso solitudini alpestri in cui non si poteva
disconoscere la bellezza dei contorni. Roccie di forme bizzarre si
sovrapponevano intorno a noi, macchiate qua e là sui dorsi rossastri
da zone scure che vi indicavano abitazioni umane. In riva ai torrenti
inariditi crescevano lauri rosati ed ulivi secolari. Avvicinandomi a
Naplusa, il carattere fosco di quelle lande desolate, che vieppiù si
accentuava, mi ricordava, quasi a mio malgrado, la storia sanguinosa
dei re di Giuda. Su quelle vette scoscese erano stati eretti i templi
di Baal; in quei selvaggi valloni avevano echeggiato i canti blasfemi.
Con qual piacere salutavamo le oasi che recano in mezzo a quelle
sabbie ed a quelle pietre la freschezza delle vive sorgenti ed il
profumo dei fiori di campo! Ma le oasi sono purtroppo molto rare e non
consiglierei mai ai temperamenti melanconici, come una distrazione, un
viaggio nell'antico regno di Giuda. Il più intrepido esploratore che
fosse condotto cogli occhi bendati da Marsiglia ai dintorni di Naplusa
sarebbe colto da un senso di terrore al cadergli della benda che gli
scoprisse per la prima volta quella terra sciagurata.
Naplusa contrasta coll'orrore dei luoghi circonvicini. Protetta
da boschi di ulivi e di fichi, l'antica Samaria mi sembrò un asilo
delizioso e sarei stata felice di riposarmi in quella città dalle
fosche impressioni che mi avevano accompagnata a partire da Nazaret. Ma
eravamo al Venerdì Santo, non ci rimaneva che un giorno per arrivare
a Gerusalemme per le feste di Pasqua. Dovevamo passare la notte in un
villaggio a due leghe da Naplusa. Forti della nostra decisione, senza
entrare in Naplusa proseguimmo verso la nostra meta ancora lontana
traversando le montagne sulle quali è tuttora additato il pozzo
di Giacobbe, quello stesso accanto al quale il Cristo incontrò la
Samaritana. Agli ultimi bagliori del crepuscolo, scorgemmo un ammasso
di pietre recinto da un piccolo muro in rovina; era il celebre pozzo.
Debbo soggiungere che alcuni de' miei compagni, che ci raggiunsero lì
accanto dopo aver seguito un'altra strada, avevano veduto per conto
loro un pozzo designato come il teatro del colloquio di Gesù colla
donna di Samaria. Qual'è la vera tradizione? Dovetti rinunciare a
scoprirla.
La giornata seguente doveva terminare a Gerusalemme. Durante la
nostra marcia verso la città santa noi incontrammo parecchi arabi
che ritornavano da una festa costituente, secondo mi si disse, la
Pasqua mussulmana. Per la prima volta potei osservare testimonianze
non equivoche dell'odio dei maomettani contro i Cristiani. Gli uomini
che si scontravano con noi ci lanciavan dietro ingiurie e maledizioni
grossolane. Fui sul punto di perdere la pazienza e di chieder conto a
quei burberi pellegrini della loro condotta inurbana. Fortunatamente
avevo messo in quel giorno nell'arcione della mia sella un volume
di «Don Chisciotte» e mi bastò per riacquistare la calma di gettare
gli occhi sul romanzo ironico del Cervantes. Più tardi a Gerusalemme
riconobbi che un piglio schietto e qualche frase scherzosa mantengono
senza troppa fatica i buoni rapporti fra il cristiano e l'arabo più
fanatico. Bisogna fare attenzione di non mostrare a quest'ultimo
collera o paura che l'arabo interpreta come sintomi di debolezza e
che lo rendono allora spietato. Miss Harriett Martineau attribuisce al
suo abito la cattiva accoglienza che riceveva spesso dagli orientali.
La malevolenza di cui essa si lagna tocca a tutti i cristiani che non
sappiano recare fra le popolazioni mussulmane una forte dose di tatto e
di buona volontà.
Al momento in cui facevo queste riflessioni, la giornata volgeva al
termine. Già da qualche tempo osservavo che i villaggi appollajati
sulle montagne divenivano più numerosi, e che i gruppi dei viaggiatori,
che andavano e venivano intorno a me, si moltiplicavano. Il sole stava
per coricarsi dietro alle montagne prossime al mare, quando scorsi le
mie due guide immobili ed a capo scoperto sul vertice del pianoro che
sorgeva a pochi passi di distanza, e corsi a raggiungerli. Ciò che
le mie guide avevano scorto erano le mura merlate di Gerusalemme che
coronavano una collina posta di faccia al pianoro. Dietro a quelle mura
una linea azzurrognola che si fondeva nell'orizzonte indicava il mare
di Galilea. Mi abbandonai per un tratto alla contemplazione di quel
grandioso spettacolo. Uno strano tumulto si rivelava in me; sentivo
contrarsi la mia gola ed i miei occhi riempirsi di lagrime, come se
avessi ritrovato una patria più antica di quella da cui era esiliata.
Cosa strana, questa sensazione di benessere, di gioja intima non mi
lasciò mai durante il mio soggiorno a Gerusalemme. L'arrivo in questa
città sconosciuta aveva per me tutto il fascino del ritorno.
Alcuni minuti di buon galoppo ci condussero sotto le mura di
Gerusalemme e davanti alla porta di Damasco. Non lontano da questa
sorge la casa che i francescani tengono a disposizione dei viaggiatori,
e le ombre della notte scendevano appena sulla città quando smontammo
dinanzi all'ospizio che era ingombro di pellegrini. Si trovò per altro
per me una camera abbastanza comoda, mobiliata all'europea, ciò che
aveva un gran valore ai miei occhi. Ben presto vi fui insediata e vi
passai in un raccoglimento pieno di serenità la prima notte del mio
soggiorno nella città del Cristo.

I MONUMENTI DELLA BIBBIA E DEL VANGELO A GERUSALEMME
L'indomani era alzata di buon mattino per recarmi con uno dei Padri
alla chiesa del Santo Sepolcro ed al Calvario. Mi ero sempre immaginata
il Calvario come una collina dominante la città santa, e non fui
poco sorpresa di dover seguire per giungervi una strada in discesa.
La Chiesa del Santo Sepolcro è costruita in una depressione: non
mi fermerò a descrivere l'interno. Se non avete letto le numerose
narrazioni dei pellegrini che l'hanno visitata, potete figurarvi una
chiesa cristiana del Medio Evo, non ancora terminata, che offre le
linee curve, le vaste arcate che si possono osservare negli antichi
monasteri lombardi di Pavia e di Monza. A sinistra della porta si erge
una grande torre mezzo diroccata; a destra sporge come un saliente una
cappelletta sormontata da una cupola. Chi entra nella basilica si trova
dapprima in un ampio vestibolo che contiene nel muro di sinistra una
specie di palco riservato al «Cadi» mussulmano ed ai suoi assessori.
Questo tribunale permanente sarebbe stato richiesto (mi fu riferito
dagli stessi cristiani) come il solo mezzo di porre un termine ai
conflitti delle tre comunioni cristiane che si scontrano nella chiesa.
Pochi passi più in là si giunge nel corpo principale della basilica,
cioè in una rotonda che ha i lati guarniti di cappelle e nel centro un
altar maggiore. Presso l'altare una piccola porta bassa conduce nel
santuario che racchiude la tomba del Cristo. Una camera quadrata in
fondo alla porta d'ingresso è riservata al culto greco. Ecco tutto il
monumento. Ciò non vuol dire che ci si debba fermare a quest'aspetto
generale poco significativo; l'interesse proviene dall'esame dei
particolari e sopratutto delle varie cappelle contenute nel recinto
della chiesa.
La mia attenzione fu attratta innanzi tutto dalla cappella dei
Cristiani d'Abissinia[31]. Essi erano abbastanza numerosi quel giorno
dinnanzi all'altare, ed il loro aspetto mi colpì. Uomini d'alta
statura, di tratti regolari, non ricordavano la razza africana che coi
loro capelli crespi, il colorito bruno e le labbra un po' spesse. Una
sorta di sajo in tela bleu, un mantello dello stesso colore, un largo
turbante e dei sandali componevano il loro vestiario. Dopo la cappella
degli abissini ne visitai parecchie altre; ad ognuno degli episodi
della Passione corrisponde un santuario. Come supporre che uno spazio
così ristretto come quello della chiesa del santo Sepolcro, costruito
sul posto stesso sul quale sorgeva il Calvario, sia stato sufficiente
allo svolgimento di tanti diversi episodi del grande mistero? I
protestanti criticano questa pretesa dei cattolici di rintracciare
e venerare tutti i luoghi citati nel Vangelo. Confesso che su tutta
questa topografia sacra io non ho che dei dubbi, per quanto la buona
fede dei frati mi sembri evidente, ma ho già detto con qual sentimento
mi paja che si debbano accogliere le loro ingenue indicazioni.
Esciamo ora dal Santo Sepolcro, cerchiamo i ricordi di Gerusalemme in
luoghi un po' meno frequentati dai viaggiatori. Le mura della città
santa non sono uno de' suoi monumenti meno curiosi. Se havvi una città
al mondo che serbi intatte le fortificazioni delle quali fu dotata
dal Medio Evo, è certo Gerusalemme. Le basi di queste fortificazioni
dal lato della valle di Giosafat e del monte degli ulivi sono immense
pietre levigate di quindici a venti piedi di lunghezza per sette od
otto di altezza e che sono fatte risalire fino al re Salomone. Ho
veduto a Balbek un pezzo di muro presso a poco simile che è attribuito
agli Assiri, ed è certo che tali costruzioni non appartengono ad
alcun stile dell'architettura europea. D'altronde quel lato delle
fortificazioni di Gerusalemme è appunto quello che si accosta al
tempio costruito da Salomone od almeno al posto che esso occupava.
Mi sembra dunque che nulla si opponga a che quelle mura gigantesche
siano state collocate al tempo e per ordine del grande re degli ebrei.
Gerusalemme è situata su una altura che si eleva gradatamente dal lato
di settentrione e domina a picco la stretta valle dal lato opposto,
mentre all'Oriente ed all'Occidente il suolo che la circonda degrada
lentamente fino alle rive del Cedron o piuttosto del suo letto, che è
tutto ciò che rimane di quel torrente. Se seguiamo dal di fuori le mura
gerosolimitane da settentrione a ponente e da ponente a mezzogiorno,
troviamo prima un ciglione poco alto che si stende sulla destra e
forma così una spianata quasi al livello della città santa. È il solo
posto in cui le mura della cinta fortificata non dominano interamente
il paese all'esterno. Questo monticello è la «Città di Davide» di cui
gli Armeni hanno fatto il loro cimitero, e che, senza serbare alcuna
traccia del suo antico splendore, non è per questo meno visitato da
tutti i pellegrini che vi sono attratti da due monumenti celebri. Uno
è la sala in cui Gesù Cristo sedette per l'ultima volta a tavola co'
suoi discepoli, l'altro una cameretta ove passò la prima notte dopo
il suo arresto ed udì il canto del gallo che ricordò a San Pietro la
profezia del divino Maestro e la propria debolezza. Il primo di questi
monumenti è oggi la residenza di un derviscio o santone mussulmano che
l'insudicia con tutta la sporcizia inerente a quella specie miserabile
di uomini. È uno spettacolo penoso e ripugnante quello di un tal
luogo trasformato in una tana ed occupato da ciò che l'umanità ha di
più immondo e spregevole. Giustizia vuole però che io aggiunga come
questa profanazione non indichi nè disprezzo nè intenzioni ostili. Se
i maomettani disdegnano ed odiano i cristiani, non estendono questi
sentimenti nè al Cristo nè al cristianesimo. Anzi è probabilmente con
un proposito rispettoso che hanno posto in tale luogo un essere che la
loro religione li induce a venerare; ma è colpa delle cose più ancora
che degli uomini se la personificazione divina della purezza non può
essere convenientemente onorata dagli adoratori dei sensi. Quando si
è veduta la dimora di un santone, non è più possibile dubitare dello
stretto legame che esiste fra l'impurità dell'anima e quella del corpo.
Il secondo di questi monumenti, di cui gli Armeni si sono impadroniti
a scapito dei Latini che lo possedevano un tempo, ha un aspetto ben
diverso. Una piccola corte lastricata in marmo bianco e circondata da
un portico a volta e piuttosto basso racchiude le tombe dei vescovi
della Comunione armena. Una cappella forma il lato meridionale della
corte e non si potrebbe trovar nulla di più elegante, pulito ed
accurato dell'interno dì quel santuario, intarsiato di piastrelle di
majolica smaltata, genere di ornamento molto diffuso nel Levante. Una
porta alla sinistra dell'altare si chiude su una celletta così piccola
che si fatica a credere abbia mai potuto esser destinata a contenere
una creatura umana. Sarebbe là che Cristo avrebbe dovuto esser lasciato
tosto dopo il suo arresto al monte degli ulivi. Non è infatti una
prigione propriamente detta, ma un locale temporaneo di detenzione per
deporvi i catturati in attesa del loro interrogatorio. Tal quale è oggi
questa celletta assomiglia allo spogliatojo di una cappella di un bel
castello di campagna.
Continuando a seguire esternamente le mura di Gerusalemme da ponente a
mezzogiorno si scopre ben presto la valle di Giosafat che non è altro
in realtà che il letto del Cedron prosciugato, chiuso da un lato dal
colle che serve di base a Gerusalemme, dall'altro dal monte degli
ulivi. Un villaggetto arabo, che è tuttora chiamato Siloe, occupa il
fondo del vallone alla sua estremità occidentale là dove comincia un
poco ad aprirsi. Quasi in faccia a questo villaggio, ai piedi della
collina di Gerusalemme, scorre dolcemente l'acqua della fontana di
Siloe. Un muro quadrangolare grossolanamente costruito raccoglie
anzitutto le sue acque che vanno poi ad irrigare i giardini del paese.
Più lontano, sempre nel fondo della valle, ma dal lato di Siloe,
tre piccoli edifici di forma bizzarra racchiuderebbero gli avanzi di
Assalonne e di due de' suoi compagni. Subito dopo si scorge quasi ai
piedi del monte degli ulivi un muro bianco che serve di chiusura ad un
rettangolo di terreno sul quale crescono ulivi secolari e contorti.
È il giardino degli ulivi e fu il rifugio prediletto di Colui che ha
dimora nei Cieli.
Nessuno potrà questa volta contestare che sia quello il giardino degli
ulivi. Sebbene il muro di cinta sia moderno e possa racchiudere qualche
braccia di più o di meno dell'antico giardino, tutta questa parte della
collina è coperta di ulivi vecchi e, se non è sotto uno di essi che si
sedette il Cristo per piangere sopra Gerusalemme, alcuni di quelli che
vediamo oggi ne derivano di certo.
Un frate della Custodia di Terrasanta passa tutta la giornata dall'alba
al tramonto, senza escire da questo recinto; vi coltiva qualche fiore
e riceve i viaggiatori che la pietà o la curiosità vi attirano. Questi
alberi sono immensi e numerosi virgulti circondano le radici mezzo
scoperte. Ho invidiato la vita di quel monaco. La solitudine in un bel
giardino, all'ombra di alberi che si collegano coi più grandi ricordi
dei quali possa essere pervaso lo spirito umano, ha in sè un fascino
che forse è senza eguali nel mondo.
Un ponte gettato sul fondo della valle ove scorre il Cedron riunisce la
città al monte degli ulivi. Questo ponte e la strada che sale il pendio
separano il giardino degli ulivi da un gran monumento in cui sono
conservati gli avanzi mortali della Madonna. Tale per lo meno è la fede
di tutti i cristiani orientali, che si sono contesa e si contendono
tuttora la proprietà di quella tomba con un ardore appassionato. La
cappella, poichè è tale, ove si scende da una larga scalinata è ampia
e bella; ma il clero latino non ha il permesso di celebrarvi i divini
uffici. Dietro a questa cappella si trova la grotta ove Gesù Cristo
si sarebbe ritirato vedendo avvicinarsi i soldati che venivano ad
arrestarlo e dove sarebbe stato infatti preso e legato. Alcuni altari
eretti nell'interno di questa grotta sono proprietà del clero latino.
Il monte degli ulivi non è che una collinetta vicino alla quale sorge
una moschea. La pietra ove il Cristo era in piedi quando fu assunto in
cielo e che serberebbe, secondo dicono, la sua impronta, è conservata
nel recinto di questa moschea e riceve gli omaggi dei cristiani come
dei mussulmani. La distanza da questo luogo a Gerusalemme è poco
rilevante ed è dalla finestra di un piccolo belvedere annesso alla
moschea, che ho veduto la città santa sotto il suo aspetto, non dirò
solo il più bello, ma il più soddisfacente. L'occhio ne abbraccia
l'insieme senza perdere alcun particolare. Per noi altri cristiani
sopra tutto, che siamo condannati a non vedere il tempio, (attualmente
moschea d'Omar) che dal tetto d'una caserma, è una vera fortuna
questo belvedere. Gli eruditi affermano che tutto quello che esiste
attualmente là dove Salomone aveva innalzato il suo meraviglioso
edificio è una costruzione mussulmana[32] ed io mi asterrò, seguendo
la mia norma prudente, dall'immischiarmi in una simile discussione.
Posso dire però che la moschea di Omar non assomiglia ad alcuna delle
numerose moschee che coprono tutta l'Asia. Le moschee sono di solito
precedute da una corte, circondata da alte mura, alberata e rallegrata
da una fontana. Quella di Omar è invece collocata nel mezzo di un
immenso spazio vuoto, la cui forma quadrata è determinata da frazioni
di portico poste ad intervalli. Le moschee sono in genere composte di
una riunione di costruzioni svariate, come tombe, celle per alloggio
dei dervisci, fachiri o santoni, una sala per la danza dei dervisci
ecc., oltre lo spazio aperto a tutti i fedeli mussulmani che vanno
a farvi le loro preghiere. Ignoro la disposizione interna della
moschea d'Omar; può darsi che l'abbiano divisa in tanti appartamenti
quanti sono i giorni dell'anno, ma nulla rivela all'esterno un tale
adattamento che risulta evidente in tutte le altre moschee. Se apro ora
la Bibbia e leggo il capitolo sulla costruzione del Tempio di Salomone,
vi ritrovo il grande spazio vuoto, il portico ed il colonnato in giro,
infine tutto ciò che rende la moschea d'Omar così diversa dalle altre.
Dal canto mio, siccome dopo tutto le opinioni sul Tempio di Salomone
e sulla moschea d'Omar sono libere, preferisco pensare che rimanga
qualcosa del primo nella seconda.
La salvezza del mondo, se si dovesse credere ai mussulmani, è connessa
alla rigida applicazione della regola che tien lontani gli infedeli
dalla moschea d'Omar, ed ho rischiato di procurarmi un guajo serio
quando scorgendo, sotto una volta che conduce alla moschea, delle
finestre ogivali che mi ricordavano la vecchia e cara Europa, feci
qualche passo per esaminarle meglio. Ero ancora sotto la prima arcata
e mi ero fermata a guardare le mie ogive quando un gigante snello,
quasi nero e quasi nudo, si accostò non a me, ma agli uomini che si
trovavano vicino a me, con una violenza di gesti e d'intonazione che
rendevano la sua barbara loquela fin troppo intelligibile. Era evidente
che ci minacciava di tutto il suo furore se non ubbidivamo a ritirarci
immediatamente. La mia avversione per ciò che noi italiani chiamiamo
prepotenza, mi dava una gran voglia di camminare diritto dinanzi a
me; ma un ottimo vecchietto che si era fatto per quel giorno il mio
cicerone si mostrò tanto allarmato e desolato, parlò all'arabo con tale
rapidità e prolissità che credetti di dovermi rimettere, per riparare
i miei torti, alla prudenza ed all'eloquenza della mia guida, ed era
senza dubbio il miglior partito da prendere. L'arabo non ci lasciò che
dopo averci visto retrocedere.
Gerusalemme non è solo la città del Cristo, è anche quella dei Re e dei
Profeti. Accanto ai ricordi del Vangelo vi si incontrano quelli della
Bibbia. A Gerusalemme vi sono anzitutto le grotte d'Isaia ed i sepolcri
dei Re; nei dintorni della città i giardini di Salomone, più lontano
ancora il Giordano e il Mar Morto. Riassumendo qualche impressione
su questi luoghi spesso descritti, completerò la mia peregrinazione
attraverso la Gerusalemme storica ed a' suoi dintorni, per passare
quindi alla Gerusalemme vivente, in mezzo alla quale ho trascorso i
primi giorni della primavera del 1852.
Le grotte d'Isaia mi hanno offerto l'occasione di osservare una
volta di più il gusto col quale gli Orientali, Turchi od Arabi, sanno
scegliere per le loro case i luoghi più pittoreschi.
A pochi passi da Gerusalemme, in mezzo a campagne ombreggiate da ulivi
magnifici, sorge una collina rossastra ed entro le sue pareti è stato
scavato uno stretto passaggio. Questo passaggio conduce alla grotta
d'Isaia, ampia cavità tappezzata di arrampicanti. Fra il passaggio e
l'ingresso della grotta si osserva una specie di giardinetto all'ombra
di un vecchio fico dai rami molto larghi. Vive colà un santone che
mi sembrò assai felice. Non so se questi monaci mussulmani facciano
voto di povertà, ma sono convinta che non possiedono nulla e che
quest'estrema indigenza non pesa loro affatto. Il santone della grotta
d'Isaia ha un vantaggio sui suoi confratelli, di condurre cioè quella
strana vita di fronte ad una magnifica natura. Dà prova di un gusto
squisito nella scelta della sua residenza e questo gusto distingue, lo
ripeto, tanto gli arabi che i turchi. Gli uni e gli altri sanno sempre
trovare per i loro villaggi la postura più comoda, le ombre più fresche
e le acque più limpide.
Dalla grotta d'Isaia non occorre camminar molto per giungere al
sepolcreto degli antichi re d'Israele. Per poco che ci si inoltri, in
mezzo a quel labirinto di boschetti e di roccie, si va presto a battere
contro un vecchio muro, che serve da cinta ad una specie di corte.
Sulla porta è scolpito un bassorilievo raffigurante una ghirlanda
di pampini, che mi sembra difficile di poter attribuire all'epoca
dei re d'Israele ed alla nazione ebrea. Si passa ginocchioni sotto
questa porta. Si entra ancor meno facilmente nelle sale sotterranee
che costituiscono il sepolcreto. Queste sale sono vuote; un tempo
comunicavano fra loro mediante porte massiccie in pietra che sono state
scardinate e giacciono al suolo. La sola impressione che produce questa
necropoli è il desiderio di allontanarsene, di varcarne la soglia
il più presto possibile, tanto è stretta che ai visitatori sembra di
essere condannati al carcere perpetuo.
Allontaniamoci ora un poco; traversiamo Betlemme, bel villaggio quasi
intieramente costruito in pietra bianca e posto sul fianco dirupato di
un monte: andiamo verso i giardini di Salomone. Ci piace credere che il
Cantico dei Cantici sia stato inspirato da quelle fresche ombre.
L'impressione prodotta da quell'asilo delizioso è tanto più viva,
in quanto che per giungervi occorre affrontare una marcia faticosa
attraverso ad una delle regioni più aride della Giudea. Effettivamente
i miei occhi non avevano mai veduto lo spettacolo di più ricche aiuole
di fiori olezzanti, nè mai canti di uccelli più melodiosi avevano
risuonato alle mie orecchie. Stavo forse per veder apparire il Re e
la Sunamite in mezzo a quel paesaggio fatato? Ero quasi tentata di
crederlo, allorchè uno spettacolo molto inatteso venne a dissipare
le visioni che mi sforzavo di evocare, e mi trovai frammista ad una
«party» inglese. Una di quelle colonie britanniche che si incontrano
su tutti i punti del globo si era impossessata per la stagione estiva
dei giardini di Salomone e li aveva presi in affitto, come si può
fare di una casa di campagna a Saint Cloud o di una villa a Capo di
Monte. Tende di forma e di colore variate formavano l'abitazione della
società; ma durante il giorno erano vuote e tutto lo sciame si godeva
la prateria ed i boschetti. Vi erano signore in abito da mattina
altrettanto corretto che se avessero abitato un castello in piena
Inghilterra, poi un'ondata di signorine giovani vestite di bianco
che lasciavano scendere le loro treccie sparse di nastri celeste e
rosa, sulle loro spalle scoperte. Un poco più in là scorsi un gruppo
di «gentlemen» in costume di caccia intenti ai lavori della campagna.
Venni a sapere che la colonia era composta di missionari che si erano
proposti il compito di additare agli arabi, e specialmente agli ebrei,
i risultati salutari delle società bibliche e degli aratri brevettati.
Non si può negare che sia un pensiero poetico e gentile quello di
valersi dei giardini di Salomone per introdurre in Palestina i benefici
della civiltà; ma è un'idea sterile che naufragherà certo contro
l'invincibile forza d'inerzia di quelle popolazioni.
Volete sapere ora qualcosa di un'escursione al Giordano od al
Mar Morto? Per questo complemento di rito di un pellegrinaggio a
Gerusalemme è prudente assicurarsi una buona scorta. Il pascià di
Gerusalemme, al quale avevo annunciato la mia intenzione di visitare le
rive del Giordano, mi aveva posto sotto la protezione di uno sceicco
arabo, singolare protettore che era, dovetti presto convincermi,
l'agente degli sceicchi del deserto, incaricato di farsi pagare un
riscatto dai viaggiatori a casa loro. Lo sceicco arabo, vecchio di
una sessantina d'anni, venne infatti a trovarmi due giorni dopo la mia
visita al pascià e mi presentò una specie di passaporto che mi avrebbe
immunizzata, secondo lui, da qualsiasi cattivo trattamento delle tribù
del deserto durante tutto il mio viaggio, ma che non mi dispensava
per altro dall'assoldare una scorta e mi obbligava anzi a pagare cento
piastre a testa, in parte prima della partenza ed in parte al ritorno.
Questo metodo nuovo e pacifico di spillare quattrini ai viaggiatori
deve essere estremamente redditizio, perchè la sola nostra gita al
Giordano faceva passare nelle mani degli arabi mille duecento piastre.
Una volta che ciò fu deciso, ci mettemmo in istrada verso le nove del
mattino con alcune persone del consolato di Francia che si erano unite
a noi.
Io avevo l'animo oppresso e lo spirito inquieto. Temevo per mia
figlia i calori deprimenti che regnano sulle rive del Giordano e
del Mar Morto. La nostra spedizione, fortunatamente, non ebbe alcuno
strascico dannoso per quanto abbia messo più di una volta alla prova
il nostro coraggio. Da Gerusalemme al convento di San Saba, meta della
nostra prima tappa, la distanza non è lunga, ma possono bastare poche
ore per far molto soffrire. Cavalcavamo fra roccie che colla loro
bianchezza smagliante e coll'assoluta aridità ci rendevano doppiamente
penoso il riverbero della luce e del caldo. Finimmo per dimenticare
un momento le nostre sofferenze scorgendo una stretta gola dominata
da montagne ed il cui fondo scompariva sotto un'agglomerazione di
blocchi giganteschi. Quel dirupo era il letto diseccato del torrente
Hebron. Una delle montagne che lo stringono ci appariva scavata da
numerosissime grotte nelle quali si asserisce che abbiano vissuto
San Saba ed i suoi discepoli; l'altra montagna, che sorge sulla riva
sinistra del torrente, è coperta da diversi edifici, case, chiese,
fortilizi circondati da un solo muro di cinta. Questo gruppo di
fabbricati non è una rocca come si potrebbe credere, ma il convento
di San Saba, proprietà della chiesa greca ed abitato da monaci che
dovettero sostenere parecchi assedi per difendere i loro ricchi beni
dai tentativi degli arabi. Per solito, l'ospitalità dei monaci greci
di San Saba è molto fastosa, ma era loro accaduta pochi giorni prima
della nostra visita una curiosa avventura. Parecchi giovani inglesi,
muniti di lettere di raccomandazione del Patriarca greco per il
superiore del convento, avendo avuto da lamentarsi del ricevimento loro
fatto dai monaci, non avevano trovato altro di meglio che picchiare
di santa ragione i venerandi padri, più avvezzi a valersi della loro
artiglieria contro gli arabi che a respingere un assalto di box e
di bastone. Da che quei temibili ospiti li avevano lasciati, i frati
greci di San Saba, avevano giurato di non aprir più il loro convento
a verun straniero, se anche recasse una lettera dello stesso Czar
ortodosso. Pertanto quando, esausti di sete e di stanchezza, battemmo
alla porta del monastero, non ottenemmo altro esito che di richiamare
sul bastione un monaco che brandiva un'enorme pietra minacciando
di gettarcela sul capo se ci fossimo fermati più a lungo. Il nostro
sceicco arabo intervenne allora e chiese, non di poter entrare nel
monastero, ma di poter comprare qualche provvista. Queste trattative
fecero accorrere sulle mura altri frati armati di fucili coi quali ci
prendevano di mira. Eravamo sul punto di accettare battaglia, quando un
nuovo sforzo d'eloquenza dello sceicco ebbe finalmente ragione della
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