La vita intima e la vita nomade in Oriente - 13

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resistenza dei monaci che consentirono a calare dall'alto di quel
bastione colle corde qualche secchio ricolmo di un'acqua tiepida che
ci dividemmo avidamente. Solo gli uomini a cavallo della nostra scorta
araba rifiutarono di bagnarvi le labbra. Avvezzi alla vita sobria del
deserto, essi non provavano alcuna delle sofferenze dei nostri compagni
europei: all'ora del mezzogiorno, dopo una mezza giornata di marcia,
erano così calmi e freschi come al momento della partenza.
Non avendo potuto fermarci a San Saba, non cessammo di camminare fino
al termine della giornata.
Bivaccammo la notte ai piedi di una torre diroccata, nelle vicinanze
di San Saba ove i monaci si degnano di tollerare la presenza dei
viaggiatori. L'indomani ci rimettemmo in marcia prima del levar del
sole ed eravamo giunti sul culmine delle ultime montagne che delimitano
la valle del Giordano, quando il sole cominciò a levarsi. Dapprima non
vedemmo che una coltrice di nebbie stesa ai nostri piedi. Poco alla
volta quelle nebbie si raggrupparono formando una specie di padiglione
sopra le nostre teste, fortunato presagio di una di quelle giornate
nuvolose così rare in Oriente a quell'epoca dell'anno. Vasta e spoglia
la valle del Giordano si apriva davanti a noi. Alla nostra destra era
chiusa da una distesa di acqua nerastra sulla quale ondeggiavano ancora
i vapori del mattino. Era quel Mar Morto che batte colle sue onde le
rovine di Sodoma. A sinistra la valle si stendeva lontano quanto poteva
giungere la vista, sempre arida e sempre sterile. Dov'era dunque il
Giordano? Per quale via si gettava nel Mare Morto? Dall'altura su cui
mi trovava io non scorgeva nulla che mi annunciasse il corso di un
fiume, nulla, salvo ad una grande distanza una linea di un verde cupo
quasi impercettibile che risaltava come su un fondo cretaceo.
Fatta una breve sosta, prendemmo la via della valle ed impiegammo
più di due ore nella discesa, giacchè il Mar Morto è uno dei posti
più bassi del globo. Ci fermammo un momento sulle rive. Uno dei
nostri compagni pretendeva di trasportare nella valle del Giordano
le abitudini parigine e trovava il posto comodo per farvi colazione,
sicchè ebbimo molto da penare per mostrargli l'imprudenza di un pasto
simile lontano da ogni acqua potabile, quando eravamo ancora separati
dal Giordano da una tappa abbastanza lunga. Finalmente riescimmo a
convincerlo ed io mi allontanai dal lago Asfaltide pensando invece a'
miei bei laghi lombardi. L'idea di un lago si unisce a tal punto in me,
lo confesso, ad impressioni di calma e di gioia che mi era difficile,
anche in vista del Mar Morto, di pensare alla sua terribile origine.
Senza dubbio la regione che circonda questa terra è aspra e triste,
ma il limpido specchio delle acque salse riflette in modo mirabile la
bellezza del cielo. Si è narrato che i pesci non possono vivere nel Mar
Morto, che gli uccelli lo evitano, che niuna vegetazione vi projetta
la sua ombra; ebbene posso assicurare che a quel lago maledetto
non mancano pesci guizzanti e vivi, arbusti fioriti ove cantano gli
uccelli, che nulla gli manca, fuor dell'acqua che si possa bere. Ma,
malgrado la mia predilezione per i laghi che rimonta all'infanzia,
lasciai il Mar Morto senza troppo rammarico. Due ore di marcia erano
trascorse dalla nostra fermata in riva al Mar Morto e non vedevamo
ancora nulla. La strada seguiva un pendio ripartito in immensi gradini
e che si svolgeva dinanzi a noi come una scala gigantesca di cui
non potevamo intravedere il termine. D'un tratto osservai una certa
agitazione fra i nostri arabi. Stendevano il braccio verso il sud
pronunciando rauchi monosillabi; i nostri cavalli nitrivano rialzando
il capo; presero il galoppo, e noi li lasciammo correre sebbene nessun
fiume ci apparisse. Nondimeno cominciai ad udire un sordo mormorio,
finalmente giunti al basso della strana scalinata di roccie, che ci
nascondeva il fiume, scorgemmo uno degli spettacoli più impressionanti
che abbia ammirato durante il mio viaggio. Dinanzi a noi il Giordano
trascinava fragorosamente le sue acque un poco fangose, ma profonde ed
abbondanti, fra due sponde coperte di alberi immensi e, per così dire,
ammucchiati gli uni sugli altri. Entrammo in quella foresta, ma non fu
senza fatica che ci aprimmo un varco fra le macchie degli arrampicanti
tutte ripiene del ronzio di miriadi di insetti alati. Una volta in
riva all'acqua corrente mi affrettai a cercare un angolo solitario ove,
dopo aver mangiato qualcosa, potessi abbandonarmi alla contemplazione
del fiume sacro. Passai così parecchie ore in un raccoglimento che non
potè turbare neppure un allarme dato alla nostra scorta dall'apparire
di una tribù di predatori, subito dispersi. Spero di conservare tutta
la vita il ricordo chiaro e distinto delle ore affascinanti di riposo
passate in riva al Giordano, spero che l'immagine di quelle acque, di
quelle rive, di quei boschi non si cancellerà mai dalla mia memoria.
Il Giordano non è solo un gran fiume storico, è un fiume meraviglioso e
che trasforma intorno a sè la natura come per un incantesimo.
Ritornammo a Gerusalemme da una strada diversa da quella che ci
aveva condotto, con tanta fatica, fino al Giordano. Fra i ricordi di
quest'ultima parte della nostra escursione, il solo che abbia presente
è quello di un'ora passata presso una torre in rovina, di costruzione
araba, in mezzo ad un delizioso boschetto. Questa torre sorge nelle
vicinanze della città di Gerico o piuttosto dell'ammasso di capanne
informi che si chiama così e che ha preso il posto della fortezza
rovesciata dalle trombe di Giosuè. L'ora di riposo che gustai là dove
sorgeva l'antica Gerico fu gradevolissima. Avevamo stabilito il nostro
accampamento sotto alberi da frutta, in mezzo a fresche aiuole che i
più bei parchi dell'Inghilterra avrebbero potuto invidiare alla piana
del Giordano. Quelle verdi oasi, gettate qua e là fra le sabbie, sono
una delle singolarità di questa terra araba. La fantasia vi evoca
involontariamente tipi poetici, e vorrebbe crearvi un popolo che ne
fosse degno. Oh, perchè l'umanità non vi deve apparire che sotto le
spoglie le più misere al cospetto di quella grande e magnifica natura?
Ritornati a Gerusalemme il giorno seguente, non avevamo più nulla da
imparare sui luoghi e monumenti di Terrasanta; è sugli abitanti che la
nostra attenzione doveva riportarsi.

I PROTESTANTI E GLI EBREI A GERUSALEMME — GLI OSPIZI
Se anche i luoghi e i monumenti non avessero alimentato la mia
curiosità, Gerusalemme mi avrebbe offerto un simpatico argomento di
studi, l'ospitalità cristiana in Oriente. Ho passato fra i monaci e le
suore di carità alcuni dei migliori momenti del mio pellegrinaggio.
Gli uni mi incantavano colla loro ingenua bonarietà, le altre
vegliavano con materna cura sulla mia figliola, giovane neofita che
la direttrice di quella Comunità, una donna amabile e dolce, giudicò
degna di accostarsi ai Sacramenti con grande sorpresa di taluni di
quei religiosi che mi credevano dedita al culto ed alla pratica delle
dottrine di Voltaire e di Rousseau. Il giorno della prima Comunione era
arrivato e la cerimonia fu a parer mio molto commovente. Il Sacramento
era conferito a due sole giovinette, a quella che non ho più bisogno
di nominare e ad una giovane tedesca che aveva appena abjurato il
Protestantesimo e che s'incominciò dal battezzare. Scopo palese di
quest'ultima cerimonia era di far credere alle anime semplici che
i luterani non fossero cristiani, ma l'atto non era per questo meno
contrario alle vere intenzioni della Chiesa che non permette un secondo
battesimo condizionale che nei casi in cui è realmente dubbio che
il primo sia stato amministrato. La sola scusa che avrebbero potuto
invocare i promotori di quella manifestazione ostile ai protestanti
consisteva nelle prove di malevolenza che quei medesimi protestanti
risparmiavano tanto poco alla minoranza cattolica, in lega coi
mussulmani, greci, ebrei e gli armeni scismatici, attualmente così
numerosi a Gerusalemme.
Bisogna ammettere che tutte le simpatie dei protestanti vanno in Siria
agli ebrei. Ma devo anche confessare che gli ebrei sono circondati a
Gerusalemme da un certo prestigio poetico. Un giorno della settimana,
sopratutto, ed un'ora particolare, richiamano volontieri l'interesse
su quello strano popolo: l'ora del mezzogiorno di ogni venerdì. Si
vedono allora gli ebrei riunirsi fuor delle mura esterne del loro
tempio trasformato in moschea, in un punto in cui le antiche pietre
sono ancora ritte: ivi piangono e si lamentano, in conformità alle
parole del profeta, sui loro peccati e la loro caduta. Ebbi voglia
di ascoltare una volta quei lamenti settimanali e me ne partii
profondamente commossa. Vi è in quell'usanza un sentimento vero che
non può non commuovere. Dacchè Tito prese Gerusalemme, ogni venerdì
le lamentele degli ebrei si rinnovano su quei sacri ruderi. Sembra
forse agli eterni proscritti che la vecchia patria risponda una
volta la settimana all'appello della loro voce lamentosa? Non so; ma
quel punto dell'antico Israele è abbastanza forte per attrarre ogni
anno, verso Gerusalemme, schiere di emigranti israeliti dal fondo dei
più ridenti villaggi della Germania. Questi strani coloni popolano
quasi esclusivamente le città di Safed e di Tiberiade. Non vengono a
coltivare la terra, nè a scambiare le merci europee coi prodotti di
un paese remoto, no, vengono a chiedere un sepolcro alla terra che
ricopre le ossa dei loro antenati; sono convinti che, se muojono entro
il recinto di talune città di Palestina, non hanno nulla a temere
dai tormenti della vita futura. Tutti gli ebrei del Levante non sono
purtroppo, dei coloni di Safed e di Tiberiade; ma come potrebbero i
cristiani non mostrare a questi ultimi benevolenza e misericordia?
All'epoca del mio soggiorno a Gerusalemme, il consolato d'Inghilterra
manifestava agli ebrei di Palestina una vivissima simpatia. Il console
era un vero «gentleman» naturalmente benevolo. Sua moglie, ch'era del
resto una persona molto per bene, non aveva un carattere del tutto
pacifico come quello del marito. Ancor giovanissima, era profondamente
versata nelle lingue e nelle letterature orientali. Figlia di uno
dei principali agenti dell'Inghilterra nell'estremo Oriente, aveva
recato a Gerusalemme abitudini di attività politica che erano senza
dubbio una tradizione di famiglia. Era essa che, d'accordo col vescovo
protestante, dirigeva vari stabilimenti di beneficenza fondati in
favore degli ebrei. Ne ho veduti i due principali, l'ospedale e la
scuola. Ho poco a dire di quest'ultima; ma l'ospedale è un simpatico
asilo, in una bella postura, ben tenuto e bene ammobiliato ed ove i
sani non corrono il rischio di ammalarsi, come può accadere in parecchi
ospedali europei. Vi è un'eccellente farmacia e l'amministrazione si
regge con mezzi abbondanti. Quest'ospedale protestante, riservato agli
ebrei, offre uno stridente contrasto coll'ospedale cattolico, misera
istituzione sostenuta a fatica dalle scarse forze dei fedeli, ma ove
anche un protestante sarebbe accolto, se si presentasse.
Poichè sto parlando d'ospedali, dirò che mi recai a visitare l'asilo
dei lebbrosi e soggiungerò di passaggio che è una gran fortuna che
il de Maistre[33] non abbia fatto come me, perchè non avremmo avuto
il suo mirabile racconto. Nella maggior parte delle città della
Siria, i lebbrosi conducono un'esistenza singolare, ma felice. Sono
alloggiati a spese del comune o della carità di cittadini che si
quotano per ajutarli. L'alloggio non è caro e neppure sontuoso, perchè
a Gerusalemme, per esempio, consiste in un piccolo spazio in cui
gli stessi lebbrosi si son fabbricati alcune capanne, ove gli ultimi
venuti prendono successivamente il posto degli anziani che scompajono.
Ognuno di essi impiega il suo tempo come gli garba ed il loro gusto
uniforme li induce alla mendicità. Pertanto si trovano nelle strade e
nei pubblici passeggi con un bacile in mano ed il viso scoperto, ciò
che basta di solito a chiarire la loro situazione ed i loro bisogni.
Al tramonto, tutti rientrano nel loro parco, vi fanno la loro cucina,
mangiano e si addormentano come giusti che abbiano soddisfatto la loro
sete.
Quelli che prendono cura dei lebbrosi passano loro una piccola pensione
di pochi parà (la metà di un centesimo) al giorno, somma che del resto
basta largamente a sostentarli. La lebbra non è considerata da nessuno
in Oriente come una malattia contagiosa e neppure come un'infermità
vergognosa e ripugnante, tanto più che il senso di disgusto è molto
poco diffuso in quei paesi. E sì che l'aspetto di un lebbroso sarebbe
proprio fatto per ispirarlo! La sua pelle, sovratutto quella della
fronte, si copre dapprima di lenticchie che poi si tagliano per formare
sia delle scaglie, sia delle croste. Le sue labbra e le sue palpebre
si gonfiano e perdono la loro forma originaria, mentre le cartilagini
delle orecchie e del naso si allungano smisuratamente al punto che le
orecchie pendono talora fin sulle spalle. La loro testa si denuda e
non hanno più nè sopracciglia al disopra degli occhi, nè ciglia alle
palpebre. Si aggiunga a tutto ciò un colorito livido e cereo che è loro
speciale e si avrà un'immagine abbastanza fedele dei men maltrattati
fra i lebbrosi, perchè ve ne sono di coperti da orribili piaghe e di
cui le ossa stesse, consumate dalla putrefazione, escono a scheggie da
quelle ulceri ripugnanti, mentre in altri casi le ossa si stortano e si
dislocano, senza giungere a dissolversi. Vidi per altro piuttosto con
soddisfazione che con ripugnanza, come genitori di quei disgraziati si
stabilissero presso di essi dividendo con loro l'asilo e prestando loro
quelle cure che avrebbero dedicato loro in qualsiasi altra circostanza.
Ma ciò che mi fece indietreggiare dall'orrore fu il sapere che le
passioni e le debolezze umane non erano spente nè per essi nè per
quelli che li circondavano. I matrimoni sono frequenti nel quartiere
dei lebbrosi e, siccome la religione mussulmana vi predomina, tali
matrimoni non sono che l'unione passeggera di un uomo con parecchie
donne. Finchè io viva non potrò dimenticare una giovinetta lebbrosa
che, senz'essere ancora escita dall'infanzia, era già completamente
sfigurata dalla malattia e che stava tranquillamente seduta sulle
ginocchia di una specie di titano senza più forma umana. Egli aveva
completamente perduto la voce e per farsi ascoltare da lei accostava le
sue labbra tumide alle orecchie pendenti della fanciulla. Osservai che
essa sembrava ascoltarlo con piacere, e che lo stiramento dei muscoli
del suo viso sarebbe diventato un sorriso se tal cosa fosse stata
possibile, e ne conclusi che avevo dinanzi agli occhi uno sgradevole ma
onesto spettacolo di amor paterno e di tenerezza figliale. «È vostra
figlia?» chiesi al colosso. Egli fece udire un grugnito e niente di
più, ma la piccina si affrettò a far valere i suoi titoli alla mia
considerazione.
— Son sua moglie e da un mese! — esclamò rizzandosi...
L'espressione di vanità soddisfatta che riescì a palesarsi su
quell'orrendo viso all'idea della lunga durata del suo impero,
la specie di fiamma che lampeggiò un istante negli occhi glabri
del marito, tutto ciò suscitò in me un orrore misto di pietà e di
ripugnanza che pose un termine alla mia visita.
Avevo veduto i frati e le suore di Carità, ero penetrata negli ospizi
dei protestanti e delle altre confessioni, mi rimaneva da visitare
il convento degli armeni[34]. Mi vi recai e vi trovai la più amabile
accoglienza. Gli armeni dell'Asia Minore non assomigliano ai greci di
quel paese, che, sotto la dominazione dei loro barbari padroni, hanno
contratto non so quale ruvidezza estranea alla razza ellenica. Posti
sopra i greci dall'ingegno e dalla ricchezza, gli armeni di Siria e di
Palestina sovrastano loro anche per una grazia e per una dignità tutte
speciali.
Nulla è più bello, più ricco e di miglior gusto che i loro edifici,
gli ornamenti delle loro chiese e le loro case. In tutte le città
dell'impero ottomano, le più belle case appartengono agli armeni ed
esse, come le chiese, non sono solo magnifiche, ma pulite, ben tenute,
eleganti e comode. I loro modi sono quelli di gran signori e l'interno
dei loro palazzi risponde perfettamente all'idea che ci facciamo
in Europa di una dimora principesca in Asia. Il convento armeno di
Gerusalemme è immenso, composto di parecchi corpi di casa e circondato
da deliziosi giardini. Una biblioteca ricca in bei manoscritti ed in
miniature su pergamena, il tesoro ricolmo di pietre preziose montate
con un gusto squisito, infine i loro arredi sacerdotali intessuti
d'oro, d'argento, e delle sete più smaglianti, tutto ciò abbaglia gli
occhi e incanta l'immaginazione. Il patriarca armeno circondato da'
suoi monaci dalle lunghe barbe accurate, dalla tonaca violacea, con un
berretto ed un velo svolazzante dello stesso colore, non assomiglia
affatto ad un capo di comunità monastica europea. Dev'essere costato
molto ad essi l'umiliarsi come fecero durante tanti secoli di fronte al
potere del conquistatore o piuttosto devono aver tratto gran profitto
da un'umiliazione sopportata con tanta pazienza, perchè non sono
gente capace di prosternarsi nella polvere solo perchè è pericoloso di
rimanere in piedi.
Frattanto era arrivato il momento della partenza. Io era da un mese a
Gerusalemme, avevo raggiunto lo scopo del mio viaggio e non avevo più
tempo da perdere se volevo ritrovarmi in climi più temperati prima che
la canicola regnasse in Siria. Partii dunque, escii dalla cinta merlata
che avevo varcata con tanta emozione e, arrivata in cima alla collina
donde un mese innanzi avevo scorto Gerusalemme, mi voltai indietro per
dare alla città santa un ultimo sguardo. Ultimo? Che so io se lo sarà
davvero? Me lo domandavo lasciando Gerusalemme e me lo chiedo ancor
oggi.

IL CORANO E LE RIFORME IN TURCHIA
I luoghi che visitai dopo aver lasciato Gerusalemme, Damasco, Aleppo,
il Libano, mi offersero aspetti della vita nomade e di quella intima
poco diversi da quelli che avevo osservato ad Angora, Latakiè o nelle
montagne del Giaur-Daghda. Non mi rimane più che da riassumere le
impressioni lasciatemi da quella lunga corsa nell'Oriente turco ed
arabo. Di ritorno nella mia pacifica vallata d'Anatolia, comprendevo
meglio le condizioni fatte alle popolazioni che mi circondavano dalle
tradizioni che le dominano e dagli istituti che le regolano. Meglio
illuminata sul vero carattere dell'islamismo, mi domandavo quali
fossero i suoi destini probabili con una sollecitudine in cui entrava
pure della simpatia. Sarebbe tradire un'ospitalità generosa e cordiale
l'esporre qui tutto il mio pensiero su un argomento di cui oggi
l'Europa si preoccupa a ragione? Non lo credo perchè se devo segnalare
piaghe profonde posso pure additare qualità reali e porre meritati
elogi accanto a severi rimproveri. È facile del resto spiegare la mia
severità giacchè mi pongo al punto di vista cristiano per giudicare
i principii e le istituzioni dell'Oriente. Ciò che devo dire della
morale e della religione degli ottomani non potrà dunque essere che
l'espressione di credenze e di dottrine diametralmente opposte alle
loro.
Qual'è il principio che regge il governo turco? Quali germi di vitalità
rinchiude in sè? Quali elementi offre per una riforma? Che genere di
relazione può esistere fra esso e l'Europa cristiana? Sono questioni
molto gravi, ma che è impossibile di non porsi dopo parecchi anni
di soggiorno in mezzo alle popolazioni mussulmane. Non temete che io
inizii qui un lungo dibattito; mi limito ad esporre qualche veduta, a
raccogliere qualche osservazione.
L'impero ottomano è uno stato teocratico, ha per legislatore il suo
profeta, per codice il suo libro sacro, per giuristi i suoi sacerdoti.
Quando ci si pone fra i barbari, di fronte a popoli incapaci di
dirigersi da soli, non preoccupandosi che di dare al patto fra
governanti e governati la maggior solennità possibile, nessun principio
di governo, nè quello del diritto divino, nè quello dell'elezione
popolare può rivaleggiare col principio teocratico. Quale fonte più
diretta, quale origine più nobile che la rivelazione, le profezie, i
miracoli? Una volta ammesso il punto di partenza, rapporti immutabili
si stabiliscono fra il principe ed i sudditi. I problemi di diritto e
di legislazione non dipendono più dall'umano raziocinio; risolti dal
dogma, sfuggono come lui ad ogni discussione. Se l'immobilità è una
prova di forza, lo stato teocratico può guardare con compassione alle
perturbazioni degli altri governi. Il guajo di un tal regime è che alle
epoche di barbarie nelle quali prospera, succedono epoche in cui si
fa sentire il bisogno del progresso. Perfino le popolazioni allevate
sotto la protezione del sistema teocratico giungono a riconoscerne
gl'inconvenienti. Esse sentono che è condannato, che non risponde più
allo spirito dei tempi nuovi, esse sono allora poste fra due vie, o
rassegnarsi al mantenimento di quel sistema colla certezza di dare al
mondo lo spettacolo di una penosa agonia, oppure lanciarsi nei rischi
di una crisi che può essere funesta se già troppo pronunciata fosse la
decadenza prodotta dalla lunga durata delle istituzioni teocratiche.
È giunto l'impero ottomano all'epoca critica in cui si pone una tale
alternativa? Prima di rispondere esaminiamo bene quale sia il carattere
particolare della teocrazia mussulmana.
Molti anni mi separano dall'epoca in cui lessi per la prima volta il
Corano. Non fui colpita allora che dal lato bizzarro di quel libro ed
a stento capivo come dottrine, apparentemente più adatte a sorprendere
che a convincere, avessero potuto sedurre tante anime ed imporsi a
tante intelligenze. La mia sorpresa è cessata. Ho veduto l'Oriente e,
una volta eccettuato il cristianesimo, credo la religione di Maometto
superiore a tutte quelle che reggevano prima di lui o che reggono
ancor oggi i popoli dell'Asia. I drusi hanno i loro riti misteriosi,
i fellah di Siria il loro strano naturalismo, i Metuali del Libano
e dell'Antilibano adorano il fuoco; gli Jezibi, tribù curda secondo
alcuni, araba secondo altri, fanno oggetto del loro culto lo spirito
delle tenebre. Questi, ai numerosi avversarii della loro religione,
spiegano con una certa ingegnosità: «Perchè dovremmo inchinarci
all'autore d'ogni bene? Non abbiamo nulla da temerne e non sarà mai
nostro nemico. Quanto allo spirito del male, non lo amiamo e saremmo
felicissimi che scomparisse; ma, poichè esiste e manifesta tutta la
sua potenza, siamo bene obbligati a cercare di ottenerne le grazie e la
prudenza ci ordina di adorarlo.»
Quale distanza separa superstizioni così grossolane dalla dottrina
di Maometto! Sarebbe superfluo l'insistervi. Osserviamo ancora che
la maggior parte delle usanze mussulmane che feriscono il nostro
senso morale di cristiani, come la poligamia, la schiavitù, il
disprezzo della vita umana ecc. non potrebbero essere attribuite
senza ingiustizia al legislatore arabo che ha piegato la sua dottrina
ai costumi dei popoli dei quali voleva farsi uno strumento. Il suo
scopo non era nè di creare una società nuova e migliore nè neppure di
formare una nazione: egli voleva creare un esercito, una falange di
uomini devoti, rotti a tutte le esigenze di un grande compito militare.
Interdire ai suoi partigiani le dolcezze della vita sedentaria
concedendo loro tutti i godimenti che è possibile procurarsi nel
recinto di un accampamento, prometter loro la felicità eterna in
cambio di una sottomissione illimitata tale fu il disegno che dominò
senza posa il legislatore mussulmano. Gli affetti famigliari legano
naturalmente l'uomo al focolare domestico, indeboliscono troppo spesso
il suo ardore bellicoso: la famiglia fu, non dico abolita e distrutta,
perchè non esisteva fra i popoli che abbracciavano l'islamismo, fu
condannata a non aver mai un posto nelle loro istituzioni. La donna,
quell'artefice operoso ed infaticabile della mitezza dei costumi e
della gentilezza delle nazioni, fu relegata al livello degli strumenti
del vizio e della lascivia. Una volta annichilita moralmente la donna,
il gran capitano che solo poteva col suo genio rude concepire ed
eseguire un atto simile sembrò non aver più da temere alcun rivale.
Là ove non esiste l'amore conjugale, l'amore paterno non esercita che
una debole influenza. I legami famigliari divennero così illusorii.
Vi sono nondimeno altri vincoli che legano gli uomini alla società:
lo studio delle scienze, delle arti, il senso dell'eleganza e del
benessere materiale hanno anch'essi la loro influenza, incompatibile
coi doveri di un popolo organizzato per la guerra e per la conquista.
Maometto proscrisse il culto delle arti: la pittura e la scultura
furono condannate come invenzioni dello spirito maligno, la musica e
la poesia disprezzate come giochi puerili. L'amore delle ricchezze fu
collocato fra le tendenze più pericolose dell'umanità, e la politica
dei successori di Maometto lo combattè senza tregua. Non sono più di
venti anni che è possibile in Asia di essere impunemente ricco. Fino
all'assunzione al trono di Abdul-Megid, nè il negoziante armeno nè il
pascià turco osavano mettere vetri alle finestre della loro casa, per
timore di attirare su di essi la gelosia del potere e di dover perdere
la vita coi tesori. Ora il condannare la ricchezza a nascondersi è
toglierle ciò che ha di meglio, la sua azione civilizzatrice. Accadeva
pertanto che i capitali, forse più abbondanti in Turchia nelle mani
dei privati che ovunque altrove, si trasformassero in diamanti ed in
piastre sotterrate nei giardini senza mai servire ai miglioramenti così
necessari nella vita morale e materiale del paese.
Restavano ancora taluni appetiti grossolani che potevano far trattenere
gli uomini delle infime classi nelle città piuttosto che sui campi
di battaglia. Furon dunque proscritti l'uso del vino ed i piaceri
della tavola, ma, proscrivendo il vino, il legislatore mussulmano non
proibì nè la cupa ebbrezza dell'oppio, nè l'estasi, cento volte più
terribile, prodotta dall'hascisch. Ho seguito in Oriente gli effetti
di quelle ubbriacature su vari individui e me ne è rimasto un profondo
senso di terrore. Sovratutto gli effetti dell'hascisch sono terribili.
Il paziente, poichè non saprei chiamarlo diversamente, prova spasimi
al diaframma e nella regione del cuore che coprono le sue guancie di
un livido pallore e la sua fronte di un sudore diacciato. Le angosce
così provocate assomiglierebbero a quelle dell'agonia se non fossero
traversate d'un tratto da scoppi di pazza allegria. Il più strano
risultato di tale ebbrezza è una specie di spaventosa e completa
confusione del piacere e del dolore. Si trattava infine di proteggere
il popolo così foggiato contro l'influenza delle civiltà straniere. Il
genio implacabile che aspirava a sottomettere il mondo seppe inspirare
a' suoi fedeli il più fosco disprezzo per tutti i popoli che non
riconoscessero la sua fede. «Gli Osmanli soli sono degli uomini, diceva
loro, sono stati scelti da Dio per conoscere la verità e la prova
si è che io mi trovo in mezzo a voi. Disprezzate le altre nazioni,
guardatele con orrore e disgusto. Che vale che i vostri abiti siano
coperti di polvere, che le vostre case siano aperte a tutti i venti,
mentre i popoli dell'Occidente hanno cura delle loro vesti ed adornano
le loro case? Essi sono impuri. Ogni purezza è solo in voi.»
Testimonianze troppo persistenti ci mostrano abbastanza quale influenza
abbia esercitato questo ragionamento sui popoli mussulmani.
Non dirò che una parola della dottrina del Corano sulla vita futura,
sul Paradiso. Fu detto che le donne ne fossero escluse e che ad esse
fosse rifiutato il dono di un'anima immortale. In realtà non si parla
di esse nella descrizione di quel luogo di delizie ove «Huri» immortali
rendono superflua la presenza di femmine. Io credo sinceramente che il
silenzio di Maometto intorno all'ammissione delle donne nel Paradiso
equivale, nel pensiero del legislatore, ad una completa esclusione.
In compenso di queste promesse e della libertà di condotta quasi
assoluta concessa dalle istituzioni, che chiedeva Maometto ai suoi
fedeli? Tre cose: Obbedire, combattere e morire.
È noto se il patto concluso fra il capo ed il suo popolo sia stato
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