La vita intima e la vita nomade in Oriente - 02

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maggior levatura che abbia dato Milano alle lettere italiane nella
prima metà del secolo XIX. Adoperò, è vero, la lingua francese con
frequenza forse ancora maggiore della favella nativa e la maneggiò
con facilità per lo meno uguale. Ma anche le sue prose francesi, come
queste pagine inviate dalle sponde del Mar Nero ai lettori della _Revue
des deux Mondes_, furono concepite ed, aggiungerei, architettate in
italiano. Il periodare più ampio, il colorito più vivo, l'immediata
rispondenza della forma agli sviluppi di un pensiero assai spesso nuovo
e personale, differenziano a prima vista lo stile della Belgiojoso da
quello delle contemporanee francesi sue amiche o rivali. Parimenti,
quando ella entrava con passo sicuro nei salotti parigini, fosse pure
il cenacolo dell'Abbaye aux bois, spiccava senza possibile abbaglio
fra le dame convenute da ogni angolo del nobile sobborgo anche se
intinte di pece letteraria come la contessa d'Agoult o madame Jaubert.
Parlo sempre di donne perchè, se alla sua generazione l'inatteso
riserbo in tanta gara di passioni, l'indipendenza negli atteggiamenti
della vita e la vocazione alla politica militante, fecero designare
di preferenza Cristina di Belgiojoso coll'aggettivo un po' irritante
di «maschia», _foemina-vir_, a noi che la riguardiamo da una certa
ragionevole distanza le stigmate del sesso appaiono chiarissime nella
sua carriera e nei suoi scritti. Le ritroverete evidenti leggendo un
libro come quello che s'inizia ormai, al voltar di quest'ultima pagina
introduttiva. Solo una donna avrebbe potuto esporvi una materia così
nuova come i misteri degli harems, chiusi ai viaggiatori dell'altro
sesso: ma meglio ancora converrete che era privilegio femminile il
cogliere tra gli aspetti della vita orientale quelli più rivelatori
dello spirito e del sentimento, fermati e tradotti da una sensibilità
particolare che a volte sembra quella di una rabdomante._
GIUSEPPE GALLAVRESI


SCENE E RICORDI DI VIAGGIO IN ASIA


I.
GLI HAREM, I PATRIARCHI E I DERVISCI, LE ARMENE DI CESAREA.

Fra i giorni che ho passato in Oriente, me ne ricordo alcuni di
un incanto singolare, nonostante le fatiche e le emozioni che li
riempirono: sono i giorni di marcie penose, interrotte da soste ancor
più penose, che si succedettero dalla mia partenza dall'Anatolia nel
gennaio 1852 fino al mio arrivo a Gerusalemme nella stessa primavera.
Nel corso di qualche mese mi fu dato osservare, in ciò che ha di triste
e al tempo stesso di attraente, la vita orientale, di cui il mio lungo
soggiorno in una pacifica valle dell'Asia Minore non mi aveva rivelato
che gli aspetti più calmi. Pertanto, quando cerco di raccogliere, di
fissare le mie idee sul mondo strano nel quale fui trasportata per un
istante, non saprei interrogare più volontieri altri ricordi, fra tutti
quelli che mi son portata venendo dall'Oriente. Alcuni episodi staccati
di quest'epoca della mia vita potranno forse bastare a giustificare
la preferenza con cui il mio pensiero vi si riconduce oggi ancora.
Mostreranno, nei tratti essenziali, la fisionomia delle popolazioni che
questo viaggio mi ha permesso di osservare, mentre i racconti, sin qui
pubblicati, non avevano potuto darmene che un'idea molto inesatta.
Ad esempio, la Siria, come io l'ho visitata, non assomiglia affatto
alla Siria che avevo potuto scorgere traverso ai libri. È ben vero
che io ero in condizioni assai più favorevoli della gran maggioranza
dei viaggiatori per conoscere tutto un lato importantissimo della
società mussulmana, il lato domestico dominato dalla donna. L'harem,
santuario dei Maomettani, ermeticamente chiuso a tutti gli uomini, mi
era aperto. Io potevo penetrarvi liberamente, potevo discorrere con
quegli esseri misteriosi, che i «Franchi» non scorgono se non velati,
interrogare alcune di quelle anime di cui non si conoscono confidenze
e provocarne di preziose su tutto un mondo ignoto di passioni e
di dolori. I racconti dei viaggiatori, così incompleti per ciò che
riguarda la civiltà mussulmana, lo sono troppo spesso anche in ciò che
concerne la natura e l'aspetto materiale dei luoghi. Essi adoperano
molte parole senza spiegarle, di quelle che, in ciò che si potrebbe
chiamare la «lingua europea», hanno un significato assai differente
dalla loro portata effettiva in relazione agli usi dell'Oriente. Non
voglio per altro insistere sulle difficoltà di dare conto di un viaggio
in Oriente: non so infatti neppure io se riescirò a superarle tutte
quante. Mi par meglio di affrontarle senz'altri preamboli, lasciando al
racconto stesso l'incarico di giustificare il narratore.

I DERE-BEYS — IL MUFTÌ DI SCERKESS
Una parola anzitutto sul paese nel quale io abito. La valle
d'Eiaq-Maq-Oglu (valle del «Figlio della pietra da fucile») si trova
ad alcune giornate di cammino dalla città rilevante che ha per nome
Angora. Ho fissato la mia dimora in quest'angolo pittoresco e fertile
dell'Oriente; da questa valle sono partita per lanciarmi nella vita
nomade. Su questa terra, solcata durante tanti secoli da tutti gli
eserciti del mondo, dai soldati di Mitridate e di Pompeo, come da
quelli di Bajazet e di Tamerlano, non v'è regione, per quanto romita,
che non abbia un passato tragico e sanguinoso, e non evochi ricordi
funebri e dolenti. Si sono tentati ai nostri giorni sforzi diretti
a risvegliare in Oriente la dolce influenza del benessere e della
civiltà, ma i benefici della pace non sembrano sul punto di giunger
così presto a cancellare quassù le traccie della guerra. Permangono le
rovine, ma non appajono ancora gli edifici nuovi.
La valle d'Eiaq-Maq-Oglu è uno dei luoghi in cui l'impronta del passato
è rimasta profonda e l'azione del presente non si rivela che con conati
incompleti.
La borgata più vicina a casa mia si chiama Veranceir[1], nome che
significa città distrutta e ricorda sinistre avventure. Al posto di
quel borgo, non sono ancora trent'anni, sorgeva una città fiorente,
con una popolazione di circa 40,000 anime. Veranceir, munita di buone
fortificazioni, era la residenza favorita di un pascià potente, il cui
governo, ormai smembrato, ha formato due o tre provincie. Comandava
alle città di Bolo, di Angora, di Scerkess, d'Eraclea, ecc.; ma il
signore di quelle grandi città le lasciava volontieri per venire
a cercare il riposo nella vallata verde, in mezzo alla quale sorge
Veranceir, in riva al fiume che ne bagna i ridenti giardini. A questa
predilezione del pascià Osman, Veranceir andò debitrice della sua
prosperità, ahimè quanto effimera!
Mentre Veranceir così prosperava la Turchia obbediva al Sultano
Mahmud[2], che proseguiva la sua opera di rinnovamento fra lotte
sanguinose. La dominazione dei Dere-beys, feudatari militari in
perpetua rivolta contro il gran signore e non rifuggenti dal fargli
la guerra colle truppe reclutate nel loro feudo, era una di quelle
vestigia dell'antico sistema turco che Mahmud riteneva necessario
distruggere. Quasi tutta l'Asia Minore era divisa fra alcuni pochi
di questi beys, buoni principi in fondo, per quanto male intendessero
i loro doveri verso il sultano. Essi incoraggiavano fino ad un certo
punto l'agricoltura e il commercio ed i loro interessi non erano sempre
contrari a quelli dei loro popoli. La guerra sostenuta dai Dere-beys
contro il sultano imponeva certo agli abitanti onerose gravezze; ma i
capi ribelli non trascuravano nulla per circoscrivere le ostilità in un
territorio assai limitato, e ad ogni campagna seguivano lunghe tregue
acciocchè il lavoro dei campi, fonte della prosperità delle famiglie,
non fosse completamente abbandonato.
Osman pascià aveva molte mogli e molti figli. Disgrazia volle che
uno di questi figli, chiamato Mussa, fosse sedotto dall'esempio di
uno dei suoi cugini, che aveva fama d'essere uno dei più turbolenti
fra i Dere-beys. Mussa prese a percorrere il paese sottoposto a suo
padre, s'impadronì dei tributi, adunò delle truppe, spiegò la bandiera
dei Dere-beys e ne indossò l'abito. Il vecchio Osman, rimasto fedele
suddito del sultano e desolato del colpo di testa di suo figlio,
mandava un messaggio dopo l'altro a Costantinopoli per attestare la
sua innocenza ed il suo rammarico. Commosso da queste proteste, Mahmud
volle allontanare il padre dai luoghi ove il suo esercito poteva esser
condotto ad incrudelire contro il figlio ribelle e affidò ad Osman
pascià un comando nella Rumelia. Avviandosi alla sua nuova sede, Osman
si scontrò col corpo d'esercito mandato a combattere contro suo figlio.
Il padre rassegnato, rivolgendosi al capo delle truppe del sultano,
esclamò: Dio ti doni la vittoria! Il generale del sultano aveva cercato
inutilmente di ottenere da Osman qualche indicazione sullo stato del
paese e dei popoli insorti, ma non riescì a strappargli che lagrime e
singhiozzi. Qualche giorno più tardi Osman non avrebbe marciato a sua
volta contro Mahmud? Il sultano l'aveva mandato a tempo in Rumelia.
Ed ecco il giovane bey, liberato dal peso dell'autorità paterna,
impegnarsi decisamente in una guerra lunga e terribile. Le sue
reclute si battevano bene perchè combattevano sui loro campi, sulla
soglia delle loro case, e quei montanari dell'Asia Minore avevano la
sensazione di difendere la causa dell'indipendenza nazionale contro
un esercito straniero. I Turchi di Costantinopoli con uniformi ed
armi europee apparivano loro come degli stranieri. Mussa aveva una
cavalleria leggera che si faceva ammontare a 20 o 30,000 uomini; con
essa, sopratutto, il giovine bey faceva prodigi. Ogni anno, nuovi corpi
d'esercito erano gettati da Costantinopoli sulle truppe del figlio di
Osman; ogni anno, se ne ritornavano dopo aver lottato invano contro i
rozzi soldati del capo insorto.
Erede delle ricchezze e dell'influenza di suo padre, Mussa bey lo
imitava nella sua predilezione per Veranceir. Vi si trovava meglio
che nelle grandi città come Angora, ove una popolazione mista rende
la difesa più difficile. Stabilito nella sua residenza favorita e
circondato da' suoi valorosi e fedeli cavalieri, Mussa bey si credeva
invincibile; e lo sarebbe forse stato se il sultano non avesse fatto
intervenire nella contesa un elemento nuovo contro il quale nulla
eravi di pronto. Alludo all'artiglieria che in Asia Minore non era
nota che per fama; ma, sotto il comando di alcuni europei rinnegati,
parecchi pezzi da campagna e d'assedio partirono da Costantinopoli e
vennero ad assediare la città di Veranceir le cui fortificazioni non
eran state costruite per resistere a tal sorta d'attacchi. L'ignoranza
del bey in materia è provata dal suo errore di lasciarsi rinchiudere
da un corpo d'artiglieria in una città inetta alla difesa; essa fu
bombardata, le mura abbattute e la vittoria toccò al più abile, non
al più intrepido. Forse il bey avrebbe avuto un'ultima via di scampo
con una vigorosa sortita alla testa della sua cavalleria; ma la guerra
durava da 10 anni, la stanchezza si era impadronita del cuore dei più
valorosi ed i nuovi nemici, le cui armi insospettate compivano così
orribili devastazioni, inspiravano una sorta di terror panico più
fatale che i pericoli più reali. D'altronde i successori dei Solimani,
dei Selim e dei Bajazet non avevano ancora abiurato le massime
odiose della loro antica politica e a quei tempi i mussulmani non
avevano rossore d'ingannare e di tradire. Il comandante dell'esercito
imperiale fece sapere al bey ch'era munito d'ordini speciali a suo
riguardo, che il sultano, ammiratore della sua valentia coraggiosa,
voleva prenderlo al suo servizio, non avendo dimenticato i meriti del
padre e volendo rimunerarne il figlio. Il generale ottomano aveva
incarico di promettere a Mussa un completo perdono ed anche, per
più tardi, i maggiori onori, purchè deponesse le armi e si recasse
solo a Costantinopoli per farvi atto di sottomissione e vivervi poi
tranquillamente, in attesa che piacesse al sultano di ricompensarne
l'obbedienza. Mussa bey diede ascolto a queste proteste e forse non gli
restava in realtà altra via da seguire. Pattuite non pertanto alcune
condizioni per il suo paese, per i suoi fedeli e per la sua famiglia,
il bey partì per Costantinopoli accompagnato da una scorta d'onore
datagli dal pascià trionfante, e, tutto essendo stato sistemato con
generale soddisfazione, lo stendardo del bey fu abbassato e sostituito
dalla bandiera imperiale e le truppe del sultano presero possesso di
ciò che restava della città.
Non vi fu a Veranceir nè saccheggio, nè massacro, nè esecuzioni
militari: fu il bey che pagò per tutti. Appena fu arrivato a
Costantinopoli vide i soldati della scorta d'onore tramutarsi in
guardie ed in carcerieri; Mussa fu chiuso in una prigione e vi fu
decapitato dopo tre giorni di captività. Non basta: le sue mogli, i
suoi giovani fratelli e i suoi figli furono arrestati nei dintorni di
Veranceir, nella loro proprietà d'Eiaq-Maq-oglu, dove la sua famiglia
si era ritirata alla partenza del bey. Furono inviati alla lor volta
a Costantinopoli e venduti come schiavi. I loro beni furono confiscati
e di tutta quella casa, testè così potente, non rimase che il vecchio
Osman che non si permise il menomo mormorio e ricevette, in cambio
delle sue perdute ricchezze, una pensione sufficiente a sostenere il
rango che gli era lasciato. Il vecchio morì pochi mesi dopo suo figlio,
triste ma silenzioso, senza lamentarsi e senza parlare delle sue
sventure, attestando al suo sovrano quell'amore e quella gratitudine
che riscaldano il cuore del pio e vero cristiano quando loda e
glorifica il Signore d'aver gravato la mano su di lui e sui suoi. Ma
cos'era dunque quest'Osman pascià? Un'anima stoica, un cuore devoto, un
fanatico, un imbecille od un furbo compare? Non mi assumo di rispondere
a queste domande.
Il sultano Mahmud non sopravvisse lungamente al suo fedele servitore
Osman e il suo giovane figlio Abdul-Megid[3] gli succedette. Che un
tale figlio sia nato da un tal padre, che un principe di tal fatta
abbia regnato su un popolo simile, che un mussulmano siasi rivelato
così dissimile dai mussulmani di tutti i tempi sono ben strane
anomalie. Tosto dopo la sua assunzione al trono, Abdul-Megid attese
a scoprire quali fossero state le sorti delle famiglie di tutte
quelle vittime illustri che avevano insanguinato il regno di suo
padre. Sulla lista di quelle famiglie sventurate non mancava quella
di Osman pascià. Si rintracciarono alcuni discendenti del padre di
Mussa che dalla sua rivolta in poi eran tenuti schiavi. Restituita
loro la libertà ed alcune delle loro antiche terre, tutti, uomini,
donne e bimbi vi ritornarono abbandonando Costantinopoli. Il fratello
maggiore di Mussa, uno degli amnistiati, sposò la più cospicua vedova
del Dere-bey. I beni resi a questa famiglia non prosperarono nelle
mani di questi beneficati dalla clemenza di Abdul-Megid. I degeneri
figli di Osman, invece di sfruttare le loro terre, preferirono darsi
all'usura, al commercio e vi furon anche quelli che vissero di rapine.
Ben presto il territorio della valle d'Eiaq-Maq-Oglu fu trascurato,
i mulini vi si fermarono, i canali d'irrigazione furono ostruiti, e
il paese, un tempo abitato da Osman, si trovava in così triste stato
allorchè io vi giunsi. Vedete con quali uomini io doveva aver a che
fare. La fama pubblica mi annunciava ai proprietari fondiari dei paesi
vicini a Costantinopoli come una dama «franca» che la guerra cacciava
dalla propria patria e che veniva a trascorrere l'esilio in Turchia. I
discendenti di Osman sopratutto si ripromisero di far buoni affari con
una straniera sbarcata in Turchia in tali condizioni, e non avevano
interamente torto. Venni da Costantinopoli per visitare la vallata
così cara al vecchio pascià; la situazione, la bellezza del paese, la
calma di quel ritiro incantato vinsero tosto le mie esitazioni. Comprai
per cinque mila franchi la valle d'Eiaq-maq-Oglu, cioè una pianura
di circa due leghe di lunghezza, per un terzo di lega di larghezza,
traversata da un corso d'acqua e incorniciata da montagne boscose, con
una casa, un mulino e una segheria. I fratelli del Dere-bey avevano
fatto una magnifica retata e quando nel paese si seppe qual somma
avevano riscossa si andò dicendo che la fortuna favorisce gli inetti.
In ogni caso non ebbi troppo da lagnarmi degli antichi possessori della
mia piccola tenuta, ed, allorchè disegnai di allontanarmene per qualche
mese per recarmi a Gerusalemme, mi decisi a cominciare il viaggio
in compagnia del più giovine dei fratelli di Mussa-bey. Ho fatto il
racconto particolareggiato della storia di questa famiglia di cui
avevo in parte riscattato l'eredità, perchè essa riassume assai bene
le condizioni nelle quali languivano talune provincie della Turchia
trent'anni or sono. I miei ricordi faranno forse apparire gli stessi
paesi sotto un altro aspetto e si potrà così confrontare l'epoca di
Abdul-Megid a quella di Mahmud.
In una fredda giornata di gennaio io lasciai dunque il mio tranquillo
rifugio, colla scorta di uomini a cavallo senza la quale è impossibile
viaggiare in Oriente. Un fratello minore di Mussa, come ho detto, mi
accompagnava. Dovevamo traversare, per raggiungere la piccola città di
Bajandur[4], termine della nostra prima tappa, la contrada un tempo
governata dal figlio di Osman. Il mio compagno mi mostrava i luoghi
dove il derebey aveva battuto le truppe imperiali, il boschetto in cui
una spia del nemico era stata impiccata sotto gli occhi e per ordine
del capo dei ribelli, il posto già occupato dalle fortificazioni di
Veranceir, il lato che aveva maggiormente sofferto dall'artiglieria
del Sultano. La mia guida ravvisava spesso nei vecchi contadini che
incontravamo lungo la strada dei compagni di Mussa bey; egli mi parlava
della propria captività, delle sofferenze da lui sopportate, dello
stato misero al quale era ridotto. Infine al nostro arrivo a Bajandur,
ove presi alloggio in casa del Direttore delle poste, che era a sua
volta un cognato di Mussa, il mio giovine compagno si accomiatò da
me: ritornava al suo piccolo villaggio appollajato in cima ad un'alta
montagna come il nido di un uccello di rapina. Seguii a lungo cogli
occhi quel giovine, nato alla lotta e ristretto precocemente in una
vita di ozio senza gloria. Triste spettacolo quello del fiero montanaro
che su una cavalla curda, magra e gracile, seguiva faticosamente le
svolte della strada. Gli abiti del giovine cavaliere contradicevano del
resto a ciò ch'egli mi aveva detto della sua povertà: il suo turbante
verde, il suo ricco mantello d'Aleppo, in lana bianca intessuta d'oro e
d'argento, annunciavano in lui il discendente di una nobile schiatta.
Per un istante mi dolsi di non avere il pennello di Decamps[5] per
fissare sulla tela quella figura fiera e selvaggia.
Non saprei dir nulla di Bajandur; ma a Scerkess[6] ove mi fermai
la mattina seguente, incontrai un tipo della società orientale che
contrastava in modo caratteristico con quello del mio compagno del
giorno innanzi. È per mezzo de' miei ospiti che vorrei far conoscere
l'Oriente. La vita domestica è uno degli aspetti meno conosciuti della
civiltà mussulmana, uno di quelli che ho potuto meglio studiare.
A Scerkess scesi da un muftì[7] che avevo guarito qualche mese prima
d'una febbre intermittente, e che m'aspettava a braccia aperte. Si è
tanto parlato dell'ospitalità orientale, che m'asterrei volontieri
d'intavolare questo discorso, se parlandone molto non se ne fosse
parlato assai male. Ho letto, per esempio, dei racconti di viaggio
in cui gli autori cantavano le lodi dell'ospitalità dei Turcomani[8],
mentre io ho sempre riconosciuta l'origine turcomana della popolazione
d'un villaggio dal miserando ricevimento che mi si faceva. Del resto
si accetta come seria offerta d'ospitalità qualunque complimento
indirizzato da un indigeno ad un forestiero senza pensare agli strani
equivoci che produrrebbe da noi un'interpretazione troppo letterale
di certe formule della cortesia europea. Il fatto è che, di tutte
le virtù tenute in conto nella società cristiana, l'ospitalità è la
sola che i mussulmani si credano in obbligo di praticare. Là dove i
doveri sono poco numerosi, essi sono maggiormente rispettati, cosa
del resto perfettamente naturale. Gli orientali hanno dunque preso
sul serio questa sola ed unica virtù, questo vincolo isolato ch'essi
hanno consentito ad imporsi. Sventuratamente una virtù che si appaga
di apparenze è esposta ad alterarsi ben presto. E questo è appunto
ciò che è accaduto, è ciò che accade giornalmente nell'ospitalità
orientale. Un mussulmano non si consolerà mai d'aver mancato alle leggi
dell'ospitalità. Entrate in casa sua, pregatelo d'uscirne, lasciatelo
esposto alla pioggia, al sole alla porta del suo stesso alloggio,
devastate la sua dispensa, esaurite pure le sue provviste di caffè e
d'acquavite, rovesciate in ogni senso i suoi tappeti, i suoi materassi,
i suoi cuscini, spezzate il suo vasellame, inforcate i suoi cavalli e
rendeteli esausti, se tale è il vostro capriccio. Il mussulmano non
vi indirizzerà un solo rimprovero perchè voi siete «un muzafir» un
ospite: è Dio stesso che vi ha inviato e qualunque cosa voi facciate
siete e sarete sempre il benvenuto. Tutto ciò è ammirevole; ma, se
un mussulmano trova modo di sembrare altrettanto ospitale quanto è
richiesto dalle leggi e dai costumi, senza sacrificare un centesimo
od anche guadagnando una grossa somma di denaro, al diavolo la virtù,
evviva l'ipocrisia! È ciò che accade novantanove volte su cento.
L'ospite vi ricolma di cortesie mentre soggiornate in casa sua; poi,
se alla vostra partenza non gli pagate venti volte il valore di ciò
che vi ha dato, aspetterà bensì che siate uscito dalla sua casa, che
abbiate deposto quindi il vostro sacro carattere di «muzafir», ma poi
vi getterà delle pietre.
Naturalmente voglio parlare della moltitudine volgare, e non dei cuori
semplici e buoni che amano il bene perchè lo trovano amabile e che
nella pratica della virtù procurano a sè stessi un'intima gioja. Il mio
vecchio mufti di Scerkess può entrare in questo numero. La sua casa è
costituita, come quella di tutte le buone famiglie del Levante, da un
corpo di fabbrica riservato alle donne e ai bambini, di un padiglione
esterno, con un salone d'estate ed uno d'inverno e finalmente di
qualche camera per i domestici. Il salotto d'inverno è una bella
camera riscaldata da un buon camino, coperta da grossi tappeti ed
abbastanza ben mobiliata da divani ricoperti in stoffe di seta e
lana e distribuiti tutt'intorno. L'arredamento della sala d'estate
consiste in una fontana che sorge nel mezzo della stanza, alla quale
si accostano, occorrendo, cuscini e materassi per sedersi e sdrajarsi.
Del resto non si vedono nè finestre, nè porte e l'esterno non è
separato dall'interno dalla menoma barriera. Il mio vecchio mufti,
che ha novant'anni, possiede parecchie mogli, la più vecchia di soli
trent'anni ed ha figli di tutte le età, da un marmocchio di sei mesi
ad un uomo di sessant'anni. Egli professa una ripugnanza di buon gusto
per il frastuono, il disordine e la sudiceria dell'harem. Vi si reca
durante la giornata, come va a vedere ed ammirare i suoi cavalli in
scuderia; ma abita e dorme, secondo la stagione, nell'uno o nell'altro
de' suoi salotti. Quell'uomo eccellente comprese che, se non aveva
potuto adattarsi con una lunga abitudine agli inconvenienti dell'harem,
ben peggio doveva essere per me, recentemente sbarcata da quella terra
di raffinatezze incantevoli che qui si chiama il «Franguistan». Mi
dichiarò dunque subito che non mi confinerebbe in quel luogo oscuro e
confuso, male odorante e fumoso che si chiama l'harem, e mi offerse
il suo appartamento che accettai con gratitudine. Dal canto suo si
insediò nella sua sala d'estate, preferendo, anche alla fine di gennaio
e mentre la neve ricopriva città e campagne, la sua fontana ghiacciata,
col pavimento umido e tutte le correnti d'aria, all'atmosfera calda ma
fetida dell'harem.
Temo di distruggere qualche illusione quando parlo degli harem con
così scarso rispetto. Avendo letto le descrizioni che ce ne danno le
«Mille e una notte» ed altri racconti orientali, udendo che quei luoghi
sono il soggiorno della bellezza e degli amori, siamo autorizzati a
credere che le descrizioni letterarie, sieno pure esagerate, abbiano
un fondamento nella realtà e che in quei misteriosi rifugi debbano
trovarsi riunite tutte le meraviglie del lusso, dell'arte e della più
sontuosa voluttà. Quanto siamo lontani dal vero! Immaginatevi dei muri
anneriti e screpolati, dei soffitti in legno con fenditure, polvere
e ragnatele, dei divani stracciati ed unti, delle portiere strappate,
macchie di cera e di olio in ogni angolo.
Tale spettacolo era urtante per me, poichè entravo per la prima volta
in luoghi simili, ma le padrone di casa non se ne accorgevano. Sono
vestite come Dio vuole e, poichè gli specchi sono rarissimi in quei
paesi, le donne si mettono intorno a caso ornamenti di cui non possono
valutare esattamente le strane ripercussioni. Arrotolano intorno al
capo dei fazzoletti di cotone stampato e vi puntan sopra spilloni di
diamanti e di pietre preziose. I loro capelli sono trascuratissimi
ed i pettini sono solo conosciuti dalle gran signore che abbiano
abitato alla capitale. Fanno un uso smodato di belletti di tutti
i colori: ma non possono regolarne la distribuzione che ajutandosi
l'un l'altra coi reciproci suggerimenti e, rivali come sono tutte
queste donne che convivono nella stessa casa, non trovano di meglio
che d'incoraggiarsi mutualmente alle dipinture più grottesche. Esse
pongono del carmino sulle labbra, del rossetto sulle guancie, sul
naso, sulla fronte, sul mento, del bianchetto arbitrariamente e come
sfondo, del bleu intorno agli occhi e sotto il naso. Quello che è
ancora più strano è il modo con cui si tingono le sopraciglia. Devono
aver udito dire che le sopraciglia acquistano bellezza col formare un
grande arco, e ne concludono di potersi far tanto più ammirare quanto
più grande sarà questa curva, senza domandarsi se essa non abbia il
suo posto delimitato irrevocabilmente dalla natura. Attribuiscono
quindi alle loro sopraciglia tutto lo spazio tra una tempia e l'altra
e si dipingono sulla fronte due archi immensi che partono dal culmine
del naso e se ne vanno, ciascuno per conto suo, fino alle tempia. Non
mancano, per quanto sieno casi rari, delle giovani beltà bizzarre che
preferiscono la linea retta alla curva e che disegnano una grande riga
nera traverso la fronte.
Il risultato più certo e più deplorevole di tutto ciò è il sovrapporsi
di tutta questa pittura alla pigrizia ed alla sudiceria che riescono
così naturali alle donne dell'Oriente. Ogni viso di donna diventa
un'opera d'arte molto complessa e non si potrebbe rifarla tutte le
mattine. Perfino le mani ed i piedi tinteggiati in color arancione
sfuggono all'azione dell'acqua che può compromettere queste bellezze.
La massa di bambini e di schiave, specialmente nere, che affolla
gli harem, congiunta all'uguaglianza del tenor di vita fra serve e
padrone, costituisce un aggravante della mancanza generale di pulizia.
Non è necessario di spiegare come vivano ovunque i bambini piccoli;
ma immaginiamoci inoltre quale sarebbe il destino dei nostri mobili
fini d'Europa, se le nostre cuoche, le donne di fatica, venissero a
riposarsi sulle nostre poltrone, appoggiando i piedi sui nostri tappeti
e la schiena alle nostre tende. Per di più, i vetri sono tuttora per
l'Asia un oggetto di curiosità, le finestre sono di solito chiuse
con carta oliata, e, dove scarseggia anche la carta, si sopprimono
senz'altro le finestre e ci si contenta di quel po' di luce che penetra
dal camino e che è più che bastante per fumare, per bere e per battere
i bambini troppo riottosi, sole occupazioni alle quali si dedicano
durante il giorno le spose dei fedeli mussulmani. Non crediate per
questo che in tali camere senza finestre regni una vera oscurità. Le
case non hanno mai più di un piano, le cappe dei camini non sorgono
mai più alte del tetto e sono molto ampie, sì che accada, piegando
un poco il capo davanti al camino, di scorgere facilmente il cielo
dall'apertura. È l'aria che manca completamente in quegli alloggi. Ma
quelle signore non se ne lagnano affatto perchè soffrono naturalmente
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