La vita intima e la vita nomade in Oriente - 08
presente essa si mostrò timida e spaventata come una giovanissima
sposa il giorno del matrimonio, coprendosi il viso col velo, colle
mani, con tutto ciò che era alla sua portata, e non rispondendo che
a monosillabi. Voltato il naso contro il muro, essa tratteneva lo
scoppiettare di un riso nervoso, sembrava sul punto di piangere alla
prima occasione favorevole, ripeteva insomma le piccole manovre che
avevo veduto eseguire così spesso da donne nella stessa posizione e che
lusingano sempre visibilmente i mariti orientali.
Essi si dicono che tale turbamento deriva, nelle donne, dal senso della
loro inferiorità e, poichè l'inferiorità di chi ci circonda suppone
necessariamente la nostra propria superiorità, il padrone di un harem
interpreta come un omaggio l'imbarazzo prodotto dalla sua presenza.
È questo un sentimento che non spetta, del resto, esclusivamente, nè
ad un popolo nè all'uno dei due sessi: fa parte degli elementi che
costituiscono la natura umana.
Dopo aver goduto per qualche tempo il simpatico turbamento che egli
produceva ed avermi supplicata più volte di non fare attenzione a
sua moglie che era una semplice turca, il bey ci lasciò soggiungendo
che io non avrei potuto cavare una parola da lei, finchè egli fosse
stato presente. Quand'ebbe varcato la soglia, io mi voltai verso sua
moglie ed al primo momento credetti che fosse scomparsa in una botola,
lasciando dietro di sè a rappresentarla i suoi vestiti accomodati in
un pacco. Una leggera ondulazione in quell'informe ammasso mi convinse
del mio errore e tosto il viso dipinto della mia bella ospite ne emerse
come da una nuvola. L'addio del suo caro sposo l'aveva piombata in una
così grande emozione che aveva provato la necessità di nascondere la
sua testa fra le sue gambe. Quelli che conoscono il modo di sedersi
degli orientali capiranno che le evoluzioni della moglie di Mustuk non
offrivano grandi difficoltà.
Quando fummo sole, essa depose la sua maschera di fosca timidezza
e chiacchierò per qualche tempo a suo agio. Mi fece domande sulle
nostre usanze che le sembravano altrettanto strane quanto divertenti,
se devo giudicare dalle risate che si ripetevano così spesso come i
ritornelli di una canzone ed altrettanto a proposito. Rimasi nondimeno
convinta che quella bella signora era assai più intelligente di quello
che volesse ammettere suo marito, giacchè vedevo l'interesse che
essa prendeva ad una quantità di cose che non la riguardavano e la
costanza con cui essa mi domandava il perchè di ogni cosa. Mi sarebbe
stato difficilissimo di rispondere categoricamente a tutte le sue
domande in modo da farmi comprendere; ma io conoscevo già la parola
magica, il talismano che addormenta e paralizza subito ogni curiosità
degli orientali. Supponete il vostro interlocutore meravigliato al
massimo grado ed intento a chiedervi la ragione di ciò che a lui
sembra inesplicabile, mostruoso, pazzesco: vi basterà di rispondere:
«Così si usa nel nostro paese» e la sorpresa si dissiperà, non udrete
più ripetere la domanda ed il curioso si dichiarerà interamente
soddisfatto. Non vi accadrà mai che vi risponda: «Ma perchè si usa
così?» e neppure: «Chi vi impedisce di cambiare?» No, gli orientali
sono così bene avvezzi dalla più tenera infanzia a vedere, fare e
tollerare un numero infinito di assurdità consacrate dall'uso, che
giungono a considerare quest'ultimo come gli antichi consideravano
il destino, come una divinità immutabile, inesorabile, superiore a
tutte le altre, e contro la quale è inutile irrigidirsi. Quando mi
accada di trovarmi in mezzo di un popolo che si contenti di venire a
sapere che una cosa è in uso in un dato posto, per credersi dispensato
dall'esaminarla meglio e dal giudicarla, saprò cosa pensare del valore
delle sue istituzioni.
La striscia di luce che entrando dalla porta aperta, disegnava un
grande rettangolo sul pavimento, apparve d'un tratto intercettata; un
rumore di ciarle sussurrate e di pantofole strascicate sulle pietre
umide si fece udire dal di fuori e le tre altre mogli del bey, che si
trovavano per il momento a casa, vennero a fare la mia conoscenza ed a
darmi il benvenuto. La seconda e la terza si assomigliavano a tal punto
che le credetti sorelle: erano due grassoccie, la cui salsedine precoce
poteva essere scambiata per freschezza in un paese di gusti poco
raffinati. Entrambe trascinavano al loro seguito la schiera di bimbi
che la Provvidenza aveva loro regalato.
Dietro queste due donne, stava umilmente nell'ombra una figura che
attrasse subito i miei sguardi e li tenne avvinti a sè, malgrado tutte
le manovre compiute dalle altre sultane per farmi voltare dalla loro
parte. Io non ricordo d'aver mai visto nulla di più bello. Questa donna
indossava una lunga veste a strascico di raso rosso, aperta sul seno
che era appena velato da una camiciola di garza di seta, le cui larghe
maniche giungevano fin sotto il gomito. L'acconciatura del suo capo era
quella delle Turcomane e, per farsene un'idea, occorre imaginare una
complicazione, una molteplicità infinita di turbanti, messi gli uni
sugli altri o gli uni attorno agli altri, fino a raggiungere altezze
inaccessibili. Eranvi sciarpe rosse arrotolate, sei o sette volte a
spirale e formanti una torre nel genere della dea Cibele; fazzoletti
di tutti i colori intrecciati colle sciarpe che salivano o scendevano
senza un disegno prestabilito e componendo dei fantastici arabeschi;
metri e metri di mussola fina che coprivano col loro candore una parte
dell'impalcatura, incorniciavano con cura la fronte e ricadevano
in drappeggi lunghi e leggeri lungo le guancie, intorno al collo,
fino sul petto. Catenelle d'oro o piccoli zecchini, infilati gli uni
negli altri, spille in pietre preziose od in diamanti puntate nella
mussola, ondeggiavano graziosamente fra le pieghe, dando loro una certa
stabilità che non sarebbe stato ragionevole di attendersi da un tessuto
così vaporoso. I piccolissimi piedi di bambina, che sembravano scolpiti
nel marmo, apparivano e scomparivano tratto tratto sotto la lunga veste
scarlatta, mentre braccia e mani, come non ne vidi giammai, scuotevano
un numero infinito di braccialetti e di anelli che non dovevano pesar
poco e scintillavano come veri diamanti. Tutto ciò costituiva un
insieme bizzarro e grazioso al tempo istesso, ma si cessava dal vederlo
appena si avesse guardato il viso cinto da quei drappeggi ondeggianti
e che una così grande toeletta mirava ad abbellire. La bellezza di
quel viso era così singolare che io rinuncio a descriverla perchè
non è possibile dare, a chi non ha potuto contemplarla, un'idea di un
capolavoro così incantevole della natura, di un misto tanto delizioso
di grazia e di timidezza.
Come ho detto, ciascuna delle due nuove venute trascinava con sè,
aggrappati alla sua veste, i frutti delle sue viscere, assolutamente
come la madre dei Gracchi. Invece la bella donna che prediligevo
camminava sola dietro alle sue «metà», come è chiamato in Oriente
il grado di parentela che consiste nell'avere un marito comune. Essa
teneva la testa bassa e sembrava piuttosto umiliata che umile. Feci
in fretta i miei convenevoli colle due prime, perchè ero impaziente
di arrivare all'ultima e di vedere quel bel viso animarsi nella
conversazione. La saluto e non mi risponde. Le domando perchè non ha
condotto con sè i suoi bimbi, sempre silenzio. Allora le tre altre
metà, parlando tutte insieme, m'informano colla maggiore soddisfazione
che essa non ne ha, mentre la bella china il capo ed arrossisce
esageratamente. Mi dolsi di aver toccato un tasto così delicato; ma
non si indovinerebbe mai ciò che soggiunsi per attenuare l'effetto
della mia imprudenza. Avrei dato prova della più odiosa brutalità, se
avessi parlato a qualsiasi altra donna che non fosse stata un'abitante
dell'harem; ma vivevo da tre anni in Asia, e conoscevo abbastanza
bene il terreno sul quale mi inoltravo. Prendendo dunque un'aria di
confidenza elogiosa, come se dovessi dire qualcosa che potesse metter
certo un termine all'imbarazzo della bella Turcomana e restituirle
l'onore, replicai: «Certo i figli della signora son morti?»
— Non ne ha mai avuti, — urlarono le tre arpie ridendo a crepapelle.
Questa volta due lagrime scesero lungo le gote infiammate della
poveretta.
Nulla è più spregiato, vilipeso, rejetto in Oriente di una donna
sterile. Avere dei figli e perderli è certo un dolore, ma è possibile
consolarsene, dimenticarli, sostituirli. Dopo tutto, se anche
mancassero i conforti, l'oblio, ed i nuovi rampolli, la madre che
ha perduto i suoi figli non resta per questo meno una signora e la
sua posizione sociale e domestica rimane la medesima; è rispettata,
ammirata, fors'anche amata e non ha nulla da arrossire. Ma non mettere
al mondo figliuoli, quella è una disgrazia vera, immensa, irreparabile,
che vi getta nel fango e nella polvere e che autorizza l'ultima delle
schiave, pur che sia incinta, a calpestarvi. Siate pur bella, graziosa,
adorata, abbiate pur recato a vostro marito la sostanza di cui vive,
corra nelle vostre vene sangue imperiale, mentre vostro marito non
è che un facchino, dal momento che la vostra sterilità è accertata,
non avete più da sperare salvezza. Sarebbe meglio per voi finirla
colla vita, perchè ognuno dei vostri giorni sarà riempito di dolorose
umiliazioni e d'insulti.
Durante tutto il tempo che passai con quelle signore, non mi riescì
di strappare alla più bella una sola parola. Abbassava le sue lunghe
ciglia con un gesto ammirabile, i più incantevoli colori andavano
e venivano sulle sue guancie di velluto, i sorrisi più amabili
gareggiavano sulle sue labbra, ma se fosse stata muta non avrebbe
potuto rimanere più ostinatamente silenziosa. Non fu che alla fine
della mia visita, quando prendevo congedo dalle mie ospiti, ed avevo
fatto osservare alla bella taciturna, che la lasciavo senz'aver udito
il suono della sua voce, allora soltanto, fatto un passo verso di me
e, assunto un atteggiamento deciso, come se stesse per salire su una
breccia, essa disse tutto d'un fiato, con una voce dolcissima e molto
pura, ma priva della menoma modulazione nel suono:
— Signora, rimani ancora, perchè ti voglio molto bene.
Ciò detto, la bocca si richiuse, gli occhi ricominciarono a guardare il
pavimento, l'ardore della risoluzione si spense su quel magnifico viso;
l'impresa era stato coronata da successo, il complimento era giunto al
suo indirizzo e la bella fra le belle poteva riposare sugli allori.
Non so perchè, ma a partire da quel momento fui perseguitata dall'idea
che la mia regina di bellezza potesse essere idiota e che mi avesse
servito una delle frasi, forse l'unica, colla quale salutava il signore
suo sposo. Quando lo rividi gli feci, secondo l'uso, molte lodi delle
sue donne, ma insistetti sopratutto sulla rara bellezza della mia
favorita.
— La trovate dunque così bella? — disse egli con una certa sorpresa.
— Mirabilmente bella! — gli risposi.
Parve che riflettesse un momento, poi rialzò le sopraciglia,
disegnando, con questo movimento una quantità di rughe orizzontali
sulla sua fronte; spinse innanzi il labbro inferiore ed il mento,
abbassò la testa allungando il collo, alzò leggermente le spalle ed un
poco le braccia per lasciarle poi ricadere sulle coscie; finalmente mi
disse in tono semi-confidenziale:
— Non ha figli.
Era giudicata!
Avevo fretta di rimettermi in cammino.
Dopo aver passato alcuni giorni presso il principe del Giaur-Daghda,
dovevo raggiungere Alessandretta per dirigermi di là a Beirut.
Sgraziatamente il tempo piovoso venne a contrariare i miei progetti di
partenza e dovetti, molto a malincuore, prolungare il mio soggiorno
nella residenza di Mustuk, senz'altri mezzi di distrazione che
conversazioni molto monotone, un poco col bey ed un poco colle sue
mogli. Finalmente il sole ricomparve, ed io abbandonai il monte
del Giaurro, con un senso vivissimo di soddisfazione, cioè in una
disposizione d'animo ben diversa da quella in cui mi trovavo alla mia
partenza da Adana.
III.
IL VIAGGIATORE EUROPEO NELL'ORIENTE ARABO
LA VALLE D'ANTIOCHIA — LATAKIÈ — LE DONNE DI SIRIA
Quattro ore di marcia separano il palazzo del principe Mustuk dalla
cittadina di Alessandretta[20]. Il viaggiatore che da Alessandretta
si reca a Beirut comincia a percorrere le montagne fino ai dintorni
di Latakiè: di là segue le coste del Mediterraneo fino a Beirut. La
regione che quest'itinerario mi fece attraversare è una delle più
pittoresche della Siria, ed il tratto da Alessandretta a Beirut segna
un periodo distinto nel viaggio di cui vado raccogliendo i ricordi. Non
ebbi mai un'occasione migliore per constatare come siano esagerate le
apprensioni che sembrano inseparabili da una marcia in talune parti del
Levante. Si temono le fatiche e le privazioni quando ci si avvia verso
solitudini di apparenza molto inospite. Se tali timori sono a volte
giustificati, non bisogna dimenticare che i nostri viaggi in Europa
hanno pure le loro noie e le loro fatiche, e che le gioie di una corsa
avventurosa, come quella di cui voglio rievocare le vicissitudini, non
vengono sempre a riscattarne i pesi.
Per non prolungare troppo questo saggio di riabilitazione della vita
alquanto laboriosa che s'impone nel Levante ad ogni viaggiatore, mi
contenterò di dire: Non visitate la Siria nel mese di luglio, nè l'Asia
Minore in inverno; dovreste temere l'apoplessia o la congelazione.
Scegliete un'epoca favorevole, prendete un buon cavallo di cui
regolerete il passo a modo vostro, buttatevi attraverso le montagne
o sulle spiaggie bagnate dal Mediterraneo, e venite poi a dirmi se
la corsa di otto ore al giorno, fatta in simili condizioni, non valga
mille volte le lunghe giornate del viaggiatore trascinato da una comoda
berlina, sulle migliori strade d'Europa. Certo il pericolo, accanto
alla stanchezza, deve esser calcolato nelle previsioni di chiunque
voglia visitare l'Oriente, ma il miglior modo di affrontarlo consiste
nel liberarsi dai timori puerili, alimentati da vecchi pregiudizii, e
di cui si vantano volontieri le donne. Lasciando che altri collochi una
sorta di pusillanimità pretenziosa e finta fra le grazie femminili,
per conto mio faticherò sempre a comprenderla, e non riuscirò mai a
scusarla. La paura, più o meno sincera, è uno dei nemici più temibili
nel viaggiatore e, sovratutto nel Levante, chi non sa trionfare di un
così triste sentimento, deve condannarsi alla vita sedentaria.
Veniamo alla città di Alessandretta ed alle avventure del mio
pellegrinaggio verso Beirut. A dispetto dei geografi, devo negare
che Alessandretta sia una città. Potrò ammettere, se si vuole, che
lo sia stata parecchi secoli or sono, sebbene non vi siano rovine
ad attestarlo; ma non vado più in là; e non potrò mai considerare
Alessandretta che come un punto di partenza. Il paesaggio è bello; il
littorale poi magnifico. Il vasto anfiteatro di montagne colleganti il
monte del Giaurro col Libano è meraviglioso. Nulla di più ridente della
verde pianura limitata per tre lati da queste montagne, e per l'altro
lato dal mare, la pianura sulla quale sorge Alessandretta. Ma che si
può dire delle case che rappresentano la città, case in pessimo stato,
anche se sono nuove, costruite senz'ordine nè disegno e che lasciano
fra di esse, invece di strade, piccoli spazi tagliati in tutti i sensi?
Di Alessandretta si può solo dire che la temperatura vi è eccessiva
sia in estate che in inverno, che il caldo vi è intollerabile ed il
freddo rigorosissimo, che le infiltrazioni del mare vi provocano febbri
periodiche, che il bazar vi è poverissimo e la maggior parte delle
mercanzie spedite da Aleppo scompaiono quasi immediatamente nelle mani
di otto o dieci abitanti privilegiati. La città di Alessandretta, lo
ripeto, non vale che quando la si abbandona.
Vi passai nondimeno circa 48 ore. Pochi momenti dopo la nostra partenza
dal palazzo di Mustuk bey, eravamo stati sorpresi da un orribile
temporale che ci forzò a rifugiarci in una capanna di doganieri, posta
in riva al mare. Lo spazio troppo stretto non ci aveva permesso di
ricoverare le nostre cavalcature e, quando arrivammo ad Alessandretta,
ci accorgemmo che uno dei nostri cavalli, un bel turcomano color
isabella, col muso e la criniera neri, era come reumatizzato in tutta
la faccia. Non si poteva pensare a condurlo più lontano, e ci piangeva
il cuore all'idea di abbandonarlo così al suo triste destino. Decidemmo
dunque di consacrargli un'intera giornata, durante la quale avremmo
potuto prendere disposizioni necessarie per farlo ben curare.
Non si trattava più che di allogarci per un giorno e per due notti ad
Alessandretta. Eravamo scesi in casa del console di Sardegna, che ci
aveva ricevuti con tutta la cordialità alla quale i viaggiatori sono
così sensibili, ma egli viveva da celibe nella sua triste residenza, e
la sua casa, sebbene abbastanza grande, non era adatta per ricevere la
nostra numerosa carovana. Il console comunicò il suo imbarazzo ad un
collega, agente consolare della Gran Bretagna, ed il risultato della
conferenza fu di mettere a nostra disposizione la dimora del console
inglese, allora in congedo, e tutto ciò che essa conteneva. Accolsi
questa decisione con una gioia quasi infantile. Avevo osservato,
nella casa del console d'Inghilterra, certi particolari di griglie
verdi, di balconi coperti che mi riportavano come d'incanto in mezzo
alle simpatiche dimore di Cheltenham e di Brighton. Passare un giorno
e due notti in uno di quegli eden in miniatura, che mi appariva
inaspettatamente, sulle rive del mare di Siria, dopo esser rimasta
digiuna, durante degli anni, di ogni lusso e di ogni eleganza, ciò
somigliava ad un sogno, ad un sogno d'Europa.
_Ma nulla è al mondo in c'uom s'affida_
ha detto il Petrarca e mi ricordavo questo verso entrando nel mio
piccolo eden; il sogno si era dileguato lasciando solo rammarichi
dietro di sè. Il console era assente da parecchi mesi ed una squadra di
servitori arabi si era insediata in tutte le stanze e le traccie del
loro soggiorno erano troppo evidenti. Dovetti strapparmi alle belle
visioni che mi avevano un momento arriso, poi ordinare e sorvegliare
le purificazioni senza le quali non è possibile abitare in una casa
araba. Scelsi una stanza esposta al nord, per non disturbare gli
esseri microscopici che preferiscono le camere esposte a mezzogiorno.
Misi in azione durante il resto della giornata parecchie scope ed
altrettante spazzole; feci del mio meglio per moltiplicare le correnti
d'aria favorite dagli assiti mal connessi e dalle mura screpolate;
m'impadronii d'un letto in ferro verniciato che mi parve d'aspetto
rassicurante, e terminati questi preparativi potei prendere un po' di
riposo. Si capisce nondimeno che cercai tutti i modi per star lontana
da un simile alloggio e le ore della mia sosta ad Alessandretta furono
sovratutto occupate da passeggiate in riva al mare. Come dovetti
rimpiangere allora la mia ignoranza in storia naturale! Camminavo su
un mosaico di marmi preziosi e di pietre rilucenti. Il mare, che li
aveva gettati sulla spiaggia con una quantità di graziose conchiglie,
dava pure ad essi il riflesso del suo umido scintillio su cui i raggi
del sole di Siria si rifrangevano in colori mutevoli ed indefinibili,
splendendo come diamanti. Mi chinai a raccogliere manciate di quelle
pietre e di quelle conchiglie andando e venendo dalla riva alla mia
camera per deporvi la mia raccolta, ma finii per gettarla tutta dalla
finestra dopo aver riflesso che quelle pietre che mi erano parse
così preziose non potevano avere alcun valore per uno scienziato. Un
altro spettacolo destò la mia sorpresa ad Alessandretta, quello di
una piccola mandra di maiali domestici che annusavano dibattendosi a
loro agio in un recinto accanto al consolato, giacchè quelle bestie
appartenevano al console. Non ho potuto dimenticare quest'incontro
perchè un armeno di Diarbekir, che avevo al mio servizio, scambiò
quegli animali per cani di una razza di gran pregio e non riescii a
convincerlo del suo errore. Se ben compresi, egli si era imaginato che
i maiali fossero degli elefanti con una tromba più piccola.
All'escire da Alessandretta, la strada penetra quasi subito nelle
montagne che sono a sud-est e si aggira per ben quattro ore in
un labirinto di lauri e di mirti. La cittadina di Beinam[21], ove
pernottammo appunto a quattro ore di distanza da Alessandretta, ha
sparpagliato le sue case tra il fondo del vallone e l'alto del pendio,
in modo da occupare uno spazio più ampio di quello che convenga alle
sue piccole dimensioni. La casa di campagna del console inglese, ove
dovevamo scendere, era una delle ultime della città. Da quell'altura
si scopre un bellissimo panorama. Le montagne, o meglio le colline,
in mezzo alle quali avevamo camminato a partire da Alessandretta
giacevano ai nostri piedi, ed i nostri sguardi si fermavano al di là,
sul mare scuro e turchino che dal lato della Siria incorniciavano
capricciosamente le cime ritagliate a festoni dei monti e le masse
verdi delle foreste. Quanto al nostro alloggio dirò solo che lo
raggiungemmo inerpicandoci su per la montagna come le mosche si
arrampicano sui muri e che, dopo aver ben considerato il locale
offertomi, feci un interrogatorio al mio cavass per scoprire quali
reconditi motivi lo avessero determinato a condurmi in quel Purgatorio
e perchè non avesse subito cercato di collocarmi altrove. Egli mi
squadrò tutto sorpreso ed attribuì la stranezza delle mie domande
e delle mie valutazioni dei beni di questa terra ad un'imperfetta
conoscenza delle usanze turche. Finì per giurarmi, su quanto può avere
di più sacro un buon mussulmano, che la casa in cui mi trovavo era
senza confronto la più bella di Beinam. Senza insistere più oltre avrei
desiderato sapere, non foss'altro per mia istruzione, come fosse fatta
la più brutta.
Da Beinam ad Antiochia la tappa è molto lunga, qualcosa come dieci
o dodici ore secondo le previsioni. A tale riguardo devo dire che è
difficilissimo stabilire nella Siria un calcolo esatto delle ore e
delle distanze. Siccome non si è ancor pensato a misurare il terreno
ed a suddividerlo in leghe, miglia o metri, non si valutano le distanze
che dal tempo impiegato a percorrerle. Non basta, v'è di peggio; perchè
non tutti camminano collo stesso passo e non è stato scelto un passo
qualsiasi che serva come unità di misura. Se per esempio vi dicono
che occorrono dieci ore da Beinam ad Antiochia e vi appagate di tale
indicazione potreste pentirvene, perchè può darsi che voi superiate
la distanza in cinque ore e fors'anche in quindici, senza poterlo
rinfacciare a chi vi ha dato l'informazione. La colpa sarà tutta vostra
per non aver soggiunto: quali ore? di pedone, di cammello, di mulo?
Di cavallo d'affitto o di cavallo di posta? In alcuni cantoni si conta
sempre ad ore di cammello, in altre ad ore di mulo e così via. Quando
sbucammo dalle montagne eravamo circa a mezza strada e scendemmo in
una valle che ha nel centro un lago ed il lato verso occidente limitato
da una catena di montagne basse lungo le quali serpeggia la strada. A
breve distanza dal lago una vecchia locanda quasi interamente diroccata
faceva ancora una certa figura. La grandezza e la magnificenza con cui
furono costruiti quei monumenti dell'ospitalità orientale sono proprio
straordinarie. A prima vista si direbbero palazzi reali o templi
consacrati a qualche Dio ignoto. Porte simili ad archi di trionfo,
enormi pilastri che sostengono volte alte cento piedi, vastissime corti
aperte su altre ancor più immense e selciate a pietroni, tutto ciò non
contiene che scuderie e tettoie per le merci. Per ciò che concerne i
viaggiatori, non vi è ostacolo a che si stabiliscano per la notte fra
le gambe dei cavalli, oppure sotto la loro testa, cioè su un rialzo
che fiancheggia le mangiatoie. I dintorni di Antiochia armonizzano
coll'antica grandezza di quella città in decadenza[22]. Sul vertice
di una delle montagne che chiudono la valle in mezzo alla quale sorge
l'antica capitale della Siria, si possono ancora scorgere rovine di
fortificazioni. L'Oronte bagna la valle e, prima di entrare nella
città, si suddivide in parecchie braccia che formano degli isolotti sui
quali sono stati eretti dei mulini. Le conche, scaglionate di tratto in
tratto, regolano il corso delle acque che servono ad irrigare deliziosi
giardini. Il riposo ci era offerto ad Antiochia dall'agente consolare
d'Inghilterra, ricco mercante armeno, che con una cordialità perfetta
aveva messo a mia disposizione tutta la sua casa. Mi sarebbe stato pur
dolce di fermarmi ad Antiochia! Tutto mi vi invitava, le rovine ed i
giardini, i boschetti dei lauri rosa e le fontane sacre; ma bisognava
proseguire senza guardare oppure rinunciare a raggiungere Gerusalemme
prima delle feste di Pasqua. Non tardai a decidermi ed allorchè, dopo
la prima notte passata ad Antiochia, il mio ospite venne a domandarmi
qual monumento doveva farmi visitare, rimase male all'udire come avessi
rinunciato a vedere le rarità di Antiochia e contassi partire il giorno
stesso.
Lasciavamo dunque Antiochia senza aver nulla veduto di quanto essa
racchiude; ma la Provvidenza dei viaggiatori che doveva conoscere
ed apprezzare i motivi della mia condotta ci riservava un compenso,
conducendoci verso uno dei luoghi più celebri e, ciò che vale
assai meglio, più belli dei dintorni della città. Era la fontana di
Dafne[23], ove si ergeva una volta, a pochi passi da una sorgente
limpida e copiosa, un tempio che credo fosse dedicato a Venere. Il
sole già alto sull'orizzonte bruciava il nostro capo e cercavamo cogli
occhi fin da lungi un poco di ombra, quando scorgemmo un boschetto
di gelsi che coronava il vertice di una collina. Attraverso a quel
fogliame scuro si indovinavano masse biancastre di varie forme e
misure. Erano colonne di marmo bianco; talune giacevano al suolo,
altre, sebbene tronche, si reggevano tuttora in piedi; il suolo era
ingombro di moltissimi frammenti. In mezzo sorgevano alberi di ogni
età, dal lauro e dall'olivo il cui tronco nodoso era annerito dal
tempo al gelso giovane e flessibile che levava al cielo i suoi rami
snelli come le dita di una mano supplichevole. Le mura del tempio erano
crollate, le colonne rovesciate, e quelle che rimanevano in piedi non
reggevano più nè volte nè frontoni. Ma gli alberi portavano tuttora le
loro foglie, i fiori ed i frutti. E, se i succhi di alcuni si erano
disseccati, ciò non era accaduto prima d'aver affidato alla terra,
custode e tutrice fedele, i germi fecondi destinati alla riproduzione.
La vanità umana non ha ancor imparato la lezione che la natura le
ripete sin dall'inizio della creazione. L'uomo crede innalzare edifici
che dureranno quanto il marmo e gli stessi metalli. Ahimè! Quei fragili
steli, quei fiori e quelle foglie così delicati, che proiettavano un
tempo la loro ombra sui gradini del santuario decantato come perenne,
non ombreggiano oggi che le sue rovine. Anche la più gracile creazione
della natura è immortale ed il lavoro più solido dell'uomo non dura al
di là di un certo tempo.
Non avrebbe dipeso che da noi di partire da Antiochia in una carovana
numerosa. Il Giaur-Daghda non è la sola montagna dell'impero ottomano
che ripari fra le sue roccie sudditi ribelli. La grande tribù
araba degli Ansariati, che occupa una parte notevole del Libano e
dell'Antilibano, da Latakiè fino ai dintorni di Damasco, si era appena
rivoltata ed il pascià d'Aleppo mandava truppe contro quegli indomiti
montanari che pretendevano di sottrarsi alla coscrizione. Vi fu chi ci
consigliò di accompagnarci ai soldati per porci al riparo dai briganti.
Ritenni invece che il viaggiare colle truppe voleva dire affrontare il
nemico; preferii dunque di viaggiare per conto mio e di non pormi sotto
la protezione di alcuno. Durante tutta la mia lunga spedizione non mi
sono allontanata una sol volta da questa regola di condotta e, quando
mi è stato impossibile di rifiutare una scorta, ho avuto cura di non
ammettervi che dei «basci-bozuk» (ciò che si potrebbe tradurre: capi
scarichi), specie di guardia urbana o comunale che deve avere un gran
potere di seduzione poichè è così ben vista dai briganti come dai suoi
propri capi. Non so quali sarebbero state le conseguenze del sistema
sposa il giorno del matrimonio, coprendosi il viso col velo, colle
mani, con tutto ciò che era alla sua portata, e non rispondendo che
a monosillabi. Voltato il naso contro il muro, essa tratteneva lo
scoppiettare di un riso nervoso, sembrava sul punto di piangere alla
prima occasione favorevole, ripeteva insomma le piccole manovre che
avevo veduto eseguire così spesso da donne nella stessa posizione e che
lusingano sempre visibilmente i mariti orientali.
Essi si dicono che tale turbamento deriva, nelle donne, dal senso della
loro inferiorità e, poichè l'inferiorità di chi ci circonda suppone
necessariamente la nostra propria superiorità, il padrone di un harem
interpreta come un omaggio l'imbarazzo prodotto dalla sua presenza.
È questo un sentimento che non spetta, del resto, esclusivamente, nè
ad un popolo nè all'uno dei due sessi: fa parte degli elementi che
costituiscono la natura umana.
Dopo aver goduto per qualche tempo il simpatico turbamento che egli
produceva ed avermi supplicata più volte di non fare attenzione a
sua moglie che era una semplice turca, il bey ci lasciò soggiungendo
che io non avrei potuto cavare una parola da lei, finchè egli fosse
stato presente. Quand'ebbe varcato la soglia, io mi voltai verso sua
moglie ed al primo momento credetti che fosse scomparsa in una botola,
lasciando dietro di sè a rappresentarla i suoi vestiti accomodati in
un pacco. Una leggera ondulazione in quell'informe ammasso mi convinse
del mio errore e tosto il viso dipinto della mia bella ospite ne emerse
come da una nuvola. L'addio del suo caro sposo l'aveva piombata in una
così grande emozione che aveva provato la necessità di nascondere la
sua testa fra le sue gambe. Quelli che conoscono il modo di sedersi
degli orientali capiranno che le evoluzioni della moglie di Mustuk non
offrivano grandi difficoltà.
Quando fummo sole, essa depose la sua maschera di fosca timidezza
e chiacchierò per qualche tempo a suo agio. Mi fece domande sulle
nostre usanze che le sembravano altrettanto strane quanto divertenti,
se devo giudicare dalle risate che si ripetevano così spesso come i
ritornelli di una canzone ed altrettanto a proposito. Rimasi nondimeno
convinta che quella bella signora era assai più intelligente di quello
che volesse ammettere suo marito, giacchè vedevo l'interesse che
essa prendeva ad una quantità di cose che non la riguardavano e la
costanza con cui essa mi domandava il perchè di ogni cosa. Mi sarebbe
stato difficilissimo di rispondere categoricamente a tutte le sue
domande in modo da farmi comprendere; ma io conoscevo già la parola
magica, il talismano che addormenta e paralizza subito ogni curiosità
degli orientali. Supponete il vostro interlocutore meravigliato al
massimo grado ed intento a chiedervi la ragione di ciò che a lui
sembra inesplicabile, mostruoso, pazzesco: vi basterà di rispondere:
«Così si usa nel nostro paese» e la sorpresa si dissiperà, non udrete
più ripetere la domanda ed il curioso si dichiarerà interamente
soddisfatto. Non vi accadrà mai che vi risponda: «Ma perchè si usa
così?» e neppure: «Chi vi impedisce di cambiare?» No, gli orientali
sono così bene avvezzi dalla più tenera infanzia a vedere, fare e
tollerare un numero infinito di assurdità consacrate dall'uso, che
giungono a considerare quest'ultimo come gli antichi consideravano
il destino, come una divinità immutabile, inesorabile, superiore a
tutte le altre, e contro la quale è inutile irrigidirsi. Quando mi
accada di trovarmi in mezzo di un popolo che si contenti di venire a
sapere che una cosa è in uso in un dato posto, per credersi dispensato
dall'esaminarla meglio e dal giudicarla, saprò cosa pensare del valore
delle sue istituzioni.
La striscia di luce che entrando dalla porta aperta, disegnava un
grande rettangolo sul pavimento, apparve d'un tratto intercettata; un
rumore di ciarle sussurrate e di pantofole strascicate sulle pietre
umide si fece udire dal di fuori e le tre altre mogli del bey, che si
trovavano per il momento a casa, vennero a fare la mia conoscenza ed a
darmi il benvenuto. La seconda e la terza si assomigliavano a tal punto
che le credetti sorelle: erano due grassoccie, la cui salsedine precoce
poteva essere scambiata per freschezza in un paese di gusti poco
raffinati. Entrambe trascinavano al loro seguito la schiera di bimbi
che la Provvidenza aveva loro regalato.
Dietro queste due donne, stava umilmente nell'ombra una figura che
attrasse subito i miei sguardi e li tenne avvinti a sè, malgrado tutte
le manovre compiute dalle altre sultane per farmi voltare dalla loro
parte. Io non ricordo d'aver mai visto nulla di più bello. Questa donna
indossava una lunga veste a strascico di raso rosso, aperta sul seno
che era appena velato da una camiciola di garza di seta, le cui larghe
maniche giungevano fin sotto il gomito. L'acconciatura del suo capo era
quella delle Turcomane e, per farsene un'idea, occorre imaginare una
complicazione, una molteplicità infinita di turbanti, messi gli uni
sugli altri o gli uni attorno agli altri, fino a raggiungere altezze
inaccessibili. Eranvi sciarpe rosse arrotolate, sei o sette volte a
spirale e formanti una torre nel genere della dea Cibele; fazzoletti
di tutti i colori intrecciati colle sciarpe che salivano o scendevano
senza un disegno prestabilito e componendo dei fantastici arabeschi;
metri e metri di mussola fina che coprivano col loro candore una parte
dell'impalcatura, incorniciavano con cura la fronte e ricadevano
in drappeggi lunghi e leggeri lungo le guancie, intorno al collo,
fino sul petto. Catenelle d'oro o piccoli zecchini, infilati gli uni
negli altri, spille in pietre preziose od in diamanti puntate nella
mussola, ondeggiavano graziosamente fra le pieghe, dando loro una certa
stabilità che non sarebbe stato ragionevole di attendersi da un tessuto
così vaporoso. I piccolissimi piedi di bambina, che sembravano scolpiti
nel marmo, apparivano e scomparivano tratto tratto sotto la lunga veste
scarlatta, mentre braccia e mani, come non ne vidi giammai, scuotevano
un numero infinito di braccialetti e di anelli che non dovevano pesar
poco e scintillavano come veri diamanti. Tutto ciò costituiva un
insieme bizzarro e grazioso al tempo istesso, ma si cessava dal vederlo
appena si avesse guardato il viso cinto da quei drappeggi ondeggianti
e che una così grande toeletta mirava ad abbellire. La bellezza di
quel viso era così singolare che io rinuncio a descriverla perchè
non è possibile dare, a chi non ha potuto contemplarla, un'idea di un
capolavoro così incantevole della natura, di un misto tanto delizioso
di grazia e di timidezza.
Come ho detto, ciascuna delle due nuove venute trascinava con sè,
aggrappati alla sua veste, i frutti delle sue viscere, assolutamente
come la madre dei Gracchi. Invece la bella donna che prediligevo
camminava sola dietro alle sue «metà», come è chiamato in Oriente
il grado di parentela che consiste nell'avere un marito comune. Essa
teneva la testa bassa e sembrava piuttosto umiliata che umile. Feci
in fretta i miei convenevoli colle due prime, perchè ero impaziente
di arrivare all'ultima e di vedere quel bel viso animarsi nella
conversazione. La saluto e non mi risponde. Le domando perchè non ha
condotto con sè i suoi bimbi, sempre silenzio. Allora le tre altre
metà, parlando tutte insieme, m'informano colla maggiore soddisfazione
che essa non ne ha, mentre la bella china il capo ed arrossisce
esageratamente. Mi dolsi di aver toccato un tasto così delicato; ma
non si indovinerebbe mai ciò che soggiunsi per attenuare l'effetto
della mia imprudenza. Avrei dato prova della più odiosa brutalità, se
avessi parlato a qualsiasi altra donna che non fosse stata un'abitante
dell'harem; ma vivevo da tre anni in Asia, e conoscevo abbastanza
bene il terreno sul quale mi inoltravo. Prendendo dunque un'aria di
confidenza elogiosa, come se dovessi dire qualcosa che potesse metter
certo un termine all'imbarazzo della bella Turcomana e restituirle
l'onore, replicai: «Certo i figli della signora son morti?»
— Non ne ha mai avuti, — urlarono le tre arpie ridendo a crepapelle.
Questa volta due lagrime scesero lungo le gote infiammate della
poveretta.
Nulla è più spregiato, vilipeso, rejetto in Oriente di una donna
sterile. Avere dei figli e perderli è certo un dolore, ma è possibile
consolarsene, dimenticarli, sostituirli. Dopo tutto, se anche
mancassero i conforti, l'oblio, ed i nuovi rampolli, la madre che
ha perduto i suoi figli non resta per questo meno una signora e la
sua posizione sociale e domestica rimane la medesima; è rispettata,
ammirata, fors'anche amata e non ha nulla da arrossire. Ma non mettere
al mondo figliuoli, quella è una disgrazia vera, immensa, irreparabile,
che vi getta nel fango e nella polvere e che autorizza l'ultima delle
schiave, pur che sia incinta, a calpestarvi. Siate pur bella, graziosa,
adorata, abbiate pur recato a vostro marito la sostanza di cui vive,
corra nelle vostre vene sangue imperiale, mentre vostro marito non
è che un facchino, dal momento che la vostra sterilità è accertata,
non avete più da sperare salvezza. Sarebbe meglio per voi finirla
colla vita, perchè ognuno dei vostri giorni sarà riempito di dolorose
umiliazioni e d'insulti.
Durante tutto il tempo che passai con quelle signore, non mi riescì
di strappare alla più bella una sola parola. Abbassava le sue lunghe
ciglia con un gesto ammirabile, i più incantevoli colori andavano
e venivano sulle sue guancie di velluto, i sorrisi più amabili
gareggiavano sulle sue labbra, ma se fosse stata muta non avrebbe
potuto rimanere più ostinatamente silenziosa. Non fu che alla fine
della mia visita, quando prendevo congedo dalle mie ospiti, ed avevo
fatto osservare alla bella taciturna, che la lasciavo senz'aver udito
il suono della sua voce, allora soltanto, fatto un passo verso di me
e, assunto un atteggiamento deciso, come se stesse per salire su una
breccia, essa disse tutto d'un fiato, con una voce dolcissima e molto
pura, ma priva della menoma modulazione nel suono:
— Signora, rimani ancora, perchè ti voglio molto bene.
Ciò detto, la bocca si richiuse, gli occhi ricominciarono a guardare il
pavimento, l'ardore della risoluzione si spense su quel magnifico viso;
l'impresa era stato coronata da successo, il complimento era giunto al
suo indirizzo e la bella fra le belle poteva riposare sugli allori.
Non so perchè, ma a partire da quel momento fui perseguitata dall'idea
che la mia regina di bellezza potesse essere idiota e che mi avesse
servito una delle frasi, forse l'unica, colla quale salutava il signore
suo sposo. Quando lo rividi gli feci, secondo l'uso, molte lodi delle
sue donne, ma insistetti sopratutto sulla rara bellezza della mia
favorita.
— La trovate dunque così bella? — disse egli con una certa sorpresa.
— Mirabilmente bella! — gli risposi.
Parve che riflettesse un momento, poi rialzò le sopraciglia,
disegnando, con questo movimento una quantità di rughe orizzontali
sulla sua fronte; spinse innanzi il labbro inferiore ed il mento,
abbassò la testa allungando il collo, alzò leggermente le spalle ed un
poco le braccia per lasciarle poi ricadere sulle coscie; finalmente mi
disse in tono semi-confidenziale:
— Non ha figli.
Era giudicata!
Avevo fretta di rimettermi in cammino.
Dopo aver passato alcuni giorni presso il principe del Giaur-Daghda,
dovevo raggiungere Alessandretta per dirigermi di là a Beirut.
Sgraziatamente il tempo piovoso venne a contrariare i miei progetti di
partenza e dovetti, molto a malincuore, prolungare il mio soggiorno
nella residenza di Mustuk, senz'altri mezzi di distrazione che
conversazioni molto monotone, un poco col bey ed un poco colle sue
mogli. Finalmente il sole ricomparve, ed io abbandonai il monte
del Giaurro, con un senso vivissimo di soddisfazione, cioè in una
disposizione d'animo ben diversa da quella in cui mi trovavo alla mia
partenza da Adana.
III.
IL VIAGGIATORE EUROPEO NELL'ORIENTE ARABO
LA VALLE D'ANTIOCHIA — LATAKIÈ — LE DONNE DI SIRIA
Quattro ore di marcia separano il palazzo del principe Mustuk dalla
cittadina di Alessandretta[20]. Il viaggiatore che da Alessandretta
si reca a Beirut comincia a percorrere le montagne fino ai dintorni
di Latakiè: di là segue le coste del Mediterraneo fino a Beirut. La
regione che quest'itinerario mi fece attraversare è una delle più
pittoresche della Siria, ed il tratto da Alessandretta a Beirut segna
un periodo distinto nel viaggio di cui vado raccogliendo i ricordi. Non
ebbi mai un'occasione migliore per constatare come siano esagerate le
apprensioni che sembrano inseparabili da una marcia in talune parti del
Levante. Si temono le fatiche e le privazioni quando ci si avvia verso
solitudini di apparenza molto inospite. Se tali timori sono a volte
giustificati, non bisogna dimenticare che i nostri viaggi in Europa
hanno pure le loro noie e le loro fatiche, e che le gioie di una corsa
avventurosa, come quella di cui voglio rievocare le vicissitudini, non
vengono sempre a riscattarne i pesi.
Per non prolungare troppo questo saggio di riabilitazione della vita
alquanto laboriosa che s'impone nel Levante ad ogni viaggiatore, mi
contenterò di dire: Non visitate la Siria nel mese di luglio, nè l'Asia
Minore in inverno; dovreste temere l'apoplessia o la congelazione.
Scegliete un'epoca favorevole, prendete un buon cavallo di cui
regolerete il passo a modo vostro, buttatevi attraverso le montagne
o sulle spiaggie bagnate dal Mediterraneo, e venite poi a dirmi se
la corsa di otto ore al giorno, fatta in simili condizioni, non valga
mille volte le lunghe giornate del viaggiatore trascinato da una comoda
berlina, sulle migliori strade d'Europa. Certo il pericolo, accanto
alla stanchezza, deve esser calcolato nelle previsioni di chiunque
voglia visitare l'Oriente, ma il miglior modo di affrontarlo consiste
nel liberarsi dai timori puerili, alimentati da vecchi pregiudizii, e
di cui si vantano volontieri le donne. Lasciando che altri collochi una
sorta di pusillanimità pretenziosa e finta fra le grazie femminili,
per conto mio faticherò sempre a comprenderla, e non riuscirò mai a
scusarla. La paura, più o meno sincera, è uno dei nemici più temibili
nel viaggiatore e, sovratutto nel Levante, chi non sa trionfare di un
così triste sentimento, deve condannarsi alla vita sedentaria.
Veniamo alla città di Alessandretta ed alle avventure del mio
pellegrinaggio verso Beirut. A dispetto dei geografi, devo negare
che Alessandretta sia una città. Potrò ammettere, se si vuole, che
lo sia stata parecchi secoli or sono, sebbene non vi siano rovine
ad attestarlo; ma non vado più in là; e non potrò mai considerare
Alessandretta che come un punto di partenza. Il paesaggio è bello; il
littorale poi magnifico. Il vasto anfiteatro di montagne colleganti il
monte del Giaurro col Libano è meraviglioso. Nulla di più ridente della
verde pianura limitata per tre lati da queste montagne, e per l'altro
lato dal mare, la pianura sulla quale sorge Alessandretta. Ma che si
può dire delle case che rappresentano la città, case in pessimo stato,
anche se sono nuove, costruite senz'ordine nè disegno e che lasciano
fra di esse, invece di strade, piccoli spazi tagliati in tutti i sensi?
Di Alessandretta si può solo dire che la temperatura vi è eccessiva
sia in estate che in inverno, che il caldo vi è intollerabile ed il
freddo rigorosissimo, che le infiltrazioni del mare vi provocano febbri
periodiche, che il bazar vi è poverissimo e la maggior parte delle
mercanzie spedite da Aleppo scompaiono quasi immediatamente nelle mani
di otto o dieci abitanti privilegiati. La città di Alessandretta, lo
ripeto, non vale che quando la si abbandona.
Vi passai nondimeno circa 48 ore. Pochi momenti dopo la nostra partenza
dal palazzo di Mustuk bey, eravamo stati sorpresi da un orribile
temporale che ci forzò a rifugiarci in una capanna di doganieri, posta
in riva al mare. Lo spazio troppo stretto non ci aveva permesso di
ricoverare le nostre cavalcature e, quando arrivammo ad Alessandretta,
ci accorgemmo che uno dei nostri cavalli, un bel turcomano color
isabella, col muso e la criniera neri, era come reumatizzato in tutta
la faccia. Non si poteva pensare a condurlo più lontano, e ci piangeva
il cuore all'idea di abbandonarlo così al suo triste destino. Decidemmo
dunque di consacrargli un'intera giornata, durante la quale avremmo
potuto prendere disposizioni necessarie per farlo ben curare.
Non si trattava più che di allogarci per un giorno e per due notti ad
Alessandretta. Eravamo scesi in casa del console di Sardegna, che ci
aveva ricevuti con tutta la cordialità alla quale i viaggiatori sono
così sensibili, ma egli viveva da celibe nella sua triste residenza, e
la sua casa, sebbene abbastanza grande, non era adatta per ricevere la
nostra numerosa carovana. Il console comunicò il suo imbarazzo ad un
collega, agente consolare della Gran Bretagna, ed il risultato della
conferenza fu di mettere a nostra disposizione la dimora del console
inglese, allora in congedo, e tutto ciò che essa conteneva. Accolsi
questa decisione con una gioia quasi infantile. Avevo osservato,
nella casa del console d'Inghilterra, certi particolari di griglie
verdi, di balconi coperti che mi riportavano come d'incanto in mezzo
alle simpatiche dimore di Cheltenham e di Brighton. Passare un giorno
e due notti in uno di quegli eden in miniatura, che mi appariva
inaspettatamente, sulle rive del mare di Siria, dopo esser rimasta
digiuna, durante degli anni, di ogni lusso e di ogni eleganza, ciò
somigliava ad un sogno, ad un sogno d'Europa.
_Ma nulla è al mondo in c'uom s'affida_
ha detto il Petrarca e mi ricordavo questo verso entrando nel mio
piccolo eden; il sogno si era dileguato lasciando solo rammarichi
dietro di sè. Il console era assente da parecchi mesi ed una squadra di
servitori arabi si era insediata in tutte le stanze e le traccie del
loro soggiorno erano troppo evidenti. Dovetti strapparmi alle belle
visioni che mi avevano un momento arriso, poi ordinare e sorvegliare
le purificazioni senza le quali non è possibile abitare in una casa
araba. Scelsi una stanza esposta al nord, per non disturbare gli
esseri microscopici che preferiscono le camere esposte a mezzogiorno.
Misi in azione durante il resto della giornata parecchie scope ed
altrettante spazzole; feci del mio meglio per moltiplicare le correnti
d'aria favorite dagli assiti mal connessi e dalle mura screpolate;
m'impadronii d'un letto in ferro verniciato che mi parve d'aspetto
rassicurante, e terminati questi preparativi potei prendere un po' di
riposo. Si capisce nondimeno che cercai tutti i modi per star lontana
da un simile alloggio e le ore della mia sosta ad Alessandretta furono
sovratutto occupate da passeggiate in riva al mare. Come dovetti
rimpiangere allora la mia ignoranza in storia naturale! Camminavo su
un mosaico di marmi preziosi e di pietre rilucenti. Il mare, che li
aveva gettati sulla spiaggia con una quantità di graziose conchiglie,
dava pure ad essi il riflesso del suo umido scintillio su cui i raggi
del sole di Siria si rifrangevano in colori mutevoli ed indefinibili,
splendendo come diamanti. Mi chinai a raccogliere manciate di quelle
pietre e di quelle conchiglie andando e venendo dalla riva alla mia
camera per deporvi la mia raccolta, ma finii per gettarla tutta dalla
finestra dopo aver riflesso che quelle pietre che mi erano parse
così preziose non potevano avere alcun valore per uno scienziato. Un
altro spettacolo destò la mia sorpresa ad Alessandretta, quello di
una piccola mandra di maiali domestici che annusavano dibattendosi a
loro agio in un recinto accanto al consolato, giacchè quelle bestie
appartenevano al console. Non ho potuto dimenticare quest'incontro
perchè un armeno di Diarbekir, che avevo al mio servizio, scambiò
quegli animali per cani di una razza di gran pregio e non riescii a
convincerlo del suo errore. Se ben compresi, egli si era imaginato che
i maiali fossero degli elefanti con una tromba più piccola.
All'escire da Alessandretta, la strada penetra quasi subito nelle
montagne che sono a sud-est e si aggira per ben quattro ore in
un labirinto di lauri e di mirti. La cittadina di Beinam[21], ove
pernottammo appunto a quattro ore di distanza da Alessandretta, ha
sparpagliato le sue case tra il fondo del vallone e l'alto del pendio,
in modo da occupare uno spazio più ampio di quello che convenga alle
sue piccole dimensioni. La casa di campagna del console inglese, ove
dovevamo scendere, era una delle ultime della città. Da quell'altura
si scopre un bellissimo panorama. Le montagne, o meglio le colline,
in mezzo alle quali avevamo camminato a partire da Alessandretta
giacevano ai nostri piedi, ed i nostri sguardi si fermavano al di là,
sul mare scuro e turchino che dal lato della Siria incorniciavano
capricciosamente le cime ritagliate a festoni dei monti e le masse
verdi delle foreste. Quanto al nostro alloggio dirò solo che lo
raggiungemmo inerpicandoci su per la montagna come le mosche si
arrampicano sui muri e che, dopo aver ben considerato il locale
offertomi, feci un interrogatorio al mio cavass per scoprire quali
reconditi motivi lo avessero determinato a condurmi in quel Purgatorio
e perchè non avesse subito cercato di collocarmi altrove. Egli mi
squadrò tutto sorpreso ed attribuì la stranezza delle mie domande
e delle mie valutazioni dei beni di questa terra ad un'imperfetta
conoscenza delle usanze turche. Finì per giurarmi, su quanto può avere
di più sacro un buon mussulmano, che la casa in cui mi trovavo era
senza confronto la più bella di Beinam. Senza insistere più oltre avrei
desiderato sapere, non foss'altro per mia istruzione, come fosse fatta
la più brutta.
Da Beinam ad Antiochia la tappa è molto lunga, qualcosa come dieci
o dodici ore secondo le previsioni. A tale riguardo devo dire che è
difficilissimo stabilire nella Siria un calcolo esatto delle ore e
delle distanze. Siccome non si è ancor pensato a misurare il terreno
ed a suddividerlo in leghe, miglia o metri, non si valutano le distanze
che dal tempo impiegato a percorrerle. Non basta, v'è di peggio; perchè
non tutti camminano collo stesso passo e non è stato scelto un passo
qualsiasi che serva come unità di misura. Se per esempio vi dicono
che occorrono dieci ore da Beinam ad Antiochia e vi appagate di tale
indicazione potreste pentirvene, perchè può darsi che voi superiate
la distanza in cinque ore e fors'anche in quindici, senza poterlo
rinfacciare a chi vi ha dato l'informazione. La colpa sarà tutta vostra
per non aver soggiunto: quali ore? di pedone, di cammello, di mulo?
Di cavallo d'affitto o di cavallo di posta? In alcuni cantoni si conta
sempre ad ore di cammello, in altre ad ore di mulo e così via. Quando
sbucammo dalle montagne eravamo circa a mezza strada e scendemmo in
una valle che ha nel centro un lago ed il lato verso occidente limitato
da una catena di montagne basse lungo le quali serpeggia la strada. A
breve distanza dal lago una vecchia locanda quasi interamente diroccata
faceva ancora una certa figura. La grandezza e la magnificenza con cui
furono costruiti quei monumenti dell'ospitalità orientale sono proprio
straordinarie. A prima vista si direbbero palazzi reali o templi
consacrati a qualche Dio ignoto. Porte simili ad archi di trionfo,
enormi pilastri che sostengono volte alte cento piedi, vastissime corti
aperte su altre ancor più immense e selciate a pietroni, tutto ciò non
contiene che scuderie e tettoie per le merci. Per ciò che concerne i
viaggiatori, non vi è ostacolo a che si stabiliscano per la notte fra
le gambe dei cavalli, oppure sotto la loro testa, cioè su un rialzo
che fiancheggia le mangiatoie. I dintorni di Antiochia armonizzano
coll'antica grandezza di quella città in decadenza[22]. Sul vertice
di una delle montagne che chiudono la valle in mezzo alla quale sorge
l'antica capitale della Siria, si possono ancora scorgere rovine di
fortificazioni. L'Oronte bagna la valle e, prima di entrare nella
città, si suddivide in parecchie braccia che formano degli isolotti sui
quali sono stati eretti dei mulini. Le conche, scaglionate di tratto in
tratto, regolano il corso delle acque che servono ad irrigare deliziosi
giardini. Il riposo ci era offerto ad Antiochia dall'agente consolare
d'Inghilterra, ricco mercante armeno, che con una cordialità perfetta
aveva messo a mia disposizione tutta la sua casa. Mi sarebbe stato pur
dolce di fermarmi ad Antiochia! Tutto mi vi invitava, le rovine ed i
giardini, i boschetti dei lauri rosa e le fontane sacre; ma bisognava
proseguire senza guardare oppure rinunciare a raggiungere Gerusalemme
prima delle feste di Pasqua. Non tardai a decidermi ed allorchè, dopo
la prima notte passata ad Antiochia, il mio ospite venne a domandarmi
qual monumento doveva farmi visitare, rimase male all'udire come avessi
rinunciato a vedere le rarità di Antiochia e contassi partire il giorno
stesso.
Lasciavamo dunque Antiochia senza aver nulla veduto di quanto essa
racchiude; ma la Provvidenza dei viaggiatori che doveva conoscere
ed apprezzare i motivi della mia condotta ci riservava un compenso,
conducendoci verso uno dei luoghi più celebri e, ciò che vale
assai meglio, più belli dei dintorni della città. Era la fontana di
Dafne[23], ove si ergeva una volta, a pochi passi da una sorgente
limpida e copiosa, un tempio che credo fosse dedicato a Venere. Il
sole già alto sull'orizzonte bruciava il nostro capo e cercavamo cogli
occhi fin da lungi un poco di ombra, quando scorgemmo un boschetto
di gelsi che coronava il vertice di una collina. Attraverso a quel
fogliame scuro si indovinavano masse biancastre di varie forme e
misure. Erano colonne di marmo bianco; talune giacevano al suolo,
altre, sebbene tronche, si reggevano tuttora in piedi; il suolo era
ingombro di moltissimi frammenti. In mezzo sorgevano alberi di ogni
età, dal lauro e dall'olivo il cui tronco nodoso era annerito dal
tempo al gelso giovane e flessibile che levava al cielo i suoi rami
snelli come le dita di una mano supplichevole. Le mura del tempio erano
crollate, le colonne rovesciate, e quelle che rimanevano in piedi non
reggevano più nè volte nè frontoni. Ma gli alberi portavano tuttora le
loro foglie, i fiori ed i frutti. E, se i succhi di alcuni si erano
disseccati, ciò non era accaduto prima d'aver affidato alla terra,
custode e tutrice fedele, i germi fecondi destinati alla riproduzione.
La vanità umana non ha ancor imparato la lezione che la natura le
ripete sin dall'inizio della creazione. L'uomo crede innalzare edifici
che dureranno quanto il marmo e gli stessi metalli. Ahimè! Quei fragili
steli, quei fiori e quelle foglie così delicati, che proiettavano un
tempo la loro ombra sui gradini del santuario decantato come perenne,
non ombreggiano oggi che le sue rovine. Anche la più gracile creazione
della natura è immortale ed il lavoro più solido dell'uomo non dura al
di là di un certo tempo.
Non avrebbe dipeso che da noi di partire da Antiochia in una carovana
numerosa. Il Giaur-Daghda non è la sola montagna dell'impero ottomano
che ripari fra le sue roccie sudditi ribelli. La grande tribù
araba degli Ansariati, che occupa una parte notevole del Libano e
dell'Antilibano, da Latakiè fino ai dintorni di Damasco, si era appena
rivoltata ed il pascià d'Aleppo mandava truppe contro quegli indomiti
montanari che pretendevano di sottrarsi alla coscrizione. Vi fu chi ci
consigliò di accompagnarci ai soldati per porci al riparo dai briganti.
Ritenni invece che il viaggiare colle truppe voleva dire affrontare il
nemico; preferii dunque di viaggiare per conto mio e di non pormi sotto
la protezione di alcuno. Durante tutta la mia lunga spedizione non mi
sono allontanata una sol volta da questa regola di condotta e, quando
mi è stato impossibile di rifiutare una scorta, ho avuto cura di non
ammettervi che dei «basci-bozuk» (ciò che si potrebbe tradurre: capi
scarichi), specie di guardia urbana o comunale che deve avere un gran
potere di seduzione poichè è così ben vista dai briganti come dai suoi
propri capi. Non so quali sarebbero state le conseguenze del sistema
- Parts
- La vita intima e la vita nomade in Oriente - 01
- La vita intima e la vita nomade in Oriente - 02
- La vita intima e la vita nomade in Oriente - 03
- La vita intima e la vita nomade in Oriente - 04
- La vita intima e la vita nomade in Oriente - 05
- La vita intima e la vita nomade in Oriente - 06
- La vita intima e la vita nomade in Oriente - 07
- La vita intima e la vita nomade in Oriente - 08
- La vita intima e la vita nomade in Oriente - 09
- La vita intima e la vita nomade in Oriente - 10
- La vita intima e la vita nomade in Oriente - 11
- La vita intima e la vita nomade in Oriente - 12
- La vita intima e la vita nomade in Oriente - 13
- La vita intima e la vita nomade in Oriente - 14