La vita intima e la vita nomade in Oriente - 03

il freddo e non sanno cacciarlo col moto: rimangono durante ore intere
accoccolate per terra dinanzi al fuoco e non riescono a comprendere
che talora altri vi si senta soffocare. Mi pare di venir meno solo che
ripensi a quelle caverne artificiali, ingombre di donne in istracci e
di bimbi maleducati e benedico con tutto il cuore l'eccellente mufti di
Scerkess e la sua singolare delicatezza che mi risparmiò un soggiorno
di ventiquattr'ore nel suo harem, tanto più che non è dei meglio
tenuti.
È un personaggio ben straordinario il mio vecchio amico, il mufti di
Scerkess, a giudicarlo almeno dal nostro punto di vista europeo, perchè
armonizza perfettamente colla società mussulmana. Non gli avrei dato
più di sessant'anni, è alto di statura e leggermente incurvato, ma
sembra piegarsi piuttosto per condiscendenza che per debolezza; porta
con grazia congiunta a nobiltà la lunga toga e la pelliccia rossa dei
dottori in legge. I suoi lineamenti regolari, il suo colorito chiaro e
quasi trasparente, il suo occhio limpido ed azzurro, la sua lunga barba
bianca che scende ondulata sul suo petto, la sua bella fronte alla
quale sovrasta un turbante bianco o verde rigonfio alla moda antica,
tutto ciò potrebbe servire degnamente come modello per un ritratto di
Giacobbe o di Abramo.
Quando si vede un così bel vecchio, circondato da una famiglia tanto
numerosa ed onorato da' suoi concittadini come il simbolo vivente di
tutte le virtù, è difficile trattenersi da un sentimento profondo di
venerazione. Io non abitavo, mi venivo dicendo, la casa di un semplice
mortale, ero ammessa in un santuario. Le vicinanze ne erano affollate
ad ogni ora da devoti di ogni età e di ogni condizione accorsi a
baciare il lembo dell'abito del Santone, a chiedergli consigli,
preghiere ed elemosine. Tutti ripartivano contenti cantando le lodi
del loro benefattore. Egli stesso sembrava corazzato contro tutte le
debolezze umane: la noia, l'impazienza, il disprezzo, il motteggio,
il malumore, l'egoismo. Quale spettacolo incantevole lo scorgere il
vecchio coi più giovini de' suoi figli che gli si arrampicavano sulle
ginocchia, nascondevano il loro viso giovine nella sua lunga barba
e si addormentavano nelle sue braccia, mentr'egli sorrideva loro con
tenerezza, ascoltava attentamente i loro lagni e le loro apologie, li
consolava de' loro crucci con dolci parole, li esortava allo studio
rifacendo con essi e per essi il pesante cammino dell'alfabeto. Io mi
smarriva nella contemplazione di quel giusto dicendo fra me: felice
il popolo che tuttora possiede e sa apprezzare tali uomini! Ma una
conversazione, che ebbi col mufti e con uno de' suoi confidenti, gettò
qualche ombra sulla mia ingenua ammirazione. Il vecchio stava seduto
con uno de' suoi bimbi su ciascun ginocchio. Ebbi l'idea di chiedergli
se avesse molte mogli. Mi rispose: «Non ne ho che due in questo momento
(ed era un po' vergognoso di mostrarsi così sprovvisto), le vedrete
domani e non vi piaceranno — poi fece una smorfia di disprezzo: —
quelle vecchie donne, proseguì, sono state abbastanza belle, ma è
passato molto tempo».
— Che età hanno? — domandai.
— Non ve lo potrei dire esattamente, sono sulla trentina.
— Oh! — esclamò allora uno dei servitori del mufti, — il nostro signore
non può contentarsi di mogli simili e non tarderà a riempire i vuoti
che la morte ha lasciato nel suo harem. Se voi foste venuta un anno fa,
avreste veduto una donna degna di sua Eccellenza; ora che è morta ne
troverà delle altre, non dubitatene.
— Ma — chiesi a mia volta — sua Eccellenza non è giovane, ha sempre
avuto, a quanto pare, parecchie mogli giovani e non le considera tali
che al dissotto dei trent'anni. Calcolo quindi che nel corso della sua
lunga vita deve averne ricevute nel suo harem un numero molto notevole.
— Probabilmente — fece il sant'uomo impassibile.
— E vostra Eccellenza ha senza dubbio molti figli?
Il patriarca ed il suo domestico si guardarono scoppiando in una
risata: poi, quando l'accesso d'ilarità fu passato, il padrone rispose:
— Se ho molti figli? lo credo bene, ma non saprei dirvene il numero.
— Dimmi, Hassan — soggiunse rivolto al suo confidente — mi potresti
dire quanti figli io abbia e dove si trovino?
— In verità, no. Sua Eccellenza ne ha in tutte le provincie dell'impero
ed in tutti i distretti di ogni provincia; ed è tutto quello che io so
e scommetterei che egli stesso non ne sa più di me a questo proposito.
— Come potrei saperlo? — disse il vecchio.
Io volli insistere, perchè il mio patriarca perdeva a vista d'occhio
nella mia estimazione e volevo mettermi il cuore in pace; perciò
ripresi:
— Come sono allevati questi figlioli, chi ne ha cura? A quale età
lasciano il padre? Ove sono stati mandati? e confidati a chi? A quale
carriera sono indirizzati e quali sono i mezzi di sussistenza? E come
li riconoscete?
— Oh Dio mio! Posso sbagliarmi come qualunque altro, ma poco importa.
Del resto li ho tutti allevati, come vedete che faccio con questi
fino all'età in cui hanno potuto bastare a loro stessi. Le ragazze
sono state sposate o regalate a 10 o 12 anni e non ne ho più sentito
parlare; i maschi non sono così precoci e non possono trarsi soli
d'impiccio prima dei 14 anni. Io dò allora a ciascuno una lettera di
raccomandazione per qualche amico che diriga una grande casa od occupi
una carica; egli li colloca in casa sua od altrove, ma tocca ai giovani
stessi di far fortuna, io me ne lavo le mani.
Io domandai ancora: — E non li vedete più?
— Che ne so io? Io ricevo, abbastanza spesso, la visita di persone
che si dicono miei figli e che possono anche esserlo; faccio loro
buon'accoglienze e li ospito per qualche giorno senza chieder loro
nulla. Finiscono bene per comprendere che qui non vi è posto per essi e
che non vi hanno assolutamente nulla da fare. Le loro madri sono morte,
essi sono degli stranieri per me. Per cui se ne vanno spontaneamente
e, dopo essere venuti una volta, non ricompaiono più. Sta bene, perchè
altri arrivano al posto loro e fanno poi come quelli che li hanno
preceduti. Meglio così.
Io non era ancora soddisfatta e continuai:
— Ma questi bei bambini che accarezzate e che vi abbracciano così
teneramente sono destinati a subire la stessa sorte?
— Senza dubbio.
— Ve ne separerete quando avranno raggiunto l'età di 10 o 14 anni?
Non vi preoccuperete cosa diverranno? Non li rivedrete forse più? E,
se ritorneranno un giorno per sedersi ancora una volta alla tavola
famigliare, li tratterete come degli stranieri e li vedrete ripartire,
questa volta per sempre, senza dar loro un solo di quei baci che
prodigate loro adesso? Che accadrà di voi un giorno nella vostra casa
deserta quando la voce dei vostri bimbi non vi risuonerà più?
Io cominciavo ad animarmi ed i miei uditori non mi capivano più. Il
domestico riuscì ad afferrare il senso delle mie ultime parole e si
affrettò a rassicurarmi circa l'isolamento futuro del suo venerato
padrone.
— Oh, — disse — quando questi bimbi saranno grandi, sua Eccellenza ne
avrà altri piccolini, potete rimettervi a lui su questo punto, non se
ne lascerà mancare.
Padrone e servitore scoppiarono in una nuova risata, ma il vecchio
aveva osservato che l'effetto prodotto in me da questa conversazione
non aveva aumentato la mia stima per lui che teneva a conservare.
Affrontò quindi una dissertazione con una certa pretesa di serietà a
proposito delle famiglie troppo numerose e dei loro inconvenienti,
dell'impossibilità di nutrire e di allevare fino in fondo tutti i
propri figlioli, specialmente in una vita così lunga come la sua.
Quest'apologia era svolta in un tono solenne, ma le argomentazioni
sulle quali si fondava non erano per questo meno assurde ed odiose,
tanto che fui ripetutamente sul punto d'interrompere il patriarca. Mi
limitai a compiangere in silenzio il popolo che onora uomini di tal
fatta come modelli di virtù.
L'indomani ricevetti la visita della principale sposa del patriarca;
era un bel donnone, ma orribilmente impiastricciata di rosso e di
nero; vi sarà stato anche del bianco, ma non lo si vedeva. Quando le
restituii la visita, la trovai circondata da tutte le signore della
città che le rendevano onore come alla moglie del personaggio più
importante del paese. Essa sembrava comprendere tutta la dignità della
sua posizione e ne godeva senza scrupoli. Poichè mi piaceva poco non
feci con essa una conoscenza più intima e profittai del permesso del
mufti per tenermi ad una certa distanza dalla porta dell'harem.
Se devo poi darvi un'idea della città di Scerkess, l'antica
Antoniopolis, vi additerò tante piccole case in legno ed in fango più
o meno in rovina, distribuite a caso sul terreno, abbandonando alle
immondizie lo spazio rimasto libero fra l'una e l'altra. Le funzioni di
spazzino sono affidate ai cani quasi selvatici, agli sciacalli ed agli
uccelli di rapina. Nessuno si preoccupa di assicurare agli abitanti
il transito da una casa all'altra. I solchi, le buche, i detriti
dei muri crollati, tutto ciò si accumula, si sfascia, aggravando uno
stato di cose al quale nessuno rimedia. In alcune città, nell'interno
dell'Asia Minore, per traversare le strade si ricorre a dei pattini,
che potrebbero anche esser chiamati dei trampoli, tanto sono alti.
Altrove le suole delle scarpe devono essere rimpiazzate da sandali in
pelle di capra o in pelle di bufalo non conciata e non spogliata del
suo pelo. Non ultimo inconveniente è quello che una persona di statura
appena superiore alla media arrischia di urtare negli spigoli dei tetti
delle case, se non sta in mezzo alla strada. Ecco un quadro fedele di
Scerkess che può applicarsi a tutte le città dell'Asia Minore.

ANGORA E IL CONVENTO DEI DERVISCI
Due giorni di marcia separano Scerkess da Angora[9], viaggio faticoso.
Traversiamo a cavallo montagne nevose e, caso singolare, splende un
sole molto caldo, ma il suolo che scricchiola sotto i nostri passi è
tutto ghiacciato. La prima tappa mi riservò un incidente che poteva
emozionarmi. Eravamo arrivati verso sera ai piedi di una montagna dai
fianchi tappezzati da fitti boschi di pini. Era il tramonto quando
arrivai sulla nuda spianata di quel monte, e il vento del nord che
vi turbinava per poco non mi gettò dal cavallo. Dovevo ancora salire
un'erta nell'oscurità, aggravata da incessanti raffiche di neve. D'un
tratto il cavallo si ferma avendo perduto la traccia del sentiero che
serpeggiava dinanzi a noi come le strade che valicano le Alpi e gli
Appennini. Tutta la mia scorta era immobilizzata e, per aumentare
l'imbarazzo, una mandra di mucche e di asini, guidata da qualche
ragazzo, ostruiva il passaggio nel quale ci sforzavamo invano di
avviare le nostre cavalcature. Era per altro necessario di uscire da
quell'immobilità che ci minacciava di un congelamento, dato il freddo
intensissimo che regna su quelle alture. Il nostro cavass prese una
decisione eroica e lanciò il suo cavallo a caso fendendo gli strati
di neve che avevamo d'intorno. Seguii il suo esempio affidandomi alla
Provvidenza ed il mio cavallo traversò con impeto la distesa di neve
nella quale l'avevo lanciato: perdette piede due volte e due volte
ritrovò un punto d'appoggio, finchè raggiungemmo un terreno più solido
al di là di quel passo pericoloso. Eravamo sulla cima della montagna
non lungi da una casa di rifugio di cui potevamo già scorgere il fumo
ospitale; pochi minuti dopo la nostra scorta ci raggiungeva ed una mano
mezzo gelata, della quale fu difficile riattivare la circolazione, fu
il solo strascico che ebbe per me un incidente come può aspettarsene
qualsiasi viaggiatore che si rechi nell'inverno dall'Anatolia alla
Palestina.
Ormai siamo ad Angora, l'antica Ancira. Mi trattenni in questa città
una quindicina di giorni nel febbraio del 1852. L'archeologo non trova
che poveri avanzi dell'antica capitale della Galazia, ma un viaggiatore
incuriosito dalla vita attuale dell'Oriente può raccogliervi materia
d'osservazioni interessanti. Gli europei, poco esperti di usanze
amministrative del paesi mussulmani, devono aspettarsi purtroppo ogni
sorta di noie.
Io avevo dimenticato, al momento della mia partenza, di far rettificare
un errore che era sfuggito nella redazione del mio passaporto. Contavo
porvi rimedio ad Angora, ove risiede un Caimacan[10], ma egli si
rifiutò di prestarvisi senza una mancia di 15,000 piastre. Non fu
possibile di piegare quell'avido funzionario nè con osservazioni,
nè con rimproveri, nè con preghiere, e mi riescì appena di ottenere
una riduzione nel prezzo. Messa così alle strette e decisissima a
non dare un centesimo a quel mascalzone, gli dichiarai che non avevo
su di me che il denaro indispensabile per arrivare fino a Cesarea e
che non potevo quindi pagarlo che con una tratta su Costantinopoli.
L'accettò ed io gli consegnai la cambiale, ma scrissi al mio banchiere
di non pagarla. Il blocco fu levato non appena consegnai la cambiale
e mi affrettai ad uscire da Angora e dalla giurisdizione di quello
sciagurato Caimacan. Mentre questa faccenda s'era imbrogliata e risolta
dovetti far passare il tempo e pazientare.
Il mufti di Scerkess mi aveva indirizzata al suo amico, il mufti di
Angora, personaggio ancora più vecchio e non meno rispettabile del suo
collega. Egli aveva varcato i cent'anni e possedeva anch'egli delle
mogli giovani e dei bambini piccolissimi. Questo valentuomo aveva
perduto la vista da qualche anno e i dervisci, che aveva consultato,
avevano parlato di una cataratta. Volle sapere ciò che io ne pensassi,
perchè la mia reputazione nella scienza medica è così ben stabilita
in Asia come può essere a Parigi quella del Dottor Andral[11]. Gli
potevo dare qualche speranza perchè non scorgevo una vera cataratta
e gli consigliai una cura che intraprese senza esitazione e che, sin
dall'inizio, gli procurò qualche sollievo. Bastò perchè il buon vecchio
concepisse una grande amicizia per me. Mandava tutte le mattine i suoi
coadiutori a prendere le mie notizie, ed a mettersi a mia disposizione
per tutte le spedizioni e le ricerche che volessi fare. Quei bravi
mufti mi offersero, fra le altre distrazioni, la visita di un celebre
convento di dervisci situato nella città stessa ed io accettai con
premura la loro proposta.
Questo nome di dervisci compare spesso in tutti i racconti orientali
ed in tutti gli scritti che trattano dell'Oriente e de' suoi costumi,
ma, se io vedo bene, l'idea che ci si dà di tali personaggi è
inesatta ed incompleta. Dal canto mio m'ero sempre rappresentato il
derviscio come un frate mendicante mussulmano, un sant'uomo a modo
suo, sottoposto ad una regola più o meno austera, subordinato a capi
appartenenti ad una gerarchia sacerdotale, e costretti ad adempiere
compiti di beneficenza e di sacrificio. Un personaggio così foggiato
dalla fantasia non assomiglia affatto al vero derviscio. Derviscio può
diventare istantaneamente qualsiasi mussulmano purchè si leghi al collo
od infili nella sua cintura un talismano qualsiasi, una pietra raccolta
sul territorio della Mecca, una foglia secca caduta da un albero che
dia ombra al sepolcro di un santo o qualunque altra cosa di suo gusto.
In mancanza di reliquie può scegliere semplicemente un corno nel quale
soffia a date ore del giorno od anche un semicerchio in ferro innastato
su di un bastone destinato a reggere il suo capo nei brevi momenti
nei quali è supposto abbandonarsi al riposo, ciò che vuol dire che il
santone si è condannato alla veglia perpetua. Difatti il bastone che
porta all'estremità questo semicerchio che deve servire da cuscino, non
rimane fermo che per un miracolo d'equilibrio e, non appena l'asceta
ha chiuso gli occhi, il bastone oscilla, cade e sveglia il dormiente.
Vi sono poi dervisci che si accontentano di portare in testa una pelle
di capra a foggia di berretto in punta e questa strana decorazione
basta ad assodare, in favore di chi la porta, il diritto al titolo di
derviscio ed alla venerazione dei fedeli. I dervisci hanno raramente
un domicilio stabile; quasi tutti viaggiatori, vivono, cammin facendo,
di elemosina, salvo a trasformarsi in ladri quando non basti loro la
beneficenza nazionale. Sono chiamati talora a guarire gli infermi,
uomini o bestie, a far cessare la sterilità delle donne, delle cavalle
e delle mucche, a scoprire i tesori nascosti nel seno della terra,
a cacciar gli spiriti maligni che abbiano stregato le greggi o le
ragazze, insomma ad intervenire in tutto ciò che ha del maraviglioso.
Come ogni buon mussulmano essi hanno delle mogli, ma le lasciano nel
villaggio dove sono nate, mentre proseguono i loro eterni pellegrinaggi
scegliendosi una nuova sposa quando si sentono troppo soli, e
abbandonandola quando siano ripresi dalle attrattive del vagabondaggio.
Accade talora che un derviscio ritorni dopo qualche anno per ritrovare
quella delle sue mogli che gli abbia lasciato i più teneri ricordi.
Se la donna lo ha atteso riannoda il matrimonio per qualche tempo; se
quella ha trovato di meglio od ha perduto la pazienza si scusa come può
e non ha nulla da temere dalle vendette del suo primo sposo. Bisogna
riconoscere che questi costumi sono assai facili e non hanno nulla di
crudele.
Tale è nella realtà il derviscio, spoglio delle virtù che gli
hanno attribuito novellieri e viaggiatori. In sostanza non è che un
fannullone, un impostore che diventa talora brigante colla complicità
delle circostanze. Qua e là vi sono però delle associazioni di
dervisci che vivono in comune ed obbediscono a dei superiori. Esse sono
molto più rispettabili dei loro confratelli erranti e si consacrano
particolarmente a talune opere buone, espressione che nei riguardi
dei dervisci esigerebbe un commento, perchè si vedrà fra breve a qual
genere di opere buone si dedichino i dervisci regolari di Angora. Non
dimentichiamo poi che l'ortodossia dei dervisci è molto problematica
e che uno dei loro ordini in ispecial modo, quello della «Pietra della
salvezza», è molto sospetto di indifferentismo riguardo al Profeta ed
a' suoi precetti.
Me ne andai dunque, scortata da due de' coadiutori principali del
mufti, a visitare il convento dei dervisci, o per dir meglio, la
loro residenza d'estate, giacchè, durante l'inverno, quasi tutti si
ritirano nella città, ove vivono come gli altri mussulmani in mezzo
alle loro famiglie ed estranei alla comunità. In uno dei sobborghi
di Angora si trova un giardino, non più grande di cinquanta pertiche
quadrate, chiuso da tutti i lati da dei corpi di fabbrica staccati gli
uni dagli altri e talmente ingombro di chioschi che rimane appena lo
spazio necessario per passare da uno all'altro. Questo strano giardino,
che può avere qualche attrattiva durante la bella stagione quando i
chioschi e le case che li circondano sono tappezzate di arrampicanti,
presentava allora un aspetto deplorevole. Mi sedetti tristemente in
uno di quei chioschi privi delle loro verdi ghirlande, ad ascoltare
distratta ed incredula le descrizioni che i dervisci mi facevano senza
posa degli incanti del loro soggiorno estivo. Ripetevano sopratutto che
l'acqua vi è sempre fresca. È uno dei vantaggi ai quali gli orientali
danno maggior importanza. Quando vi hanno detto che in un paese l'aria
è buona e l'acqua è fredda, si meravigliano che non vi affrettiate a
farne la vostra dimora. Quante volte mi hanno domandato se a Parigi ed
a Londra l'aria sia buona e l'acqua fresca, e alla mia risposta di non
saperne nulla rimanevano tutti sorpresi!
Una buona merenda, consistente in uva ed in pere squisite, miele,
marmellate ed acqua freschissima, mi era stata servita senza poter
vincere la mia crescente inclinazione alla malinconia, tanto che le
mie guide credettero giunto il momento di variarmi i piaceri. Fui
fatta passare in una delle case che circondano il giardino, ove le
mogli dei dervisci stavano riunite per ricevermi e farmi gli onori
della dimora. Ve ne saranno state trenta, pigiate in una stanzetta
ermeticamente chiusa, abbastanza ben mobiliata, ma riscaldata a tal
punto da una stufa in ghisa che avrei avuto uno svenimento se una di
quelle signore non avesse avuto l'estrema bontà di stracciare uno dei
telaj di carta delle finestre per darmi un poco d'aria. In un clima
così caldo nulla è tanto temuto quanto il freddo, e si prendono cure
infinite per ripararsene anche nei momenti in cui i poveri europei
come noi non pensano ad altro che al pericolo di morire soffocati.
Così nei mesi più torridi d'estate potete scorgere degli asiatici
avviluppati in mantelli di panno foderati di pelliccia e tutti attorno
ad un fuoco fiammeggiante, mentre le donne esauriscono la fertilità
del loro ingegno nel trovare il mezzo d'impedire all'aria libera di
penetrare nelle loro case. Durante tutto il tempo del mio soggiorno
ad Angora non riescii a liberarmi un momento solo da un violento mal
di capo prodottomi dalle esalazioni della stufa a carbone. Nelle case
armene si sta ancor peggio: le donne e, qualche volta anche gli uomini,
adoperano per scaldarsi il così detto «tandur», mobile che sembra un
tavolo ricoperto da una lana che si strascina fino per terra. Sotto
questo tavolo si colloca un braciere coi carboni accesi e molta brace.
Tutta la famiglia si pone intorno al tavolo ed ognuno tira a sè la
coperta di lana, ponendovi sotto le sue mani e le sue braccia, così da
arrostirsi alla mite temperatura di 38-40 gradi Reaumur per lo meno.
I più sgraziati accidenti derivano da questi usi, e mi ricordo ancora
di essere stata svegliata la notte precedente alla mia partenza da
Angora perchè una famiglia in pianti mi recava un povero bambino che
s'era bruciato nel domestico «tandur». Il fuoco s'era appiccato a'
suoi abiti di lana e non se n'erano accorti che quando il corpicino era
annerito come il carbone. Nonostante simili disgrazie, che si rinnovano
abbastanza spesso, gli asiatici hanno un grande attaccamento per il
loro «tandur» col quale si abbrustoliscono a buon mercato.
Le mogli dei dervisci mi soffocarono d'amabilità e di testimonianze
d'amicizia, forzandomi ad accettare un fagotto di calze e di guanti
di pelo di capra d'Angora, oltre ad un magnifico gattone della
specie conosciuta fra noi col nome di «gatti d'Angora». Discorremmo
naturalmente delle qualità specialissime degli animali di una tale
regione dell'Asia Minore. È infatti notevole, e meriterebbe di
richiamare l'attenzione degli scienziati europei, la superiorità della
lana delle bestie nate nella provincia d'Angora, in confronto di quella
degli animali di tutto il resto dell'Asia ed anzi del mondo intero. Le
capre d'Angora sono le più graziose bestiole che si possano vedere;
la loro seta, giacchè non si può neppure chiamarla lana, è di solito
bianca, talora rossiccia, grigia od anche nera, ma qualunque ne sia
il colore è sempre altrettanto fina, morbida e lucente. Si potrebbe
scambiarla colla seta più fina che fosse stata ondulata od arricciata
mediante qualche processo recentemente scoperto. Con questo pelo si
fabbrica ad Angora un tessuto molto stimato e si lavorano a maglia
calze e mezzi guanti d'ogni specie. I gatti sono meno utili, ma non
possono sprezzarsi per lo meno da parte di chi ama la bellezza ovunque
si trovi. Questi gatti sono enormi ed hanno il corpo ricoperto da una
densa lanuggine abbastanza simile a quella dei cigni. La loro testa
è molto larga, hanno una coda lunga e folta. La maggiore attrattiva
di questi animaletti consiste nella grazia delle loro movenze, nella
leggerezza dei loro salti, nella rapidità della loro corsa e nel
coraggio col quale picchiano i cani più grossi, che di solito si
guardano dal replicare. Basta che vi allontaniate da Angora di qualche
lega e le capre ridivengono brutte, i gatti comuni ricompaiono col loro
piglio volgare ed il loro carattere sornione. A Conia soltanto capre
e gatti si accostano a quelli di Angora senza raggiungerne la bellezza
incomparabile.
In genere gli animali dell'Asia sono molto superiori a quelli
dell'Europa ed ogni distretto si vanta di possedere il tipo più
perfetto dell'una o dell'altra specie. Se Angora ha le sue capre e i
suoi gatti, i Turcomani, che abitano i vasti deserti della Cappadocia,
hanno i loro montoni colla coda larga, i loro levrieri colle orecchie
spioventi come i «king-Charles» inglesi, i loro cavalli più grandi
e più robusti di quelli arabi. I montoni turcomani, che si trovano
anche fra i curdi, hanno forme assai più graziose dei nostri: il collo
lungo, il muso affilato, lunghe orecchie che scendono parallelamente al
muso e ne seguono il contorno, come i ricci all'inglese accompagnano
il viso di una giovinetta. Il carattere principale di queste bestie
è una coda tanto grossa che pesa talvolta fino a 10-12 oche, misura
turca che equivale a circa 44 once. Questo peso oscillante al di fuori
del centro di gravità imbarazza alquanto la bestiola che è talvolta
nell'impossibilità assoluta di trascinare la sua coda, sì che si
cerca di sollevarla attaccandola a carrettine che reggono l'incomoda
appendice.
Mentre le mogli dei dervisci di Angora mi vantavano le razze
privilegiate della loro provincia, non potevo trattenermi
dall'esprimere a un altro punto di vista la mia ammirazione per i
nobili animali di quei paesi. Ciò che sopratutto mi aveva colpito era
la loro estrema dolcezza, la loro mansuetudine singolare. Il bufalo
che ovunque ha la riputazione d'una bestia selvaggia quasi del tutto
ribelle ai tentativi di addomesticarla non è qui più bellicoso di un
bue. Gli sciacalli, che riempiono queste valli e queste foreste, non
fanno altro che urlare come dei dannati e si tengon paghi di venirvi a
rubare il burro fresco ed il latte fin nella vostra tenda, se l'avete.
Il cavallo, che noi conosciamo così fiero ed indocile, non manifesta
qui nè ribellione, nè collera, nè ostinazione. Anzi le fiere stesse
sembrano partecipi di questa bonarietà universale. Le montagne sono
abitate da pantere e da leopardi, ma non v'ha esempio che queste belve
abbiano attaccato pacifici viaggiatori, nemmeno se andavano a caccia.
Anche il cinghiale non fa la guerra che ai giardini ed alle risaie.
Tutto ciò dipende, almeno per alcuni animali, dall'atteggiamento
usato a loro riguardo. Un Turco, od anche un Arabo, non maltratterà
mai un suo cavallo neppure per correggerlo. Gli parlerà, cercherà di
ricondurlo sulla retta via, ma non riescendo si rassegnerà: «Allah
Kerim!» Mi rammento d'aver molto scandalizzato la mia scorta mussulmana
un giorno in cui, dopo che il mio bel cavallo aveva voluto adagiarsi
in un fiume durante il guado, mi permisi, appena uscita dal mio bagno
inatteso, di infliggergli un salutare castigo. «Oh, non colpitelo!» mi
si gridava da ogni parte. «Che peccato! È così buono e così bello!»
Tutti gli si accostavano per lusingarlo ed accarezzarlo facendogli
dimenticare la mia ruvidezza. Lo stesso accade cogli animali destinati
a lavorare la terra. I bufali non lavorano che finchè lo vogliono e
nel modo che preferiscono. Il pastore non guida mai il suo gregge, ma
lo segue e, occorrendo, lo protegge; così le sue bestie gli vogliono
un gran bene. Ci pare strano udire tutta questa gente discorrere cogli
animali e ciascuno nella propria lingua, cioè indirizzandosi ad ogni
specie di animali con un certo numero di parole, prive di un senso
preciso per gli uomini, ma che le bestie capiscono benissimo. Vi è una
parola ed una cadenza speciale che avverte le capre dell'avvicinarsi
del lupo ed il medesimo monito è dato al cane con altre parole ed
altri suoni. «Voltate a sinistra, voltate a destra, fermatevi, andate
avanti»; tutto ciò si dice in modo diverso ad un montone o ad un
cavallo, a un mulo o ad un bufalo. E sempre bene! Ognuno sa ciò che
questo voglia dire. Tali diversi linguaggi non possono avere suoni
molto delicati nelle sfumature; occorre procedere a grandi linee, o per
meglio dire a grandi strida. Infatti nulla è più curioso delle rumorose
melodie dei contadini, dei cacciatori, dei mulattieri e dei pastori
dell'Asia proseguite da un monte all'altro ed alle quali gli animali
rispondono a modo loro. Si potrebbe comporre uno strano dizionario
colla lingua che gli animali di quassù capiscono, se anche non la
parlano.
Ritorno, come devo ormai, ai miei dervisci. Questa brava gente voleva