La vita intima e la vita nomade in Oriente - 06

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di destra splendidi cavalli arabi, attaccati da catene agli anelli
di ferro infissi nella parete, ricevevano nitrendo e scalpitando le
cure attente di palafrenieri egizi vestiti di tela turchina, piccoli,
magri, di colorito quasi nero, ma vigorosi ed intelligenti. Infine,
sporgendo un poco dal muro di sinistra, un piccolo spazio riservato fra
la muraglia ed una palizzata di legno custodiva una decina di uomini
seminudi, incatenati alle mani ed ai piedi, che tendevano le braccia
chiedendo l'elemosina. Fra quei banditi rilevai dei visi espressivi
e delle movenze che sarebber piaciute a Salvator Rosa; tutta la loro
bellezza era nei tratti e nell'espressione viva, prepotente della
brutalità delle passioni. Non potrei dire che quei visi sembrassero
dimessi; non basta di avere un'anima, occorre sentire la presenza di
quel divino ospite per soffrire, nella vergogna e nel turbamento, della
sua decadenza. La Dio mercè, quasi tutti i delinquenti del nostro mondo
occidentale recano in fronte le traccie di una lotta più o meno recente
contro la loro perversa natura. Quella stessa aria di trionfo che
risplende così spesso in viso al colpevole recidivo non rende anch'essa
testimonianza della realtà di un interno combattimento? Qui si tratta
di ben altro e purtroppo il delinquente non è un uomo profondamente
diverso dal buon cittadino. Talune azioni sono riprovate dalle leggi
umane, ma devo supporre che questa legge religiosa le ignori, perchè,
se i colpevoli sono qualche volta puniti nel loro corpo, non perdono
affatto la loro riputazione. In nessun paese io vidi mai un così gran
numero di uomini entrare ed uscire di prigione con tanta naturalezza ed
indifferenza.
Poichè parliamo dei prigionieri incarcerati dietro la staccionata della
corte del pascià, debbo dire che il loro sguardo era così sicuro, forse
anche più sicuro che il nostro mentre li stavamo guardando. Mi era
impossibile di riconoscere in essi uomini che non avessero una natura
diversa dalla nostra, effettivamente ignari del senso delle parole
vizio e virtù. Anche in Europa mi furono additati più volte autori di
grandi delitti come incapaci di comprendere il senso di quelle due
parole; ma devono esser stati giudicati male, giacchè nessuno nella
società cristiana può essere estraneo alla distinzione tra il vizio
e la virtù. Solo all'infuori del Cristianesimo, anzi della natura
primitiva, solo in seno ad una civiltà quasi altrettanto antica che la
cristiana, ma basata su tutt'altri principii, si deve cercare questo
fenomeno: un uomo senza coscienza!
Scorsi un altro gruppo poco numeroso nascosto in un angolo della corte,
sotto una specie di tetto che sporgeva sopra una finestra. Questi
uomini che contrastavano negli abiti e negli atteggiamenti col resto
della folla variopinta erano ricchi negozianti armeni di Adana che
forse per la ventesima volta venivano a chiedere un'udienza che il
pascià si dimenticava sempre di accordare loro. I sudditi cristiani
del Sultano ormai non hanno nulla da temere nè per le loro persone, nè
per i loro averi; ma la timidezza è naturale nei figli delle vittime.
Guardando i loro turbanti neri, le loro lunghe vesti sbiadite e
lacere, l'espressione umile e timorosa del loro viso, la linea sempre
curva della loro spina dorsale, potreste credervi ancora al tempo
delle confische, delle spogliazioni, dei ratti e delle impiccagioni.
Chiedendo loro di che temono, il loro spavento si accresce; se poi
cercate di far loro comprendere che la crudeltà, la violenza, la
cupidigia sono così estranee all'anima del giovane sultano come lo
sarebbero a quella di un bimbo appena nato, rischiereste di farli
svenire. Tutto fa loro l'effetto di uno spauracchio ed il meglio che vi
resta a fare è di lasciarli rabbrividire quanto vogliono, per la paura
che cercando di rassicurarli non abbiate a gettarli in un parossismo di
terrore.
Avrei ben voluto fermarmi qualche momento in questa corte, ma gli amici
che mi accompagnavano mi andavano ripetendo che la mia visita era già
stata annunciata al pascià, che questi mi attendeva e che bisognava
che ci affrettassimo. Quando fui giunta all'ingresso del vestibolo
della torre quadrata, le loro esortazioni divennero superflue. Mi
venne incontro una fiumana di segretari, sottosegretari, accenditori
di pipe, tostatori di caffè, camerieri ed altri simili dignitari
vestiti mezzo all'europea secondo l'uso di Costantinopoli. Facevano
un gran baccano: e chi mi prendeva per il braccio, per l'orlo della
mia veste o per un lembo del mio mantello, chi si slanciava innanzi
per annunciarmi al padrone, chi infine chiudeva il corteo, sì che fui
sollevata, come in un vortice, fino all'alto della scala. Ho una vaga
idea d'aver camminato sui piedi, sulle ginocchia ed anche sulle mani di
tutta una serie di sollecitatori che aspettavano l'udienza accoccolati
sui gradini; ma in ogni caso quei disgraziati devono aver compreso che
ubbidivo ad una spinta altrui, giacchè non udii levarsi dietro a me
alcuna di quelle imprecazioni così naturali in circostanze simili e
dalle quali forse neppur io avrei saputo trattenermi.
Trovammo il pascià nella sua sala d'udienza di cui tutto il lato
sul quale si aprivano le finestre era accompagnato nell'intera sua
lunghezza da un divano, secondo l'uso ottomano. Tutto il mobilio
consisteva in tale sedile, una tavola rotonda posta in mezzo alla
sala, un lampadario appeso sopra la tavola ed inoltre un piccolo
scrittojo collocato sullo stesso divano accanto al pascià. Bisogna
dire che tale divano non è un mobile che possa rimpiazzare i nostri
sofà, ma una serie di assi che sono considerati un semplice rialzo
del pavimento, tanto che la gente vi si siede sui tacchi come farebbe
in mezzo alla stanza, giacchè qui non si crede possibile di sedersi
dove non si è camminato o non si è rimasti in piedi. A casa mia, cioè
nella mia fattoria d'Asia Minore, ho alcune seggioline intrecciate
in isparto che mi sono state mandate da Milano; nei primi tempi del
mio soggiorno in Turchia ebbi l'imprudenza di offrirle, come sedile,
ad un bey, piuttosto corpulento, che veniva a farmi visita. Quale
non fu il mio spavento allorchè lo vidi rialzare il suo abito come
per eseguire un movimento difficile e porre il suo piede largo sulla
mia seggiolina! La disgraziata fece udire uno scricchiolio di cattivo
augurio ed il bey terrorizzato ritirò il suo piede e si sedette per
terra. Da quel momento si radicò l'opinione nel paese che i Franchi
sono incomparabilmente più leggeri che i Turchi poichè usano sedersi
sui mobili che si sfasciano sotto il peso dei Turchi. A nessuno venne
in mente che il modo di sedersi potesse influire su tale fenomeno.
Il pascià di Adana è cortesissimo, sembra intelligente ed abbastanza
istruito. Credo abbia viaggiato, parla il francese e discorre
volontieri cogli stranieri. Non avrebbe potuto essere più amabile
con me; ma v'è sempre qualcosa che ci sorprende nel tratto di
chi differisce così completamente dalla nostra educazione e dai
nostri costumi. Il loro modo d'interrogare non può che imbarazzare
l'interlocutore. M'era appena seduta al posto d'onore che il pascià mi
aveva forzato ad accettare, ed avevo risposto ai complimenti di rito
sul mio arrivo, il mio soggiorno e la mia partenza, quando il pascià mi
indirizzò a bruciapelo domande simili:
— Cosa pensate che la Russia potrà fare in Oriente? Quanto credete che
durerà in Francia la forma attuale di governo? Credete il movimento
rivoluzionario represso per sempre in Europa?
Cercai invano di tergiversare e di declinare il compito di oracolo
che mi si offriva, insinuando inutilmente che problemi così gravi e
complessi non potevano essere risolti con poche parole ed in pochi
minuti. Ma il pascià, senza badare alle mie scappatoje, ripeteva
imperturbabilmente le sue domande. Finii per rassegnarmi e con tutta
la mia presunzione risposi in tono serio qualche banalità, ciò che
non impedì al pascià di sembrare incantato della profondità e della
precisione delle mie idee.
Dopo ciò parlammo di cose meno gravi, fra l'altro del tempo che
avrei impiegato per arrivare a Gerusalemme ed il pascià venne a
sapere che intendevo viaggiare per terra. Il mio proposito lo allarmò
visibilmente, come la maggiore delle imprudenze, «giacchè senza parlare
degli arabi che infestano tutti i valichi del Libano» egli diceva
«avrei dovuto attraversare, tra Adana ed Alessandretta, una parte
dei monti del Giaurro che, a buon diritto, spaventano non meno delle
regioni più mal famate del deserto».
— Ma perchè non andreste per mare? — mi ripeteva continuamente.
Ebbi allora l'idea di chiedergli se, rinunciando al mio progetto
per imbarcarmi, avrei potuto trovare un battello a vapore che mi
trasportasse da Tarso a Giaffa. La domanda era opportuna, giacchè il
pascià guardò in viso i suoi segretari, confidenti e domestici che
scossero il capo. Dopo qualche minuto di consulti e di discussioni in
arabo, S. Ecc. finì per confessare che il passaggio del vapore aveva
luogo molto irregolarmente, che Tarso non era uno scalo cioè uno
dei porti toccati dal servizio di navigazione, che vi sarebbe forse
un'occasione nel corso del seguente mese, ma che essa avrebbe potuto
tardare tre mesi. Mi propose anche d'imbarcarmi su una nave a vela, ma
quando gli ebbero obbiettato che nel golfo i venti soffiavano in tutte
le direzioni e gli ricordarono tutti i naufragi dell'ultimo inverno, il
buon pascià fini là dove avrebbe dovuto cominciare e concluse che, se
volevo essere a Gerusalemme per le feste di Pasqua, dovevo prendere la
via di terra.
Mi rimaneva da affrontare un ultimo argomento. Poichè stavo per
attraversare questo terribile Giaur-Daghda ed il dado era tratto,
sì che non vi era più luogo a smentirsi, si trattava di superare il
pericolo. Il pascià mi aveva parlato del bey della montagna come di
un uomo che conoscesse e stimasse in modo particolare e credetti di
potergli chiedere senza indiscrezione qualche riga di raccomandazione.
L'ottenni, anzi dovetti accettare una scorta di venti uomini;
inoltre uno de' miei amici di Adana mi procurò un'altra lettera di
un negoziante che aveva reso molti servizi al bey, sì che ormai mi
consideravo al riparo dei pericoli. Preso congedo da quel gentile
pascià, ritornai al mio alloggio per prepararmi alla partenza che ebbe
luogo l'indomani mattina.
In una città del Levante la partenza, come l'arrivo, è una faccenda
importante: tutta la città è in subbuglio. Anzitutto la curiosità,
poi quel sentimento d'ospitalità di cui nessuno oserebbe mostrarsi
privo, da ultimo la consuetudine fanno sì che per il momento qualsiasi
viaggiatore, fosse pure insignificante per sè stesso, diventa una
specie di idolo che non si saprebbe onorare abbastanza. Tutte le case
gli si aprono, si scaldano per lui tutte le caffettiere e tutti i vasi
di marmellate hanno la loro parte in queste cerimonie del saluto. Non
voglio svelare la parte che vi hanno l'ostentazione, l'abitudine od i
sentimenti davvero benevoli; tale ricerca sarebbe tanto più difficile
in quanto che le proporzioni varierebbero da un luogo all'altro. Ciò
che è certo si è che il viaggiatore non si sente straniero in una città
che visita per la prima volta e dove non conosce nessuno. Come ho detto
tutte le porte gli sono aperte, anzi si potrebbe dire altrettanto dei
cuori; quanto alle borse lo sono di certo. Più di una volta mi accadde
di esaurire la somma, colla quale avevo contato di raggiungere la
residenza di un banchiere, quando non ero ancora a mezza strada. In un
caso simile in Europa avrei interrotto il mio viaggio, e scritto al
banchiere, presso il quale ero accreditata, di mandarmi il denaro là
dove rimanevo ad attenderlo. Ma in Oriente, grazie all'irregolarità ed
alla lentezza delle comunicazioni postali, il ritardo avrebbe potuto
prolungarsi parecchi mesi. Non dovetti mai sottostare ad una così
lunga attesa, giacchè fra tante domande che ovunque mi rivolgevano i
miei ospiti ed i numerosi miei amici non mancava quasi mai questa: —
Avreste bisogno di denaro? — E se rispondevo di sì, non vedevo dei visi
lunghi, perchè le offerte de' miei bravi ospiti non erano vane formule
di cortesia. Mi avevano offerto il denaro e me lo recavano colla stessa
intonazione e collo stesso viso. Naturalmente non ho bisogno di dire
che queste somme erano restituite puntualmente; ma chi lo garantiva a'
miei ospiti?
Una volta in un villaggio in pieno Libano, ove avevo dovuto fermarmi
oltre 15 giorni, dopo una serie di incidenti, un monaco carmelitano
sopraggiunse e mi chiese perchè io non continuassi il mio viaggio. Gli
risposi che avevo speso, con quella forzata interruzione, il denaro
col quale avrei dovuto raggiungere Homs, ove avevo dei fondi e che vi
avevo scritto di mandarmi del denaro. Il frate ritornava da Tripoli,
dove si era recato per riscuotere alcune centinaia di piastre. Trattele
dalla bisaccia che era attaccata alla sella del suo cavallo, me le
consegnò dicendo: «Il mio convento è a pochi passi di distanza, io ed
i miei confratelli potremo aspettare nelle nostre celle più facilmente
che voi sotto le vostre tende. Arrivando ad Homs rimettete la somma al
tale.» Mi diede le istruzioni sul modo di fargliele pervenire e riprese
la sua strada. Altre volte ricevetti la stessa prova di fiducia,
da un negoziante, da un turco, da un latino, e anche da un armeno!
Questa fiducia era concessa non a me personalmente, ma al viaggiatore,
all'ospite, giacchè ogni abitante di una città considera suo ospite lo
straniero che vi si trova.
Quando lasciai Adana, la guida che camminava in testa alla carovana
aveva già oltrepassato le ultime case del sobborgo e l'ultimo cavaliere
della mia scorta non era ancor escito dalla porta di casa mia. Come
si vede, formavamo una processione di aspetto molto imponente e la
popolazione della città, assiepata sul nostro passaggio, poteva esser
soddisfatta dello spettacolo che le offrivamo. Tutte le persone che
avevo conosciute, durante il mio soggiorno ad Adana, tutte quelle che
erano venute da Tarso per vedermi, avevano voluto accompagnarmi fino
ad una certa distanza dalla città. Aggiungete al corteo la scorta
del pascià e la nostra vera e propria carovana, bagagli, domestici
e viaggiatori e comprenderete che potevamo ben occupare una metà di
Adana.
Confesso che mi allontanavo con rammarico da quel piccolo mondo di
cui ero stata il centro durante una settimana, da quegli uomini che
avevano tralasciato i loro affari per non occuparsi che di rendermi
la vita dolce e gradevole, per quanto il mio soggiorno ad Adana fosse
stato breve e quei nuovi amici di data recente. La partenza non è mai
cosa lieta e del resto non ero la sola a provare questi rimpianti e
coloro che li inspiravano non ne erano immuni. Non vi era solo della
tristezza sul volto de' miei amici; vi notai qualche ansietà, specie se
accadeva ad uno di essi di trattenersi qualche momento a parte cogli
uomini della scorta. Questi non avrebbero avuto un'aria più cupa e
grave se avessero accompagnato al patibolo una schiera di condannati.
Devo ammettere che cominciavo ad aver paura. Tutti tremavano per me
e giungevo a rimproverarmi l'ostinazione che poteva compromettere non
solo la mia vita, ma quella di una cara fanciulla che non aveva che me
per proteggerla e difenderla. Se a quel momento qualcuno della carovana
mi avesse proposto di ritornare indietro credo che avrei accettato
l'invito con trasporto; ma chi sa mai che avviene nel cuore del suo
vicino? Mentre io formavo i voti più timidi, forse i miei compagni
deploravano la mia temerità.
Gli abitanti di Adana che mi avevano scortato finirono per fermarsi
presso un vecchio albero disseccato che segna il limite oltre il quale
non si accompagnano mai i partenti. Grandi strette di mano, le formule
commoventi di augurio delle quali tutti sono così prodighi in Oriente
e che si imparano facilmente da loro furono scambiate e ripetute da
ognuno: «Dio vi benedica e vi riconduca! Dio vi conceda la salute e la
pace! Voglia farvi felici in quelli che voi amate! Possano i miei occhi
rivedervi! Possa la vostra voce rallegrare il mio cuore!» Voltarono
poi i loro cavalli verso la città ed il settentrione; noi indirizzammo
i nostri verso il deserto ed il mezzogiorno. Da ambo i lati la nebbia
copriva il paese a breve distanza e ci nascondeva la vista dei luoghi
ove ci dirigevamo; ma quelli che ci lasciavano sapevano bene che vi
fosse dietro quella nebbia, la città, il focolare, la famiglia. Noi
invece andavamo verso l'ignoto: a che gli valeva quel velo?

IL BEY DEL MONTE DEL GIAURRO ED IL SUO HAREM
La vita di viaggio non tardò a vincere, colla varietà delle sue
impressioni, il rimpianto che mi lasciava il soggiorno di Adana. Appena
varcata la frontiera del Giaur-Daghda, salivamo le ultime colline
che ci separavano dal golfo di Alessandretta, quando un gruppo di
donne e di fanciulli apparve all'estremo limite del nostro orizzonte,
ristretto in quel punto dall'aprirsi di una valle di cui stavamo per
raggiungere i primi pendii senza poterne ancora misurare l'ampiezza.
Ben presto conoscemmo la causa di quell'affollamento, che non aveva
nulla di terrificante: le famiglie di una tribù di montanari accampate,
colle loro greggi, nella valle vicina venivano a presentarci i loro
omaggi, mentre i loro padri e mariti vagavano altrove. Ci mostrammo
sensibilissimi a quest'atto di riguardo, e dopo avere gettato qualche
piastra a quelle brave matrone, proseguimmo il cammino, lasciando molto
delusa una di quelle signore che aveva avuto la speranza di farsi
regalare della biancheria vecchia. Da buona occidentale io credeva
che il denaro potesse tener luogo, se non di tutti i beni di questa
terra, per lo meno di quelli che si comprano e vendono, ma quella buona
donna, alla quale cercavo di comunicare la mia convinzione, mi rispose
che, per quanto le dessi del denaro, non ne avrebbe mai abbastanza per
comprarsi del pane e che le mancherebbe sempre il modo di soddisfare i
suoi gusti in fatto di corredo.
Qualche passo più in là incontrammo una ventina di cavalieri, piuttosto
bene in arcioni, ed abbastanza ben armati, ai quali comandava un uomo
d'alta statura coperto da uno di quegli ampi mantelli di panno rosso
che hanno il medesimo taglio dei nostri scialli e che sono indossati
dai Curdi meridionali. Il capo della nostra scorta ed il personaggio
vestito alla curda si accostarono come veri fratelli d'arme. Il nostro
capitano mi presentò il cavaliere dal mantello rosso, facendomi
conoscere il suo nome ed il suo titolo: era Dedè bey, luogotenente
di Mustuk-bey, principe della montagna. Il luogotenente era venuto
a conoscenza del mio passaggio negli stati del suo signore e veniva
ad offrirmi i suoi servigi e quelli de' suoi uomini promettendomi
di condurmi, senza ostacoli nè impicci, alla residenza del principe
Mustuk. Non mi rimaneva che di ringraziare quel luogotenente, e lo
feci nel miglior modo possibile. Dedè per altro era un personaggio
troppo importante per porsi egli stesso alla testa della scorta che mi
recava. Rivolse ai suoi soldati un bel discorso per rammentar loro i
riguardi che dovevano avere per me, per la mia qualità di viaggiatrice,
e per l'onore stesso di quelle popolazioni della montagna, impegnato
ad assicurarmi la traversata di quel territorio pericoloso. Soggiunse
che aveva motivo di credere che essi adempirebbero puntualmente il loro
dovere di condurmi al gran bey Mustuk. Dopo avere così istruito il suo
drappello armato, Dedè ne affidò il comando ad uno de' suoi ufficiali,
poi risalì a cavallo e disparve in un labirinto di roccie.
Il luogo dove si svolgeva questa scena mi colpì col suo aspetto
pittoresco. È chiamato la porta delle tenebre, da un antico arco
di trionfo le cui rovine fanno una bellissima figura nel paesaggio,
giacchè l'arco sorge in fondo ad un dirupo che ha una ricca vegetazione
contrastante colla china arida che conduce laggiù. Gli alberi che
circondano la porta delle tenebre sono tanto frondosi da spegnere, per
così dire, la luce del sole, non lasciandone giungere, sino a quelle
venerande arcate, che qualche pallido raggio. Dall'alto delle colline
che incorniciano quella gola, la vista si stende sul mare di Siria,
di cui si ascoltano muggire le onde a poca distanza, e sulla linea
azzurra delle sue coste. Lo spettacolo è splendido sovratutto per
occhi attristati fino allora dalle ombre sinistre dei primi gioghi del
Giaur-Daghda.
Non ci rimanevano che alcuni scaglioni da scendere per toccare la
spiaggia del mare, e ben presto i sentieri rocciosi cedettero all'arena
fine e morbida della riva. L'aria era vibrata, il cielo di un turchino
senza venature, solo leggermente dorato verso il levante. Neppure il
mare aveva una sola increspatura, al punto da lasciar distinguere i
pesci che si dibattevano in quelle acque limpide e tranquille. I nostri
cavalli erano felici di correre su un terreno uguale, di immergere i
loro piedi nelle onde spumose. I nostri cavalli europei sembrano muti,
confrontati al cavallo arabo. Questi ha tutto un linguaggio, capace
delle più varie sfumature, sia che saluti con mille dolci fremiti la
presenza di un padrone amato, sia che chiami con grida reiterate la
cavalla che s'indugia nel prato vicino, sia che provochi un rivale
alla lotta con urla selvaggie. Per il momento i nostri cavalli
manifestavano ingenuamente le impressioni che destava in essi una così
bella natura. Che gioia vederli scalpitare, soffiare, aspirare l'aria
colle loro narici rosate, scuotere le loro lunghe criniere, frementi
di soddisfazione, accarezzati dal vento del mare! Devo dire che noi
partecipavamo interamente alla letizia di quei nobili animali e le
fatiche di sei settimane di viaggio erano quasi dimenticate in pochi
minuti, quando fummo distolte da quelle dolci sensazioni dai suoni
di una musica barbara che si faceva udire a qualche distanza. L'acuto
sibilo di qualche piffero e di qualche zampogna si mescolava al rullo
dei tamburi ed ai colpi sordi delle gran casse. Ed ecco comparire i
musicanti che precedevano una banda di montanari in campagna, cioè
nel corso di una delle loro spedizioni lungo le carovaniere. Il
nostro passaggio era stato annunziato a quei guerrieri nomadi che
accorrevano ad augurarci buon viaggio, anzi ad invitarci a prendere
con loro qualche rinfresco. Sarebbe stato inurbano il rifiutare. In un
attimo saltammo a terra e, affidati i nostri cavalli alla custodia di
quegli ospiti premurosi, ci sedemmo sull'erba, mescolando le nostre
provviste a quelle dei montanari. Un pasto in comune con una banda
di simili avventurieri è una di quelle occasioni che chi ricerca le
emozioni non può incontrare che nel Levante. A dir il vero i montanari
resistettero a tutte le nostre insistenze per deciderli a prendere
la loro parte delle nostre provviste. I doveri dell'ospitalità non
permettevano loro di consentire alle nostre richieste: se essi ci
avevano offerto il loro latte, il loro formaggio, la loro galletta
d'orzo ed i loro aranci era perchè ci riconoscevano come loro ospiti
e per ciò stesso non potevano accettare nulla da noi. Dopo il pasto
venne la siesta, nella giornata calda, mentre il sole, al colmo della
sua corsa, ci dardeggiava co' suoi raggi cocenti. I montanari si
ritirarono in un canto per lasciarci riposare; ognuno si stese per
terra all'ombra di un boschetto. Sdraiata accanto a mia figlia cercai
dapprima di resistere al sonno, ma la stanchezza non tardò a gettarmi
in una sorte di sopore. Quando riapersi gli occhi potei constatare con
grande soddisfazione che quei montanari erano stati fedeli al loro
compito di guardiani ospitali. D'accordo colla nostra scorta essi
vegliarono sui nostri cavalli e sui nostri bagagli. Mi sembrava però
che fosse tempo di partire separandomi da quei curiosi amici. Dopo
aver distribuito un po' di denaro a tutta la banda, e seguiti dalle
sue benedizioni ci allontanammo. Era ormai sera quando giungemmo in
vista del monte che ha dato il nome di Giaur-Daghda al gruppo al quale
sovrasta. L'aspetto del paese che percorrevamo allora, richiamava
taluni angoli verdeggianti e ricchi dell'Inghilterra. Avevamo alla
nostra destra la distesa del mare, illuminata sulla spiaggia dagli
ultimi raggi del sole, velata nello sfondo azzurrigno dalle prime ombre
della notte. A sinistra e dinanzi a noi si ergeva la cima verdeggiante
del Giaur-Daghda sui cui fianchi arrotondati sorgevano molti villaggi.
È raro che in Siria la costa si levi a picco dal mare. Qui, come in
tutto il paese, graziose ondulazioni separano i pendii dalle onde che
ne lambono la base. Lo spazio fra il mare ed il monte assomigliava ad
una fresca vallata della Svizzera. Il borgo di Bajaz[19], residenza
del bey, era nascosto ai nostri occhi da gruppi di alberi giganteschi
e collegati fra loro dalle ghirlande che vi intrecciava capricciosa
la vite selvatica. Tutto intorno a noi era calmo, ridente e sereno;
le campanelle che risuonavano qua e là nella campagna annunziavano il
ritorno delle greggi all'ovile; qualche merlo in ritardo svolazzava
di ramo in ramo a guisa di un gaio compare che, reduce da un banchetto
troppo prolungato, incespichi nel cercare la porta di casa. Le tortore
tubavano tristemente sugli alberi, e tratto tratto si udivano i primi
lagni dell'usignuolo che salutavano il cader della notte.
Allo svolto di un sentiero cinto di siepi vive ci trovammo ad un
tratto all'entrata di una corte irregolare. In fondo sorgeva un
edificio di poca apparenza. Era la casa del bey, ed egli stesso ci
attendeva sulla soglia della sua residenza. L'accoglienza che ci fece
non lasciava nulla a desiderare ed io fui personalmente abbastanza
fortunata di ottenere il permesso di ritirarmi nella mia tenda. Il
tempo cospirava contro di me; piovve così dirottamente durante tutta la
notte che, non volendo incorrere nella taccia di stravagante, dovetti
decidermi a riparare sotto un tetto. Io temeva di essere condannata ad
abitare l'harem; ma il bey, uomo di spirito, indovinò i miei segreti
pensieri, mise a mia disposizione un vasto locale del suo appartamento,
avvertendomi nel tempo stesso che le sue mogli riceverebbero le mie
visite e me le renderebbero tutte le volte che ne avessi piacere.
Una volta rassicurata sulla libertà de' miei movimenti, cominciai
col prender possesso del mio domicilio, ma subito dopo profittai
dell'occasione che mi si offriva, per studiare, a volontà, e sotto un
nuovo aspetto, quella vita dell'harem di cui il mio soggiorno presso il
mufti di Scerkess mi aveva già dato una ben triste idea. Poichè l'harem
è una delle istituzioni più misteriose della società turca non si
troverà forse male che ancor una volta io m'indugi a parlarne.
Col nome di harem si designa qualcosa di complesso e di molteplice.
V'è l'harem del povero, quello delle classi medie e del gran signore,
l'harem della provincia e quello della capitale, l'harem della campagna
e quello della città, quello del giovinotto e quello del vecchio, del
pio mussulmano che rimpiange i tempi andati e del maomettano spirito
forte, scettico, riformatore, che veste la redingote. Ognuno di questi
harem ha il suo carattere speciale, il suo grado d'importanza, i
suoi costumi, le sue abitudini. Il meno strano di tutti, quello che
più si accosta ad un'onesta famiglia cristiana, è l'harem del povero
abitante della campagna. La moglie del contadino, costretta a lavorare
nei campi e nell'orto, a condurre le greggi al pascolo, a recarsi nei
villaggi per farvi o vendere le provviste, non è prigioniera nelle
mura del suo harem. Quand'anche, ed è raro, la casa coniugale abbia
due stanze, di cui una teoricamente riservata alle donne, gli uomini
non ne sono banditi rigorosamente. È raro che il contadino abbia
parecchie mogli. Ciò non accade che in casi straordinari, per esempio
quando un giornaliero, cioè un servo, un inferiore, sposi la vedova
del suo padrone, fatto che non si verifica che se la signora non è più
in età da poter aspirare a miglior partito. Con questo matrimonio il
servo viene ad essere un poco più ricco di prima e, dopo qualche anno
di fedeltà coniugale, quando vede che gli anni hanno camminato più
presto per sua moglie che per lui, profitta della sua agiatezza per
aggiungersi una compagna più di suo gusto. Non conosco altri contadini
poligami che quelli che abbiano sposato, nella loro prima gioventù, una
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